di Giorgio Meletti, il Fatto Quotidiano 29/8/2016, 29 agosto 2016
IL FANTASMA DI ANDREATTA SULLA POLITICA ITALIANA
Il fantasma di Beniamino Andreatta detto Nino si è sempre aggirato per la politica italiana. Nei primi anni 60 era il ghost-writer di Aldo Moro e gli scriveva discorsi polemici contro il rigore monetarista dell’allora governatore della Banca d’Italia Guido Carli. Nel 1976 entrò in Parlamento sull’onda del rinnovamento della Dc di Benigno Zaccagnini. Fu più volte ministro ma tornò fantasma dopo essersi opposto alle pressioni di Giulio Andreotti per salvare l’amico Michele Sindona e per coprire le responsabilità vaticane nel crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Tornò in prima linea da leader nella stagione dell’Ulivo, fino alla sera del 15 dicembre 1999: un malore a Montecitorio durante la discussione sulla legge finanziaria, il soccorso dei deputati medici, il cuore che riprende a battere lasciando un danno cerebrale che lo fa tornare fantasma nel modo più crudele. Sette anni di inutili tentativi di svegliarlo sui quali la moglie Giana Petronio, psicoanalista quindi scienziata, ha reso a Mariantonietta Colimberti, giornalista per molti anni portavoce di Andreatta, piena e coraggiosa confessione: “Dopo la scienza non mi vergogno di dire che ho adito anche altre strade: un sacerdote pranoterapeuta, i neocatecumenali, nella persona di un certo padre John noto su Rete 4 per i ‘miracoli’ che faceva quotidianamente o quasi. (…) Ero contenta che intanto fosse vivo, caldo e palpitante, e potessi accarezzarlo, baciarlo, massaggiarlo, rivolgergli la parola. Era ancora con noi, e volevo ci rimanesse il più a lungo possibile”. Quando il cuore di Andreatta si è fermato l’omaggio più affettuoso venne dal suo proverbiale avversario, Rino Formica: “Penso soprattutto alla lunga agonia, a questa tragica parentesi della sua vita. Sono triste perché era un amico a cui volevo bene”. La loro memorabile lite che nel 1982 fece cadere il governo Spadolini spiega perché il fantasma di Andreatta fa ancora paura. L’economista faceva la politica con la P maiuscola. Nel 1981, d’accordo con il governatore Carlo Azeglio Ciampi, aveva deciso il cosiddetto divorzio tra il governo e la Banca d’Italia: l’istituto di emissione era liberato dall’obbligo di comprare i titoli di Stato messi in asta e non sottoscritti dal mercato. Una mossa tuttora controversa che puntava a uno Stato pienamente responsabile della dinamica già impazzita del debito pubblico.
Formica, ministro delle Finanze, contrappose una sorta di consolidamento del debito pubblico, un default controllato in cui lo Stato avrebbe rimborsato ai portatori di Bot solo una frazione del capitale dovuto. Andreatta dettò al Popolo, organo della Dc, una nota beffarda: “Sulla piazza del mercato è arrivato trafelato un noto commercialista di Bari che è anche ministro delle Finanze e capo della delegazione socialista al governo. I suoi propositi peccano del peggiore dei crimini: l’insulto all’intelligenza”. Formica rispose: “Se un dotto professore che ha studiato a Cambridge e si è specializzato in India perde le staffe e usa un linguaggio da ballatoio vuol dire che abbiamo una comare come Cancelliere dello scacchiere”. Ma non fu la “lite delle comari” a costare ad Andreatta l’emarginazione. Pochi giorni prima aveva rivendicato la liquidazione dell’Ambrosiano affidata all’amico Giovanni Bazoli e la linea dura contro lo Ior di Paul Marcinkus, un Bertone degli anni ’70: “L’Italia non è una repubblica delle banane e la fermezza non è la peggiore delle strade”.
Nel marzo scorso Enrico Letta, suo allievo e successore alla guida dell’Arel, ha evocato il fantasma di Andreatta gettandolo tra i piedi di Matteo Renzi. La solenne presentazione a Montecitorio del libro Andreatta politico ha proposto lo stile del maestro come antidoto al declino della politica: “La modernità – ha detto l’ex premier – non è fare surf sulle onde del presente con la banalizzazione di tutto in 140 caratteri”. Poi ha aggiunto: “L’idea di questo libro è nata il giorno dopo l’elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica. La sua elezione riconosce il ruolo di questi cattolici”. Sono i cattolici cresciuti alla scuola di Andreatta: Letta e Bazoli, lo stesso Mattarella, e poi Romano Prodi, suo assistente all’Università di Bologna e da lui indicato per la guida dell’Ulivo nel 1995, che continuò a dargli del lei anche quando era presidente del Consiglio e il professore suo ministro. “Do del tu a chi non stimo”, tagliò corto Andreatta con chi gli chiedeva spiegazioni della stranezza in un mondo dove ci si dà del tu solo perché ci si rivolge la parola. La lezione del professor fantasma Andreatta è che il politico onesto lo riconosci dalle opinioni espresse senza calcolo e dalla precisione con cui distilla il sarcasmo. La polemica aspra come dovere verso gli elettori: “Quando la politica tende a diventare l’Anonima partiti, quando si distrugge il rapporto di fiducia perché ci sono dei livelli sotterranei in cui la politica stabilisce di non scontrarsi troppo, ecco, mi sembra che la democrazia sia malata”. Perciò esaltava sempre la distanza da ciò che non gli piaceva. Nel 1994, la sera del trionfo di Silvio Berlusconi, rassicurò i quattro figli: “La prossima volta le elezioni le vinceremo noi candidando Pippo Baudo”. Pochi giorni dopo in Transatlantico, pipa in mano, soliti occhiali alzati sulla testa per non ostacolare le saette dei suoi occhi verdi, fulminò la corsa dei boiardi democristiani ad accreditarsi presso berlusconiani e neofascisti: “Vedo che molti riscoprono un nonno in camicia nera alla battaglia del lago Tana: piccole umiliazioni umane a cui qualcuno ama sottoporsi”. L’onestà intellettuale rendeva profetiche le sue analisi. Sull’Europa: “Dall’89 in poi sono riemersi gli interessi nazionali e ci si attacca a qualche cosa di sicuro di fronte a un mondo nuovo che richiede capacità di fantasia per il futuro. Invece l’Europa rimane incapace di gestire i suoi problemi”. Sulla questione morale: “Ho vissuto male questi anni in cui nel connubio tra affari e politica la distinzione tra l’uomo economico, che legittimamente pensa al profitto, e l’uomo politico, che dovrebbe pensare all’onore e al servizio, si è andata perdendo”. Sulla lottizzazione: “Riunioni di gruppi privati che decidono su come debba essere usato il potere di nomina dello Stato mi sembrano abnormi, al limite del codice penale”. Sul malinteso liberismo degli imprenditori italiani: “Il mercato ha bisogno di polizia”. Andreatta è ancora tra noi e ci racconta il presente.
di Giorgio Meletti, il Fatto Quotidiano 29/8/2016