di Guido Rampoldi, il Fatto Quotidiano 29/8/2016, 29 agosto 2016
GUERRA INESTINGUIBILE, L’ALTRO NOME DEL TERRORE
In fondo è una storia antica. Ventitrè secoli fa Alessandro il Macedone sbaragliò qualsiasi nemico tra l’Egeo e il fiume Indo. Ma quando chiese sottomissione alle ferocissime tribù della Scizia, in Asia centrale, quelle lo sfidarono con le parole che Curzio Rufo riporta così: “La nostra povertà sarà più veloce del tuo esercito, attardato dal bottino preso a tante nazioni. Quando ci crederai lontani riappariremo nel tuo campo”. Lo scontro con gli Sciti fu l’unico in cui i macedoni non prevalsero. Vinsero battaglie campali ma non riuscirono ad estinguere la guerriglia nemica e si ritirarono. Gli Sciti proclamarono la vittoria.
Oggi sembra procedere a quel modo anche un’altra guerra asimmetrica, lo scontro tra le democrazie occidentali e l’islam guerriero cominciato l’11 settembre 2001, con l’attacco alle Twin Towers. In questi quindici anni la vecchia nomenklatura di al-Qaeda è stata sterminata, eppure l’organizzazione lavora al progetto di un nuovo Califfato a cavallo tra Siria e Iraq. Una sua filiazione, l’Isis, presto perderà la Libia e in futuro forse anche la Siria: ma riemerge in Afghanistan, e gli attentati in Europa che ispira ne confermano la capacità di “riapparire nel nostro campo”, alle nostre spalle, all’improvviso. In Medio Oriente e in Africa sono nate dozzine di nuove formazioni jihadiste, cui potrebbe aggiungersi un Califfato 2.0, immateriale e perciò imbattibile, che dalla profondità oscura di internet, dal deep-web, attiva ubiqui attentatori.
E ovunque l’offensiva dell’islamismo guerriero, saldandosi ad altri conflitti, alimenta la grandiosa Fabbrica del Caos. Che non sarebbe così efficiente, nel produrre combattenti e instabilità globale, se le democrazie occidentali non fossero ancora perse nella nuvola di polvere in cui si dissolsero le Torri Gemelle. In quindici anni non siamo riusciti neppure a dare un significato chiaro alla formula coniata dalla presidenza Bush, la war on terror, cui l’Europa si accodò. Quelle due parole continuano a generare equivoci. Cosa sia oggi ‘guerra’ e cosa ‘terrorismo’, ecco allora il primo problema.
Se cercate in Google ‘terrorismo’ con ‘Nazioni Unite’ avrete 46 milioni di documenti in lingua inglese. Il Consiglio di sicurezza ha sfornato montagne di risoluzioni contro il ‘terrorismo’. Eppure nessuno tra i suoi membri pare aver voglia di attribuire a quel termine un significato preciso, malgrado proprio la mancanza di una definizione comporti l’impossibilità di sanzionare governi o potentati islamici che aiutano Isis, al-Qaeda ed equivalenti.
Questa lacuna è accettata perché altrimenti molti Stati rischierebbero di essere chiamati a rispondere di operazioni militari assai controverse, per esempio i bombardamenti russi in Siria. Ma anche Obama avrebbe difficoltà a giustificare i dati al 2014 del Bureau of investigative journalism: per ogni capo di al-Qaeda o dei Taliban che hanno eliminato, i droni americani hanno ucciso 27 afghani o pakistani, inclusi donne e bambini. In un’intervista a Time magazine concessa al tempo dell’amministrazione Bush, un anonimo ufficiale americano spiegò che nel colpire una casa – una di quelle case fortificate che sono la norma nelle regioni pashtun – l’aviazione Usa sapeva benissimo che avrebbe sterminato intere famiglie. Però calcolava che la strage sarebbe stata di esempio, ‘ecco cosa accade a chi nasconde i nostri nemici’. In realtà il messaggio arrivato alla popolazione è stato: ‘ecco di cosa sono capaci gli occidentali’. Il risultato: una progressione esponenziale, per la quale un uso dei droni che tecnicamente corrisponde all’idea comune di ‘terrorismo‘ (come ‘violenza indiscriminata per spaventare una popolazione e indurla ad assecondare chi la colpisce’) regala un serbatoio di potenziali ‘bombe umane’ alle moschee che fabbricano questi kamikaze: si tratterà di convincere i sopravvissuti al bombardamento che è loro dovere vendicare i familiari.
Anche ‘guerra’ è parola frequentissima nella retorica di quei governi europei cui proclamare ‘Siamo in guerra!’ sembra una prova di determinazione. L’abuso del termine non ci aiuta a capire che le guerre in corso sono molto più larghe e complicate dello schema ‘noi contro loro’ cui siamo affezionati. Avremmo dovuto scoprirlo fin dalla liberazione dell’Afghanistan. I Taliban, detestati da gran parte della popolazione, si squagliarono come neve al sole (2002). Ma in pochi anni il Pakistan li rimise in piedi con massicci rinforzi di suoi pashtun e ne prese definitivamente il controllo. Come Islamabad usa i Taliban per tentare di trasformare l’Afghanistan in uno stato vassallo, così potenze regionali patrocinano con rifornimenti e aiuti le altre etnie afghane (l’India i tagichi, l’Iran gli hazara).
