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 2016  agosto 27 Sabato calendario

APPUNTI APERTURA SUL TERREMOTO PER IL FOGLIO ROSA – La California ha esperienza di terremoti al di sopra di magnitudo 6 e da decenni aspetta e si prepara per il cosiddetto ‘Big One’

APPUNTI APERTURA SUL TERREMOTO PER IL FOGLIO ROSA – La California ha esperienza di terremoti al di sopra di magnitudo 6 e da decenni aspetta e si prepara per il cosiddetto ‘Big One’. In Giappone, col 20% delle scosse superiori o pari a magnitudo 6 registrate ogni anno nel mondo, sono pronti ad affrontare qualsiasi emergenza. Anche in Turchia, dopo il sisma di Izmit che nel 1999 provoco’ oltre 17 mila morti, sono stati fatti enormi passi avanti nella prevenzione. L’Iran e’ a sua volta uno dei Paesi a piu’ alto rischio sismico, ma le prime misure di prevenzione hanno cominciato ad essere applicate a partire dal sisma che nel 2003 rase al suolo la citta’ di Bam, causando oltre 30 mila morti. CALIFORNIA – Dopo ogni terremoto gli scienziati della US Geological Survey (Usgs) monitorano la reazione di edifici e strutture per rivedere e migliorare le norme di costruzione antisismica, racchiuse nello Uniform Building Code, un insieme di standard applicato in molti stati. In California sono usati il California Building Code e, nell’area di San Francisco, il San Francisco Building Code, incorporati nelle norme generali. La Usgs fornisce inoltre sul suo sito notizie utili sui terremoti a cittadini, studenti, insegnanti e programmi per bambini. La California Seismic Safety Commission pubblica a sua volta una guida alla sicurezza terremoto per i proprietari immobiliari. Il libretto deve essere consegnato dal venditore a chi compra una casa costruita prima del 1960. GIAPPONE – Da anni il Giappone si e’ dotato di una delle normative piu’ all’avanguardia sulle costruzioni capaci di resistere ai terremoti piu’ forti. L’obiettivo e’ portare al 90% la quota di abitazioni antisismiche in grado di assorbire le scosse piu’ forti. In base agli ultimi dati, gli edifici a norma sfiorano comunque gia’ l’80%, mentre sono circa 10.000 le scuole che richiederebbero interventi specifici. Il segreto, per gli edifici piu’ alti, e’ nel cemento armato “flessibile” in grado di assorbire torsioni e spinte. Le tecniche messe a punto prevedono inoltre veri e propri carrelli sotto le fondamenta che neutralizzano le scosse. TURCHIA – E’ uno dei Paesi a piu’ alto rischio terremoti nel mondo e dopo il sisma di Izmit, che nell’estate del 1999 provoco’ nella periferia a sud di Istanbul oltre 17 mila morti, sono stati avviati maxi-progetti di trasformazione urbana per sostituire o adeguare decine di migliaia di edifici a rischio. Tuttavia, fa da contraltare la cementificazione selvaggia che non lascia ‘vie di fuga’. Nella metropoli sul Bosforo sono stati negli ultimi anni demoliti interi quartieri considerati a rischio. Un’iniziativa che per molti ha fatto della Turchia un modello di prevenzione. La loro ricostruzione e’ stata pero’ accompagnata da forti polemiche per le conseguenti speculazioni immobiliari. A forte rischio c’e’ anche il resto della Turchia: nel 2011, il terremoto di Van, al confine con l’Iran, causo’ oltre 600 morti e 4 mila feriti. Da allora, massicci progetti di ricostruzione urbana sono stati avviati dalla Toki, l’ente statale per l’edilizia pubblica. IRAN – A partire dal devastante sisma del 2003, norme piu’ severe sono state introdotte per la costruzione di nuovi edifici soprattutto a Teheran. La capitale, dove vivono circa 10 milioni di persone, e’ una delle aree piu’ a rischio perche’ il suo sottosuolo e’ percorso da tre faglie. Per ridurre i rischi nel 2010 il governo ha stabilito una serie di incentivi fiscali per spingere 5 milioni di iraniani a lasciare la capitale. Un’esercitazione su come reagire ad una scossa disastrosa si svolge ogni anno in tutte le scuole, negli ospedali e in diversi uffici pubblici. Gli insegnanti, quando affrontano gli esami periodici per passare a livelli superiori