di Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 28/8/2016, 28 agosto 2016
“SAMARCANDA NON C’È PIÙ, SIAMO INSICURI E VIGLIACCHI MA IL DESTINO SIAMO NOI” – [Intervista a Roberto Vecchioni] – Non è poi così vicina Samarcanda: “Rispetto a ieri, in realtà, è lontanissima e oggi una canzone come quella non la riscriverei più
“SAMARCANDA NON C’È PIÙ, SIAMO INSICURI E VIGLIACCHI MA IL DESTINO SIAMO NOI” – [Intervista a Roberto Vecchioni] – Non è poi così vicina Samarcanda: “Rispetto a ieri, in realtà, è lontanissima e oggi una canzone come quella non la riscriverei più. Allora credevo che il destino battesse l’uomo, adesso penso esattamente il contrario. L’uomo è labile, insicuro e vigliacco. Ha mille difetti, il più grave dei quali è non riuscire a stare al passo con le idee, ma può guidare il proprio destino, cambiarlo, piegarlo alle proprie esigenze”. Roberto Vecchioni ha 73 anni e dopo 26 dischi, molti premi, 10 libri e alcuni decenni spesi a insegnare nei licei torna ad assegnare voti da giurato del Premio Campiello. Il 10 settembre (diretta su Rai5 e trasmissione del premio letterario promosso da Confindustria Veneto su Rai3 a mezzanotte circa), Tarabbia, Rasy, Doninelli, Vinci e Bertante avranno bisogno anche del voto del professore: “Nella mia vita non ho messo molti 2, ma neanche molti 9. A me il Campiello sembra l’incontro perfetto tra il popolare e il colto, un’operazione che con canzoni come Chiamami ancora amore, El bandolero stanco o Voglio una donna, in musica ho tentato spesso. Sono canzoni popolari. Sono canzoni dignitose. Provare a essere popolari tentando di raggiungere anche chi magari non ti avrebbe ascoltato non è un’empietà. Questa storia che in una certa tv non si possa metter piede pena la contaminazione ad esempio, mi è sempre parsa una puttanata tremenda. Come mai? Non si può andare solo da Fazio o su Rai3. Se la trasmissione non è deliberatamente stronza o fascista, si può affrontare serenamente una platea che non somigli da vicino al cenacolo intellettuale. A me piace quel concetto di Orazio: ‘Non è il posto che fa me, ma sono io che faccio il posto’. Nei luoghi in cui vado, a iniziare dalla tv strapopolare, mi sento un ospite d’onore e so di restare sempre me stesso. Non sono lì per vendere il culo, ma per ampliare il mio pubblico. Perché ha accettato di fare il giurato al Campiello? Esattamente per questo. Il Campiello non si rivolge a un pubblico stracolto, straoriginale e strasnob. Non propone libri che leggeranno forse dieci persone in tutto, parla alla gente comune e coniuga cultura e arte popolare divulgando la lettura. Il Festival di Mantova e la Fiera del libro sono eventi molto frequentati, ma il popolo dei lettori resta pur sempre una minoranza. “Non mi importa se non ho una platea sterminata, in questo sono un po’ snob”. La frase, di qualche anno fa, è sua. Intendevo dire che mi sono sempre sentito libero di andare in direzione della mia curiosità. Nei primi anni non sempre era possibile. Prima di esordire lei ha scritto canzoni per altri. Ho esordito tardi, a 27 anni e prima di allora ho tradotto i pezzi di Rod Stewart e scritto per chiunque. Mi facevo le ossa scrivendo canzoni non certo eccezionali che partecipavano a Sanremo o a Un disco per l’estate. È stata comunque una palestra importantissima, anzi fondamentale, quell’età. A Porto Recanati, proprio l’altro giorno, ho incontrato Alberto Salerno. L’autore del testo di Io vagabondo. Un vero paroliere, come Mogol o come Calabrese. Gente che sapeva come scrivere un testo. Quali parole mettere dentro e soprattutto quali non mettere mai. Salerno era desolato: ‘Nessuno sa più scrivere un testo decente’. Aveva ragione. Nelle canzoni italiane contemporanee non c’è più una logica e al successo si arriva lungo vie che raramente costeggiano la qualità. In quanti sanno che lei ha scritto un lontano inno dell’Inter intitolato Inter Spaziale? Per fortuna in pochi perché la canzone era una merda. All’epoca, anche per ragioni alimentari, facevo quello che dovevo fare. Volevo essere economicamente indipendente e scrivere per gli altri mi serviva a mantenermi. Suo padre, un azzardo vivente, si giocava il cielo a dadi. Ma mio padre non ci ha mai fatto mancare mai niente e ci ha fatto vivere costantemente al di sopra delle nostre possibilità. Era un grande signore, papà. Un generoso. Quando è morto non ci ha lasciato niente, ma chi cazzo se ne frega, no? Lei ha esordito in un decennio di cantautorato floridissimo. De Gregori, Dalla, Conte, Venditti, Guccini, Fossati. Come se in Serie A giocassero Messi e Ronaldo. A consigliarmi di giocare nello stesso campionato fu Guccini: ‘Devi smetterla di lavorare per gli altri, lavora per te, racconta il tuo mondo’. Tranne rare eccezioni come Nannini, Oxa, Pravo e Vanoni, da un certo punto in poi ho lavorato sulle cose che mi piacevano. In Montecristo suonano Dalla, Finardi e Venditti. All’epoca i cantautori condividevano esperienze e collaboravano più di quanto non accada oggi? Non mi pare. In realtà ci si guardava quasi in cagnesco, come da una bottega rinascimentale all’altra come a dire: ‘Chi crede di essere questo qui?’