È un nuovo tipo di conflitto, la Guerra Inestinguibile: non può mai chiudersi con una vittoria o una sconfitta definitive perché gli Stati che la alimentano lo impediscono. Non a caso la guerra afghana dura da 38 anni. La guerra siriana ormai sembra dello stesso tipo. La guerra libica è su quella strada.
Questi conflitti hanno una seconda caratteristica che li rende ancora più intrattabili: sovrappongono vari piani non allineati (geo-politico, etnico, intra-islamico, sociale). Sono guerre ‘multi-strato’ che seguono dinamiche non prevedibili, essendo troppi i fattori che si combinano. Da qui le esitazioni di Obama. La sua dottrina militare è fondata sulla regola aurea che il presidente ha spiegato così al settimanale Atlantic: Don’t do stupid shit, non fare stronzate. Considerando le clamorose stupid shit commesse in questi quindici anni dagli occidentali (e anche dal primo Obama), astenersi è già un progresso notevole. Ha evitato agli Stati Uniti la sorte cui li destinava la politica neocons, ammalarsi della malattia di cui muoiono gli imperi: l’imperial overstretching, il dissanguamento dovuto ad un’eccessiva esposizione militare. Ma se ogni intervento appare azzardato, essendo difficilissimo allineare e infilzare con un colpo di spada tutti i differenti livelli dello scontro, anche l’inazione può essere un errore, quando finisce per assecondare la tendenza dei conflitti ‘multi-strato’ a richiamare sponsor esterni e a metamorfizzarsi in Guerra Inestinguibile. Col passare del tempo il caos cresce fino a dimensioni non più maneggiabili né circoscrivibili; con l’anarchia militare aumenta la ferocia, con la ferocia il desiderio di vendetta. E ingigantisce il numero di quanti scoprono che un kalashnikov rende. Per chi ha imparato il mestiere delle armi e conosce solo quello, la pace è una iattura.
A soffermarsi sugli aspetti sociologici delle ‘guerre sante’ si rischia di essere scambiati per i fessi che giustificano il terrorismo come risorsa degli emarginati. Però ci sarà pure un motivo se la metà dei messaggi lanciati in internet dall’Isis non promettono il paradiso ma mostrano i vantaggi concreti che offrirebbe il Califfato: una paga dignitosa, un buon welfare, una giustizia rapida ed equanime. Quanto non è nell’orizzonte delle masse arabe. La povertà gioca a favore della jihad come un tempo giocava a favore di altri mozzatori di teste, gli Sciti nemici di Alessandro. Posti di fronte a questa evidenza gli occidentali hanno finanziato regimi arabi traballanti attraverso gli istituti del credito internazionale, nel calcolo che il denaro investito avrebbe garantito un ritorno e prodotto stabilità. Ma come vanno le cose nel concreto? Di recente il Fondo monetario ha erogato un prestito triennale al pericolante Egitto, 13 miliardi di dollari, però condizionato a provvedimenti di austerity che graveranno sui redditi più bassi. Risultato prevedibile: forse qualche grande opera, ma la casta militare, dopo aver rubato il possibile, aumenterà la repressione per evitare d’essere travolta da una sollevazione popolare. Più povertà e più camere di tortura vuol dire più instabilità e più guerrieri islamisti. Eppure la proposta di condizionare i prestiti al rispetto dei diritti umani non incontra i favori di molta diplomazia occidentale, quella che per tradizione bada soprattutto al business e non si adombra se i generali massacrano sindacalisti e islam politico. E’ la vecchia scuola del Realismo. Che non è realista. Continuare ad affidarsi alle caste militari come se non ci fossero mai state le rivoluzioni arabe significa non aver capito che quella parte di mondo è cambiata per sempre.
Sta cambiando anche l’Europa, quando si tratta di terrorismo e ‘questione islamica’ la geografia destra/sinistra ormai non funziona più, nascono ibridi sorprendenti come la ‘sinistra identitaria’. Quali saranno le nuove coordinate del pensiero politico? Sul New York Times Jason Stanley, un filosofo di Yale figlio di ebrei scampati all’Olocausto, racconta le opposte lezioni apprese dalla madre e dal padre. L’esperienza aveva insegnato ad entrambi che l’umanità è feroce. Ma la madre era convinta che, essendo la storia solo un’orrida mischia, convenisse prenderne atto e curarsi unicamente del proprio gruppo umano. Il padre invece difendeva principi e diritti universali e attribuiva pari dignità a tutte le società. Da una parte un Realismo liberal, un ottimismo della volontà privo di illusioni; dall’altra un pessimismo rassegnato, rannicchiato nella difesa di una presunta diversità (i nostri valori, la nostra cultura, la nostra civiltà). Chissà che la nuova geografia politica non cominci da questo bivio.
di Guido Rampoldi, il Fatto Quotidiano 29/8/2016