di stipendio, devono saper rispondere anche a domande sulla prevenzione antisismica. A cura di Peppe Caridi *** FRANCESCO CURRIDORI, IL GIORNALE 25/8 – Eppure gli amministratori non fanno prevenzione. Il risultato è che l’Italia è arretrata come il Medio Oriente: in un paese avanzato una scossa di magnitudo 6 non provoca crolli e vittime". Ne è convinto il geologo Mario Tozzi che sull’Huffington Post attacca la politica colpevole, a sette anni dalla terremoto dell’Aquila, non essere intervenuta sulla prevenzione di disastri sismici di questa portata. Oggi i comuni più devastati: Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. "L’Italia è un territorio geologicamente giovane e perciò subisce queste scosse strutturali di assestamento. Non stiamo dicendo che i terremoti sono prevedibili", puntualizza Tozzi, "perché sappiamo che è una sciocchezza. Ma stupisce che in una zona sismica non si faccia quasi nulla per impedire che una scossa di magnitudo 6 possa addirittura far crollare un ospedale come è accaduto ad Amatrice". Secondo il geologo le istituzioni non possono cavarsela dicendo che i paesini del Centro Italia crollano più facilmente perché lì le case di antica costruzione. “Gli antichi – spiega Tozzi - sapevano costruire bene e basta pensare che a Santo Stefano di Sessanio, vicino l’Aquila, era crollata soltanto la torre perché restaurata con cemento armato, mentre a Cerreto Sannita nel Beneventano quasi tutto era rimasto intatto dopo il terremoto dell’Irpinia: non fu un caso, era stato costruito bene". "In Giappone e in California con una scossa simile a quella di Amatrice c’è soltanto un po’ di spavento ma non crolla nulla”, ribadisce Tozzi chiedendo che venga fatta quanto prima “una manutenzione antisismica di tutti gli edifici pubblici e privati”. Il geologo rimarca, infine, la necessità di cambiar passo, di smetterla di parlare di fatalismo e di, aumentare, invece, gli investimento contro il dissesto idrogeologico e per la prevenzione dei terremoti. “Siamo il paese europeo con numero record di frane e alluvioni, - conclude - siamo territorio sismico eppure per chi ci governa quando qualcosa succede è sempre una fatalità: bisognerebbe smetterla di pensare in questo modo e cominciare a ripensare seriamente al territorio". **** JAIME D’ALESSANDRO, REPUBBLICA.IT 25/8 –  Un anno ancora, poi nascerà la prima rete di satelliti dedicata allo studio dei terremoti. Meglio: allo studio di quelle correlazioni fra la variazione del flusso di particelle e dei campi elettromagnetici che si verificano nella magnetosfera attorno alla Terra prima e dopo gli eventi sismici. La speranza è di riuscire a prevederli con alcune ore di anticipo. Il progetto prenderà il via il primo agosto del 2017 con il lancio del China Seismo-Electromagnetic Satellite, satellite cinese ad alta concentrazione di tecnologia italiana. Ne seguirà un secondo nel 2019 e se i risultati saranno incoraggianti, cosa tutta da verificare, ne arriveranno altri fino a formare una costellazione di apparecchi orbitanti capaci di tenere sotto controllo il pianeta. Ci stanno lavorando da un lato la China National Space Administration (Cnsa) e la China Earthquake Administration (Cea), dall’altro l’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn). "Il legame fra terremoti e variazione del flusso delle particelle nello spazio è stato notato dai russi sulla stazione spaziale Mir negli anni Novanta”, racconta Marco Casolino, primo ricercatore all’Infn di Tor Vergata di Roma, che ha seguito il progetto nella sua fase iniziale. “Registrarono un aumento del flusso di raggi cosmici circa cinque ore prima dei terremoti di maggiore rilevanza. Non è un rapporto di uno ad uno, ma c’è una ricorrenza statistica significativa”. Significativa al punto da spingere l’Infn di Roma e Perugia a indagare ancora attraverso il satellite americano Sampex della Nasa. E anche in quel caso la relazione fu provata. Una proposta per un satellite interamente dedicato allo studio dei terremoti venne avanzata