. Esistevano alcuni momenti creativi in comune, ma non c’erano poi tutti questi scambi. Ognuno scriveva per i fatti propri. Per conto suo. Tra i cantautori aveva molti amici? Alcuni, come Paolo Conte, conosciuto al Club Tenco, erano universi misteriosi e silenziosi. Altri, penso a De Gregori e a De André, mondi del tutto impenetrabili. Ero amico di Dori Ghezzi e Fabrizio lo incontravo spesso, ma sostenere che abbia mai intrattenuto una conversazione che superasse i tre minuti con lui sarebbe osceno. Erano strani e geniali, i cantautori. Avevano caratteri chiusi e difficili, fragilità caratteriali e lune storte. E se non le avessero avute, d’altronde, non sarebbero stati così geniali. C’era qualche eccezione? Qualche compagnone? A Venditti, conosciuto in un campeggio siciliano molti anni prima che scrivesse Roma Capoccia, volevo molto bene. Come a Dalla. Un fenomeno. Un meraviglioso fuoco d’artificio. Nella dialettica Lucio non aveva rivali, ma amava tenere la scena da solo. Quando parlava, doveva parlare solo lui. E tu dovevi starlo a sentire. Un altro simpatico, scisso tra sua discrezione ascetica e il suo saper tener banco in compagnia da assoluto protagonista e da anima della festa, è Battiato. Alcune delle barzellette migliori della mia vita le ho ascoltate da lui. Momento conviviale per eccellenza da lei evocato prima, il Club Tenco animato da Amilcare Rambaldi. Al Tenco ci siamo divertiti molto. David Riondino e Roberto Benigni erano bravissimi nel gioco delle ottave: due strofe a testa in rima inventate sul momento con tanto di eliminazione, semifinale e finale. Vincevano sempre e insieme a loro, con tutti gli altri, facevamo scherzi tremendi, prese in giro feroci, giochi e burle con i quali tiravamo fino alle 7 del mattino. Io e Guccini una sera ci vestimmo da ribelli ceceni e mentre Francesco cantava in una lingua che non conosceva, io traducevo a braccio per i presenti. Andammo avanti due ore. Eravamo allegramente impresentabili, scaciati, direi molto felici. Anche se non esiste niente di più relativo della felicità. Lei a Guccini ha dedicato Canzone per Francesco: “E non c’è niente che non passi con il vino”. Che bevessimo come pazzi è sicuro e non solo al Club Tenco. Era una forma baudelairiana di intendere la vita, un’abitudine forse un po’ scontata ma fondamentalmente inoffensiva. Però nei nostri consessi, tra Lolli e Guccini, c’era solo il rosso, anzi l’assenzio. La droga non esisteva. Al peggio, la mattina dopo avevamo un po’ di mal di testa. Certi consessi producevano canzoni malinconiche? La malinconia era una costruzione interna. Un vestito che ci si metteva addosso. L’impressione di un momento. Una delle tante anime di un cantautorato ricchissimo ed eterogeneo. Non c’è un cantautore italiano che sia uguale a un altro come invece accade in America o in Francia. C’è diversità. Ci sono sfumature, anche nello stesso artista. Se penso a Guccini o al suo Stanze di vita quotidiana, non riconosco il cantore del progresso e della libertà di Locomotiva penso a un uomo che sta raccontando di uno spazio che sognava e ora non vede più. Sente che la giovinezza sfuma all’orizzonte e si rattrista, ma in realtà si inganna. Quando si è giovani credi che le cose non torneranno più, ma non è vero. Tornano. Tornano sempre. Cosa non torna? Certi amici e dovrei dire anche un paio di donne, ma non lo farò. Perché? Perché l’amicizia è superiore all’amore e perdere un amico è molto peggio che essere lasciati. L’amore lo puoi sostituire, un amico come quello che hai perso non lo troverai mai più. Ne ho persi alcuni per sciatteria, per insensibilità del momento, per incomprensioni da nulla, per una stronzata. Ancora mi dispiace. Quando si rompe la magia è finita. Recuperare è impossibile. Il solco non si riempie e la ferita non si rimargina. In Luci a San Siro perdeva per sempre una ragazza: chi era la ragazza “che tu sai” della canzone? Anche se il reato è caduto in prescrizione, preferisco non dirlo. Lei è grande, ha avuto la sua vita e i suoi figli ed è stato un grande amore dei miei vent’anni. Io ne avevo 16. Mi fece soffrire, ma quella sofferenza fu un motore fondamentale. Se non mi avesse lasciato il giorno stesso in cui partivo militare, non avrei mai scritto Luci a San Siro e tutte