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 2016  agosto 28 Domenica calendario

CONDANNATI ALLA VITA ETERNA?

Nato nel 1931 a Liverpool, Anthony Kenny è un filosofo al cui nome si legano un’importante monografia su Wittgenstein (Bollati Boringhieri) e una recente Storia della filosofia occidentale (Einaudi) che gareggia in chiarezza di esposizione con l’omonima opera che valse a Bertrand Russell il premio Nobel per la Letteratura. Come sanno i lettori di questo supplemento, Kenny è uno dei maggiori esponenti del tomismo analitico, che riprende lo stile argomentativo di Tommaso D’Aquino applicandolo a questioni ancora oggi al centro della riflessione filosofica. Nel suo recentissimo Un affettuoso addio alla Chiesa (Carocci, pagg.142, € 12) racconta la sua vicenda umana di sacerdote che, in seguito a una crisi di coscienza, negli anni 60 decide di abbandonare il cattolicesimo. È un libro splendido, in cui il meglio della filosofia postwittgenstaniana si intreccia con le vicende della Chiesa del Concilio Vaticano II. Ancora oggi Kenny, che saluta papa Francesco come una importante novità, ritiene che le possibilità riformatrici della Chiesa siano imbrigliate nella questione irrisolta dell’infallibilità del papa. Quando Kenny si sposò, una sua vecchia amica, la filosofa cattolica Elizabeth Anscombe, gli disse: «Il nostro più caro augurio per te, Tony, non può che essere che il tuo matrimonio sia profondamente infelice». Invece l’intera vita, e non solo il suo matrimonio, è quella di un uomo felice. Questo libro è pieno di perle filosofiche più o meno inerenti l’ambito religioso, cui pure è rimasto legato. Tutte denotano la principale virtù che deve possedere un filosofo: l’onestà intellettuale e l’avversione a ogni forma di autoinganno. «Mi piace l’amabile incoerenza dei miei amici cristiani, cattolici e clericali, e mi fa piacere, naturalmente, che non sembrino pensare che, essendo io un non credente, sia destinato alle sofferenze eterne dell’inferno. Tuttavia non posso fare a meno di sentire che dovrebbero farlo, alla luce degli insegnamenti secolari della loro Chiesa». Ma Kenny, sebbene sia agnostico (e non ateo) riguardo all’esistenza di Dio, dichiara di non esserlo affatto riguardo all’immortalità dell’anima. «Credo che la vita umana individuale finisca con la morte corporale e che le speranze di sopravvivere alla morte o di poter vivere una vita ultraterrena in una diversa dimensione esistenziale siano illusorie». L’argomento principe gli viene proprio da Tommaso, il quale, nel Medioevo cristiano, accettò sì «alcuni argomenti platonici per mostrare che l’anima umana era immateriale e immortale» e tuttavia «concordava con Lucrezio sul fatto che un’anima separata dal corpo non è la stessa cosa della persona di cui era stata l’anima». «Un essere umano - scriveva Tommaso - desidera naturalmente la propria salvezza; ma dal momento che l’anima è parte del corpo dell’essere umano, essa non è l’intero essere umano e la mia anima non corrisponde al mio io; perciò, anche se l’anima conseguisse la salvezza in un’altra vita, non la conseguirei io né alcun altro essere umano». «La sopravvivenza personale, per Tommaso, - scrive Kenny -sarebbe stata garantita solamente se alla fine avesse avuto luogo la resurrezione del corpo. Ma questa non era questione di conoscenza, bensì di credenza – o di fede. Uno degli articoli di fede del Credo riguarda “la resurrezione dei morti e la vita nel mondo che verrà”, ma non ce n’è uno che reciti: “Credo nell’immortalità dell’anima”». Ed è un bene che sia così, non tanto perché «l’annichilazione sarebbe di gran lunga preferibile ai tormenti dei dannati descritti da Dante: è che anche un’eternità priva di dolore sarebbe orribile. (...) L’equivoco cristiano sulla vita dopo la morte si rispecchia nella preghiera più comunemente recitata nella benedizione dei defunti: “Splenda ad essi la luce perpetua, riposino in pace”. La pace eterna è una conclusione da augurare vivamente, ma la luce perpetua suona come una tortura nel carcere di Guantánamo».