alla nostra Agenzia spaziale, ma non ebbe seguito. A differenza di quella dei francesi. Il Demeter del Centre national d’études spatiales (Cnes) entrò in orbita nel 2004. Non era ottimizzato per lo studio delle particelle, ma confermò le relazioni fra fenomeni nello spazio e quelli sismici. "Hanno avuto la nostra stessa idea –ricorda Casolino- puntando però su strumenti diversi focalizzati sulla parte elettromagnetica". In Cina, dove i terremoti sono all’ordine del giorno, hanno quindi pensato di partire da queste esperienze e tentare di realizzare un sistema con struemntazione completa a 360 gradi di prevenzione dall’alto che si integri con la raccolta di dati complementari presi a terra. Cambiare prospettiva partendo dallo spazio ha i suoi vantaggi, sostengono a Pechino dove in questi giorni ci sono i colleghi di Casolino coinvolti nell’esperimento. Permette di controllare aree del pianeta enormi e di usare altri dati rispetto a quelli tradizionali. I nove strumenti a bordo del satellite cinese Cses 01 sono stati testati a Tor Vergata e alcuni costruiti direttamente in Italia. Si parte dalla “semplice” osservazione, ma l’ambizione è di andare oltre. Nessuno si sbilancia su questo fronte, a Pechino come a Roma metteno le mani avanti. Resta il fatto che in Cina abbiano deciso di investire milioni di dollari nel progetto coinvolgendo l’Italia. Con benefici immediati per tutti. Per contratto i dati raccolti dai satelliti cinesi saranno accessibili qui da noi come nel resto del mondo. *** OSCAR GIANNINO, IL MESSAGGERO 26/8 –  Oltre il cordoglio e mentre ancora purtroppo non è definitivo il bilancio delle vittime del sisma che ha colpito Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto, è tempo di un primo schematico prontuario delle cose da fare. Con l’obiettivo, questa volta e dopo decenni, di non occuparsi solo di gestire l’emergenza delle popolazioni e dei centri colpiti mercoledì, bensì di avviare e realizzare una vera svolta sistemica della prevenzione anti-sismica in Italia. Dopo il Consiglio dei ministri che ieri ha proclamato lo stato d’emergenza per i luoghi colpiti e decretato il blocco delle tasse per le popolazioni locali, «serve un Progetto-Italia», ha detto Renzi. E così deve essere. Ci sono almeno quattro capitoli distinti da affrontare, senza alcuna pretesa di essere esaustivi, ma al fine di impostare un dibattito serio. Cominciando dall’alto, il primo capitolo riguarda l’Europa. Come impostare al meglio le proposte italiane su quantità, modalità, obiettivi e risultati dell’intervento che l’Italia deve proporsi di realizzare. Si tratta di avere idee e proposte chiare sulle risorse, europee e nazionali. E su come impostare la presentazione del progetto nel quadro delle vere e fondamentali riforme di sistema del nostro paese, come e forse per risorse da mobilitare - persino più di quella del lavoro e di quella costituzionale. Vanno distinte questioni che sono diverse. La prima è quanto si spenderà per l’emergenza, i salvataggi, la messa in sicurezza dei crolli, l’assistenza agli sfollati, il ripristino urgente delle infrastrutture più indispensabili. A questo fine, il Trattato del Fiscal Compact, e le sue interpretazioni autentiche date dalla Commissione Europea, parlano chiaro. Sta scritto esplicitamente che gli Stati contraenti possono deviare temporaneamente dall’obiettivo di medio termine di rientro del deficit pubblico al ricorrere di circostanze eccezionali e per eventi imprevedibili (oltre che in caso di grave recessione), e le calamità naturali rientrano esattamente in tale definizione. Coerentemente sta scritto al comma 2 dell’articolo 81 della nostra Costituzione che il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Ergo, le spese per l’emergenza sono fuori dal tetto di deficit contrattato con la Ue (e che, come sappiamo, il governo chiederà di sforare ma per altre ragioni). La seconda questione riguarda le risorse europee per il Progetto-Italia. Dal 2002, a seguito delle inondazioni in Centro-Europa, la Ue ha