Stefano Lorenzetto, L’Arena 28/8/2016, 28 agosto 2016
Giusto 35 anni fa, l’ufficio tecnico comunale di Bovolone suggerì d’inserire nella toponomastica una «via A
Giusto 35 anni fa, l’ufficio tecnico comunale di Bovolone suggerì d’inserire nella toponomastica una «via A. Moravia». Pare che avesse scambiato lo scrittore per un martire di Cefalonia o per un eroe risorgimentale. Sindaco e giunta caddero nel tranello e così Alberto Moravia si vide intitolare la strada. Solo che la legge non lo consentiva: l’autore degli Indifferenti avrebbe dovuto essere morto da dieci anni per meritare un simile onore, invece era vivo e vegeto. Ci scrissi un articolo sull’Arena, che fu ripreso da Vittorio Feltri sul Corriere della Sera. Alla fine, per metterci una toppa, le autorità municipali tolsero il cartello e intestarono la via a Guido Cavalcanti, poeta dello stilnovo. Apriti cielo: vivaci proteste della popolazione, costretta a cambiare documenti d’identità e a farsi ristampare biglietti da visita e carta da lettere. Il modesto antefatto mi fa pensare che abbiano ragione da vendere i pediatri anglosassoni, i quali, ai genitori in apprensione per immaginarie disfunzioni che scorgono nei loro neonati, raccomandano: «Leave his penis alone», lascia stare il suo pene. «Leave his logo alone», si potrebbe ben dire quando c’è di mezzo un toponimo, un marchio di fabbrica, un simbolo. Cioè tenetevi l’originale: funzionerà sicuramente meglio di quello nuovo, vi procurerà meno grane. Anzi, piuttosto di metterci mano, fate come Naomi Klein, che con il suo saggio No logo ha teorizzato la pericolosa inutilità delle griffe di qualsiasi tipo. In un mondo in cui tutto cambia e tutto si consuma in fretta, la staticità e la durata di un simbolo costituiscono un patrimonio prezioso: sono queste caratteristiche a renderlo immediatamente riconoscibile. La Coca-Cola è il quarto marchio di maggior valore al mondo (preceduto solo da Apple, Google e Microsoft) anche perché è rimasto lo stesso disegnato nel 1887 da Frank Robinson, socio e contabile di John Pemberton, l’inventore della bevanda. Nel 1890 l’azienda decise un leggero adattamento del carattere, ma fu costretta, a furor di popolo, a tornare dopo pochi mesi al font originario che vediamo ancor oggi in circolazione. Di recente mi ha sorpreso che il Tg2, a distanza di 40 anni dalla prima edizione mandata in onda dalla Rai, abbia deciso di riesumare la sua vecchia sigla, un 2 di colore bianco replicato in rosso e in arancione verso destra e verso il basso: lo proietta sul pavimento dello studio quando le telecamere effettuano un’inquadratura dall’alto. Il Corriere della Sera va in edicola da 140 anni con la medesima testata in carattere Egizio corsivo. Il Fernet-Branca preserva dal 1845 il disegno dell’aquila in volo sul globo terracqueo con una bottiglia serrata fra gli artigli; nella sottostante etichetta, dalla filigrana che ricorda i defunti titoli di Stato cartacei, permangono le dettagliate indicazioni stradali per raggiungere la distilleria: «Milano - Via Broletto - Vicino alla chiesa di S. Tomaso». Insegne dei negozi, targhe, lapidi contraddistinguono nel corso dei decenni, talvolta dei secoli, il volto stesso di una città, come documentato da Lamberto Bottaro, Bonifacio Pignatti e Daniele Dalla Valle nelle 656 pagine di Verona Tales, sfavillante volume fotografico uscito da poco, sponsorizzato dalla cartiera Fedrigoni. Esse meritano il riverente rispetto che ha dimostrato il negozio di abbigliamento insediatosi all’angolo di via Rosa con corso Sant’Anastasia: avrebbe potuto inalberare la propria ragione sociale e invece ha conservato l’antica scritta con i caratteri ombreggiati che apparteneva alla drogheria Ferrario, aperta nel 1883 e chiusa nel 2002. Nella Verona di oggi sembra essere scoppiata un’epidemia di loghite (mio neologismo). Come in preda a una febbre, gli enti pubblici fanno a gara per cambiare i loro simboli. Ha aperto le danze l’Agsm, il cui presidente ha spiegato che l’idea di sottoporre il marchio della municipalizzata a un restyling è nata ben prima del suo arrivo al vertice dell’azienda, ma che lui l’ha sposata volentieri. «D’altra parte sono pagato per prendere decisioni», ha soggiunto. In tempi di spending review, credevo che lo stipendiassimo per risparmiare. Il nuovo logo è stato disegnato da un’agenzia di Milano, la Lumen design, specializzata in «brand coaching» (bravo chi ci capisce). Bei tempi quando gli enti veronesi, dalla Fiera all’Arena, si affidavano alle mani di grafici indigeni, umili ma di talento, come Carlo Gorni e Giuseppe Risegato, due geniali designer che avevano lo studio in casa propria e, se non altro, spendevano in città gli emolumenti ricevuti. Nel suo accattivante sito (solo in lingua inglese), la Lumen design dà conto del ricco portafoglio di clienti (quasi tutti italiani): Autogrill, Fondazione Cariplo, Mondadori, Sky, Pagine