le altre canzoni. Con lei ho imparato molto. L’amore struggente, la passione, l’addio. Quella storia mi ha condizionato per tutta la vita e anche a distanza di tanto tempo, in fondo, ho continuato a scrivere canzoni sull’addio e sul distacco, pensando sempre a quello. Sa che c’è? A volte la felicità si maschera da dolore e anche se il dolore è brutale, qualcosa resta. La ragazza no, ma quella canzone è stata tutta la vita con me. Nella vita le è capitato di tutto. Anche di finire in carcere, come raccontò in Signor giudice. Fu a Marsala, per un equivoco. Venni accusato di aver passato una canna a un adolescente e mi feci tra la Sicilia e Milano un’abbondante settimana di galera. Mi trovai bene. Con il direttore del carcere, a Marsala, in un carcere nuovo e praticamente deserto, giocavo a carte. Aspettavo che il giudice arrivasse a firmare l’ordine di liberazione, ma a quello non fregava un cazzo. Lui restava al mare e non arrivava mai. Misi la storia in strofe e note. Dopo quattro anni di perquisizioni e situazioni kafkiane venni assolto perché il fatto non sussisteva. A Marsala si erano inventati una balla, forse per politica c’erano le elezioni, forse per protagonismo, forse per mitomania. Il ragazzo che mi aveva accusato confessò che non c’entravo niente fuori tempo massimo. Lei non ha scritto molti pezzi politici. Ho capito in fretta che sarei stato sempre dalla parte delle minoranze, ma non mi sono mai sognato di trascinare le mie idee politiche in una canzone. In Vaudeville però immagina il palco di un concerto come una corte marziale: “E spararono al cantautore/ in un eccesso di gioventù”. Erano anni tremendi. E capitò anche a me, nel ’77 a Bologna, proprio quello che accadde a Francesco De Gregori al Palalido nel 1976. Portai la canzone Samarcanda alla commemorazione di Lo Russo, ucciso a Bologna dal colpi di pistola esploso da un carabiniere nel 1977. La canzone, con quel ritornello sul cavallo, venne vista come una filastrocca per bambini, come una specie di affronto provocatorio e il pubblico si inferocì. Il pubblico tirava di tutto, fui portato via dal palco e messo in salvo. Fu scioccante e mi chiusi in casa per mesi a capire dove avessi sbagliato. In cosa aveva sbagliato? Anche se Samarcanda non era un brano per bambini, fui superficiale e toppai canzone. Non era il contesto giusto. Fui ingenuo e forse non ero pronto a gestire il mio primo successo. L’album precedente a Samarcanda aveva venduto 15.000 copie. Quello successivo 80.000 copie in una settimana. Andrea Pazienza disegnò le copertine di alcuni suoi dischi. Andrea era completamente indifeso, ma aveva una rabbia interiore che esprimeva in maniera poetica e mai con il terribile rancore dello slogan. Era ironico, spiritoso, unico. Andrea era Lord Brummel. Faceva di tutto per non farsi notare eppure lo notavano tutti. Era magnetico, goliardico, imprevedibile. Per sette giorni magari non muoveva la matita, poi all’ottavo dipingeva tre disegni meravigliosi che erano sempre il contrario di quel che gli avevi chiesto, ma che ovviamente brillavano per meraviglia. Parlava poco, ma quando parlava somigliava a una lancia. Diceva sempre la cosa giusta. Andava al centro dei problemi. Vecchioni si sente un incompreso? Un incompreso no, ma ho scritto quasi 300 canzoni e sono consapevole che 200 siano quasi sconosciute. Qualcuna è interessante, qualcuna come Viola d’inverno credo addirittura bella, ma al grande pubblico non arriveranno mai. Perché? Forse è stato un difetto di comunicazione. Non bisogna solo scrivere bene, ma anche arrivare al cuore. In questi anni ho cercato di affinare i testi, di cercare l’aggettivo giusto, di lavorare a stretto contatto con quel che mi interessa raccontare. Ci sono riuscito? Non lo so. Chi c’è riuscito? Su tutti Vasco. Chi comunica meglio di lui in Italia? Nessuno. Vasco non scriverà I promessi sposi o l’Infinito, però cazzo, tanto di cappello. A spiegarsi a mezzo della musica popolare è stato il più grande. E lei? Qual è il suo posto? Sento di poter stare nella stessa risma degli altri cantautori. Mi chiamano professore. Eco aveva detto che il più grande cantautore italiano è Guccini. Francesco ha risposto che in realtà sono io perché ho studiato il greco. La qualifica accademica almeno non me la toglie nessuno. Invecchiare le dispiace? Gli amici iniziano ad andarsene. Ti giri e dici ‘vabbè, ma quello davvero non c’è più?’. E lei ha paura della morte? Nessuna. Non c’è niente di cui disperarsi. Ho avuto una vita bellissima e mi sento felice. Ho solo una raccomandazione da fare. Dica Vecchioni. Che vengano allegri, che bevano e che ballino, soprattutto. di Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 28/8/2016