varato il Fsue, il fondo di solidarietà anti-calamità. Di cui l’Italia negli anni ha beneficiato per oltre 3 miliardi di euro. Ma i fondi europei non servono tanto e solo per le spese dell’emergenza. Il punto è compiere una radiografia accurata di tutti i Fondi europei utilizzabili, di tutti i progetti italiani presentati per il finanziamento da parte del Piano Juncker, e di tutte le diverse possibilità offerte per esempio dalla Bei, per mettersi in condizione di beneficiare del massimo sostegno possibile europeo a quote di cofinanziamento europeo del grande progetto italiano che va lanciato. Sono oltre 1300 i progetti a coordinamento delle regioni italiane avanzati nelle diverse sedi europee e che risultano presentati negli ultimi 2 anni, per il solo contrasto al dissesto idrogeologico. Occorre una cabina di regia seria, perché il rischio sismico ingloba e supera il rischio idrogeologico come ordine di grandezza. Poiché il piano italiano deve essere di grande respiro, occorrerà guardarsi dal ripetersi di veti e incomprensioni da parte europea. Se siamo il paese a maggior rischio sismico in Europa insieme alla Grecia, un grande sforzo necessario va riconosciuto come giusto impegno dell’Italia, per evitare di continuare a bruciare vite e risorse. Perché prevenire costa caro, ma costa comunque 4 o 5 volte meno dei danni devastanti da riparare ex post, e risparmia migliaia di vite irrisarcibili. Attenzione anche a chiarire sin dall’inizio che, nel piano degli interventi di sostegno ai privati famiglie e aziende di cui parleremo tra poco, non ci possono essere margini di equivoco per considerarli da parte europea aiuti di Stato, come invece e dolorosamente è avvenuto in passato dopo terremoti e alluvioni in Italia. Il secondo capitolo riguarda le scelte che deve compiere il governo. L’ordine di grandezza per un piano di 10-15 anni come richiesto da tempo dai rappresentanti dei geologi, ingegneri e Ance, può essere definito intorno agli 80-90 miliardi di euro spalmati in 10-15 anni. Cioè mettendo in conto magari un altro sisma di magnitudo 6 di quelli che ogni 6-7 anni si manifestano in Italia nell’area a rischio 1 appenninica, che giù già va fino a Messina. Ma intanto cominciando quella grande opera di messa in sicurezza del patrimonio immobiliare esistente proprio nell’area 1. In quella a rischio altissimo, dice il servizio studi del consiglio nazionale dell’ordine dei geologi, vivono non più di 3 milioni di persone. Estendendola in maniera più ampia si giunge a non oltre un sesto della popolazione italiana. Qui il primo compito dello Stato è la messa in sicurezza del patrimonio pubblico, di ospedali e scuole, per evitare che continuino a crollare magari anche dopo interventi a fini antisismici nel 2012, come avvenuto nella scuola di Amatrice, o per evitare che i fondi a disposizione non vengano usati, come avvenuto all’ospedale locale, oggi inagibile. Sappiamo che il quadro è disastroso: il 75% dei presidi sanitari italiani non è in regola, come 24mila scuole italiane. Ma è di lì che lo Stato deve cominciare, nelle aree a maggior rischio. Oltre che dalla tutela antisismica del patrimonio culturale, artistico e museale, come giustamente ha ricordato Renzi ieri. L’esperienza di questi ultimi 2 anni, in cui pure il governo con Italia sicura ha tentato una svolta sul dissesto idrogeologico con 2,3 miliardi stanziati sommando 2015 e 2016, prova che l’avvio dei cantieri e degli interventi procede purtroppo solitamente a passo di lumaca. Mentre è ovvio che questa volta occorrerà un monitoraggio degli interventi pubblici che coinvolga ogni possibile misura anti-corruzione. La politica italiana si è bruciata le mani con il terremoto dell’Irpinia, in cui i 36 comuni colpiti divennero 687 comuni con interventi finanziati e agevolati, per l’equivalente di 70 miliardi di euro odierni tra Italia ed Europa. Ma di tempo ne è passato, e molti processi penali sulle opere pubbliche hanno dimostrato negli anni cosa bisogna evitare perché crollino comunque, dopo