Gialle, Pagine Bianche, Poltrona Frau, A.C. Milan, La Gazzetta dello Sport, Bticino. Nessuna traccia di Agsm, evidentemente reputata o troppo piccola o troppo sconosciuta per essere messa in vetrina. Vi sarebbe una terza ipotesi: che Lumen design un po’ si vergogni a esporre il proprio elaborato veronese in questo pregevole consesso. Eh sì, perché non si può certo dire che sia venuto fuori un capolavoro immortale. Tanto per capirci: il precedente simbolo dell’Agsm, che aveva appena 15 anni di vita, era formato da una mano stilizzata aperta, di colore blu, con le dita rivolte verso sinistra, dal cui palmo sorgeva una specie di sole arancione pixelato. Adesso la stessa mano blu ha le dita orientate verso destra e sorregge una specie di occhio formato da cerchi ed ellissi gialli e verdi, con l’iride biancoceleste. Quanto alla scritta Agsm, in precedenza tutta minuscola, ora sono state introdotte la «g» e la «s» maiuscole, roba che Bruno Munari o Max Huber si rivoltano nella tomba. Per cotanta creatività, la dirigenza dell’azienda municipalizzata è arrivata a scomodare «l’esperienza percettiva, emotiva, cognitiva e simbolica». Il risultato finale è stato definito dal titolare dello studio grafico «rilevante», «adattabile» e «un passo avanti». Nientemeno. A questo significativo traguardo si è giunti dopo un sondaggio fra i dipendenti dell’Agsm. Decisione oculata: chissà a quali conclusioni sarebbe potuto pervenire un campione di utenti, e non tanto circa la scelta artistica in sé, quanto sulla necessità di questa spesa. In proposito il presidente dell’Azienda servizi municipalizzati è stato piuttosto evasivo: «Al momento i costi non sono quantificabili». Non ho alcuna difficoltà a crederlo. A parte la fattura liquidata alla Lumen design, bisogna infatti calcolare l’effetto che definirei Moravia-Cavalcanti, con riferimento al cambio di toponimi bovolonesi descritto all’inizio. Per essere più chiari: il nuovo logo comporta nuove insegne sulla sede, nuovo totem all’ingresso posteriore della medesima (quello che dà sul cimitero), nuove fiancate degli automezzi, nuove divise del personale, nuova carta intestata, nuovi biglietti da visita, nuovi gadget. Naturalmente Agsm è una società per azioni che sta sul mercato, produce utili e decide d’investirli a suo piacimento, anche nel maquillage perpetuo, come ha stabilito per le vecchie cabine elettriche di periferia, che saranno valorizzate dai graffisti disegnandovi sopra con lo spray le figure di Zeus, o di Apollo, o di Eolo, ma anche di Alessandro Volta o di Luigi Galvani, per una spesa oscillante dai 10.000 ai 15.000 euro ciascuna. Ma il vantaggio per il cliente qual è? Non credo che tenga accesa la luce anche quando deve spegnerla, consumi più gas, faccia scorrere più acqua, usufruisca più volentieri del teleriscaldamento solo perché la manina blu del logo Agsm adesso è girata verso destra anziché verso sinistra. Allora non sarebbe stato meglio risparmiare i soldi impiegati nel restyling e destinarli al contenimento delle tariffe, in modo da aiutare i cittadini che non riescono a pagare le bollette? Le stesse domande si possono rivolgere alla dirigenza all’Azienda di gestione degli edifici comunali, che ha abbandonato il vecchio logo a cuspide legato alle geometrie della facciata del Palazzo dei Diamanti, sede dell’Agec (anche quella in via di dismissione), a favore di un quadrilatero formato da altri quadrilateri variopinti: celeste per l’area immobiliare, verde per le farmacie cittadine, arancione per la refezione scolastica, magenta per servizi cimiteriali. A parte che il colore intonato alla morte sarebbe il nero, o tutt’al più il viola liturgico, anche qui non si può fare a meno d’interrogarsi sull’innovazione grafica e cromatica. Forse il nuovo logo policromo invoglia il cittadino a raggiungere più in fretta l’ultima destinazione su un carro funebre dell’Agec? E il verde speranza delle farmacie come va inteso? Un incoraggiamento ai veronesi meno abbienti che non sanno come pagare le medicine e restano in lista d’attesa per ottenere l’agognato alloggio popolare di colore celeste? Ho l’impressione che i dirigenti delle aziende municipalizzate ignorino un dettaglio: la Rolex, che è la Rolex, dal 1908 non ha mai modificato il suo logo a forma di corona. Però destina circa il 75 per cento dei propri utili a opere di carità. Mi sembra un eccellente modello di business. LORENZETTO Stefano. 60 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Attualmente in Marsilio come consigliere dell’editore. Scrive per Panorama, Arbiter e L’Arena. Sedici libri, l’ultimo è Giganti (Marsilio). LORENZETTO Stefano. 60 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Attualmente in Marsilio come consigliere dell’editore. Scrive per Panorama, Arbiter e L’Arena. Sedici libri, l’ultimo è Giganti (Marsilio). Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.