lavori fatti ladrescamente. Il terzo capitolo riguarda i privati. È assolutamente ovvio che lo Stato non possa realizzare lui gli interventi di messa in sicurezza del patrimonio immobiliare precedente alle norme antisismiche del 2009, cioè il 99%. Il punto delicato è come agevolare i privati a farlo. L’ideale sarebbe un uso largo ed esteso degli sgravi fiscali, la cui copertura in bilancio concorre alla cifra complessiva di 80-90 miliardi. Innanzitutto occorre concludere l’iter di definizione delle diverse classi di rischio degli immobili pre-2009, per tipologia e tipo di area in cui insistono: i lavori della commissione incaricata si erano conclusi, ma l’esito finale si è perso nel cambio di testimone tra Lupi e il ministro attuale. A quel punto dovrebbero entrare in campo gli incentivi, volti a evitare anche l’abbattimento radicale del valore immobiliare in portafoglio alle famiglie, una volta note le classificazioni di rischio. E affiancando a questo incentivo un secondo, volto all’assicurazione degli immobili contro il rischio sismico e idrogeologico, un’assicurazione non obbligatoria come la Rca auto ma fortemente agevolata, che anch’essa concorrerebbe a non deprimere troppo il valore di un immobile storico certificato come ad alto rischio sismico, finché i privati non realizzassero i lavori di messa in sicurezza. C’è infine un quarto capitolo, che riguarda la specificità storica, urbanistica e paesaggistica del nostro paese. Una specificità da preservare come e più del patrimonio fisico e finanziario del nostro paese. Gli errori del passato vanno evitati. Borghi medievali e tessuti urbani sei-settecenteschi non possono essere rimpiazzati da una new town come fossimo nel Nevada. Gli abitanti andrebbero altrove, e perderemmo quel che l’Italia è per noi tutti e per il mondo intero. Occorre mobilitare architetti e storici dell’evoluzione urbana, oltre al meglio delle scienze della conservazione artistica. Lo sappiamo, è facile fare proposte così impegnative, si rischia di apparire velleitari. E tuttavia decenni di errori chiedono riparo a troppo sangue e distruzione. Se ci si crede, l’Italia lo può fare. *** ROBERTO DA RIN, IL SOLE 24 ORE 18/9/2015 – Perché i cileni non corrono quando c’è il terremoto? Parrebbe una domanda antropologica. Invece è una questione da porre sul tavolo della Protezione civile dei Paesi a elevato rischio sismico. Tutti gli abitanti del Cile sono cresciuti ed educati all’autocontrollo, quanto meno a quello da terremoto. Con un ministero degli Interni che dà indicazioni chiare. È andata così anche ieri notte dopo una scossa violentissima, magnitudo 8,3. Le sirene di Santiago, dislocate nei punti nevralgici della città, hanno iniziato a suonare, ritmate da un avviso vocale: «Prepararsi! Prepararsi! Sta suonando l’allerta tsunami». Il forte sisma con epicentro nella regione centrale del Cile, nella provincia di Choapa, 500 chilometri a nord della capitale, ha provocato una decina di morti e danni modesti, se rapportati all’intensità delle scosse. Un milione di cileni è stato evacuato, ma dopo una notte di angoscia l’allarme è rientrato. La paura è stata amplificata dal timore di tsunami, quell’onda anomala con elevato potenziale distruttivo, rientrata in serata di ieri. Il Cile è affacciato sull’Oceano Pacifico, con una costa lunga più di 5mila chilometri. Le onde continueranno a farsi sentire lungo le coste cilene, e potrebbero durare complessivamente per 24 ore, ma «sono più che dimezzate, forse anche ridotte a un quarto rispetto al picco massimo di 4-5 metri registrato ieri», spiegano i sismologi cileni. A vivere sulla faglia ci si abitua, ma è anche un’arte secondo molta letteratura cilena. I cileni non corrono, dicevamo. Proprio così, un gruppo di giornalisti inglesi, in Cile nel 2010, l’anno di un terremoto devastante, dedicò un programma alla Bbc per capire le radici di questo aplomb. Ecco i punti chiave: 1) Tutti i cileni sanno, fin da piccoli, che i terremoti saranno una costante della loro vita. 2) Nelle scuole e negli uffici vengono regolarmente simulate le evacuazioni, ordinate e sicure. 3) Gran parte degli edifici sono costruiti con norme antisismiche. Sebastian Gray, architetto cileno, spiega che è impossibile costruire un edificio nei centri urbani senza osservare i rigorosi criteri antisismici. Infine potrebbe esserci un’altra motivazione che spiega l’atteggiamento dei cileni: quando la Terra inizia a tremare gli uomini sanno che non c’è un luogo dove fuggire. Sì, perché il suolo lungo cui correremmo si sta muovendo. I cileni sanno anche che i terremoti assumono movimenti diversi: ondulatorio, verticale oppure orizzontale. Il ministero degli Interni del Cile prevede un sistema di allerta davvero molto efficiente, capace di fronteggiare anche la variante terremoto con tsunami. Nei monitor del ministero, compaiono decine di città, da Arica (nell’estremo nord del Paese) a Punta Arenas, (nell’estremo sud) con l’ora esatta in cui arriverà l’onda anomala. La stessa schermata, simile a quella degli “arrivi” sugli schermi degli aeroporti, viene trasmessa in televisione. Sia chiaro, la paura c’è. Ma i cileni sanno dominarla. Per esempio, se le scosse arrivano di notte, hanno imparato a resistere a quelle più lievi, magari restando a letto. C’è persino chi dice che, se le scosse sono lievi, vi sia un che di eccitante nel pensare che la Terra liberi energia. *** GIORGIO SANTILLI, IL SOLE 24 ORE 26/8 – Giorgio Santilli per Il Sole 24 Ore «Un Piano di prevenzione da 4 miliardi l’anno per 20 anni, 2 miliardi per l’idrogeologico e 2 per l’antisismico: questo serve». Mauro Grassi, coordinatore della task force per gli interventi antidissesto idrogeologico della Presidenza del Consiglio non ha competenze specifiche sui terremoti ma è uno degli uomini in prima linea di Palazzo Chigi sulla prevenzione territoriale. E dà corpo così a quell’idea di un piano straordinario di investimenti necessari per prevenire e ripartire. «Un piano di investimenti di queste dimensioni, che tenga conto anche di interventi privati incentivati nel settore sismico, è l’unico modo per affrontare il problema superando le difficoltà attuali di finanziamenti scarsi e poco selettivi. In dieci anni si vedrebbero finalmente seri passi avanti, magari introducendo anche quelle forme di assicurazione sugli eventi calamitosi di cui spesso si è parlato; in venti renderemmo il Paese più sicuro e cominceremmo a ridurre sensibilmente quella tassa sulle emergenze che comunque ci costa almeno 5 miliardi l’anno». Preferisce non fare cifre, ma richiama lo stesso concetto dell’ormai non rinviabile necessità di «politiche di prevenzione e non solo di singole misure» Ermete Realacci, pronto a convocare per l’1 settembre la commissione Ambiente della Camera che presiede per votare - possibilmente all’unanimità come accaduto in passato - una risoluzione che rilanci con la prossima legge di bilancio l’ecobonus del 65% allargato ai lavori di prevenzione antisismica. «Bisogna superare gli attuali limiti di quell’incentivo: va esteso dalla singola unità immobiliare all’intero edificio, va esteso al mondo produttivo e alle pubbliche amministrazioni, bisogna rendere convenienti interventi strutturali e di lungo periodo che superino la logica dei lavori anno per anno, utile per cambiare i serramenti ma non certo per lavori impegnativi come questi». Un terremoto come quello di ieri è drammatico anche, inevitabilmente, per la fotografia che scatta del Paese mettendo a nudo fragilità territoriali e organizzative. Più di tutti colpisce - e molti analisti lo hanno evidenziato - il rapporto fra la relativamente bassa intensità dei fenomeni sismici (il massimo livello di magnitudo è stato 6) e lo sproporzionato numero di morti e di crolli. Un’edilizia povera che ancora una volta è all’origine di un dramma italiano. Ci si ritrova così anche stavolta a fare la considerazione fatta in occasione di altre tragedie analoghe: se un terremoto non si può prevenire, si possono, però, limitare i danni, in termini di vittime e di danni agli edifici, con una buona politica “lunga” di prevenzione che comporta l’utilizzo organico di un mix di strumenti pubblici e privati. Investimenti di pesante riqualificazione, anzitutto, ma anche norme tecniche chiare per le costruzioni e controlli. Ancora una volta l’Italia dimostra di saper reagire abbastanza bene alle emergenze, con la enorme solidarietà che arriva dai privati e un modello di Protezione civile fra i meglio organizzati in Europa, ma continua a prestare il fianco scoperto sulla prevenzione antisismica (dove non si sono mai portati a regime interventi avviati in modo frammentario e parziale con il fondo istituito nel 2009) e sulla manutenzione idrogeologica, infrastrutturale e territoriale. Un terremoto non si può evitare, ma si possono evitare molte delle ferite che comporta ai territori colpiti dalle scosse: enorme numero di edifici crollati (non di rado anche di recente costruzione), frane più vaste e profonde del dovuto, crollo di ponti e viadotti, infrastrutture rese inutilizzabili nel momento dell’emergenza, collegamenti insufficienti. E spesso la correlazione fra tutti questi fenomeni è altissima e converge a rendere molto più drammatico il bilancio delle catastrofi. La conclusione può sembrare una forzatura ma non lo è affatto. La ricetta per uscire dall’emergenza sanguinosa delle catastrofi naturali in Italia è la stessa necessaria per uscire dalla crisi economica e dalla fase di stentata ripresa: rilanciare gli investimenti. Non c’è nessuna forzatura e ormai ne sembra convinto anche il premier Matteo Renzi, che quella sia la strada giusta. L’Italia può ripartire contro vizi “culturali” vecchi e nuovi solo spostando, con l’aiuto di una politica economica solida e costante, risorse verso investimenti capaci di riqualificare, ristrutturare e rilanciare un Paese ancora afflitto da arretratezze non più sostenibili. Il piano di 4 miliardi annui di cui parla Grassi può sembrare una proposta faraonica vecchio stile, ma potrebbe invece diventare uno dei pezzi fondamentali di un piano straordinario di investimenti pubblico-privati fatti per il bene e il futuro dell’Italia (magari con un sostanzioso avallo e contributo Ue). Non è affatto escluso, quindi, che la prossima legge di bilancio possa portare a quel risultato che Realacci auspica: passare da singole misure scoordinate a una seria politica di prevenzione e di investimento. La differenza sta nella capacità di coordinamento delle misure, nella loro entità, ma anche nel forte segnale politico. Anzi è proprio questa la battaglia che, anche dentro il governo, stanno giocando ministri che da mesi ripetono questo refrain sul bisogno di rilanciare anzitutto gli investimenti, a partire da Pier Carlo Padoan e Graziano Delrio. D’altra parte, giusto per restare alle detrazioni fiscali Irpef del 65% meglio note come “ecobonus” - che la scorsa legge di stabilità ha allargato agli interventi di prevenzione anti-terremoto nelle zone sismiche 1 e 2 - quello che Realacci ripropone per gli investimenti antisismici, Delrio e il Mef lo stanno mettendo a punto in termini più generali per una politica di riqualificazione energetica dei condomíni e della pubblica amministrazione, con meccanismi di estensione degli interventi sugli interi edifici che permettano di superare una politica che premia solo alcune unità immobiliari e lascia fuori, per esempio, i soggetti fiscalmente incapienti. «Tanto più questo ha senso - dice Realacci - per gli interventi di messa in sicurezza sismica dove io non intervengo, pur magari essendo intenzionato, se nel mio palazzo ci sono altri che non intervengono». Questo spiega perché finora lo strumento non sembra essere decollato (dati ufficiali non ci sono) mentre l’ecobonus, così come per gli incentivi del 50% per le ristrutturazioni, ha avuto un grande successo e grande diffusione per i micorointerventi domestici. Ovviamente evocare una politica favorevole agli investimenti non significa realizzare investimenti. Qui entriamo in un’altra delle criticità italiane - forse la più grave in assoluto - che consiste nel non riuscire a cantierizzare quel che si programma e spesso si finanzia pure. Groviglio normativo, procedure estenuanti, frammentazione di competenze, inerzia delle Regioni sono fenomeni che impediscono di concretizzare risultati anche quando politiche, sia pur fragili, vanno in quella direzione. Certo, da una parte, come dice Realacci, c’è la fragilità di queste politiche, che non pongono con grande prospettiva di scenario e forza politica obiettivi chiari (l’esempio della prevenzione antisismica è calzante). Dall’altra parte, però, anche quando i governi hanno chiaro l’obiettivo e mettono in campo uomini e risorse (si pensi alla fortissima volontà politica espressa dal governo Renzi sul dissesto idrogeologico), i risultati stentano a venire. Mentre i vecchi progetti regionali e nazionali anti-dissesto, precedenti al 2010, che ammontavano a 2,7 miliardi, hanno cominciato a muoversi (sono stati aperti cantieri per quasi 1,5 miliardi) superando parzialmente vecchie incrostazioni, veti, clamorose carenze progettuali e inerzie regionali, il nuovo piano fa fatica a mettersi in movimento. La spesa reale, di cassa, non supera nel 2016 i 50 milioni, contro i 90 preventivati, e conta di arrivare nel 2017 a 150-200 milioni, con una partenza lenta, considerando che l’orizzonte di pianificazione è assai più ambizioso, comunque lo si voglia girare: 30 miliardi di interventi “larghi” individuati dalle Regioni; un primo piano da 7 miliardi da selezionare con le Regioni, finanziato con un prestito Bei da 1,8 miliardi per il centro-nord e dal fondo sviluppo e coesione (Fsc) per i patti al Sud; un piano stralcio per le aree metropolitane di 1,3 miliardi, di cui una prima tranche da 800 milioni che è in fase di decollo ma presenta già 2-3 mesi di ritardo è una seconda tranche da 500 milioni da coprire. È qui, in fondo, è l’altro compito del governo Renzi dopo aver messo a punto con chiarezza una nuova politica di rilancio degli investimenti, con priorità chiare e forti. Evitare che gli annunci e le cifre restino sulla carta. Dimostrare, dopo gli sblocca-Italia del passato, di saper andare oltre quella coltre di interessi che in Italia frena gli investimenti (e che non di rado gira intorno a vischiosità regionali e locali). Non poco è stato fatto con il decreto regolamentare sui poteri sostitutivi al Presidente del Consiglio, approvato dal Cdm prima della pausa ferragostana. Ora bisogna mettere a regime, con le politiche delle cabine di regia in cui confluiscano anche i ministeri più forti, quegli strumenti che in fase sperimentale già si sono avviati: super commissari, fondi rotativi per garantire la realizzazione di un plafond di progetti esecutivi, “patto” fra Mef, Ragioneria, Palazzo Chigi e singoli ministeri interessati per garantire tutta la cassa che serve (del Fsc ma non solo) per dare continuità nel tempo a interventi pubblici e privati non rituali. *** STEFANO CARRER, IL SOLE 24 ORE 26/8 – C’è molto “terremoto” nella prima tranche della manovra di stimoli fiscali all’economia approvata ieri dal governo giapponese: un budget addizionale di spesa pubblica da 4.520 miliardi di yen (circa 45 miliardi di dollari), il secondo di quest’anno, di cui 1.960 miliardi di yen andranno a misure di prevenzione e di rilancio in seguito ai terremoti del marzo 2011 nel Tohoku e dell’aprile di quest’anno nella provincia di Kumamoto. La prima “lezione” che viene dal Paese più esposto ai terremoti appare dunque come la più ovvia, anche se non sempre compresa: i terremoti costano e devono diventare l’occasione per non lesinare non solo nell’opera di ricostruzione, ma nella realizzazione di infrastrutture idonee ad alleviare le conseguenze dei disastri naturali. Per questo, in quasi ogni occasione di introduzione di pacchetti di sostegno all’economia giapponese, figurano stanziamenti per opere di prevenzione o di supporto per i casi di emergenze, considerati come un buon investimento. Il Giappone stato sorpreso quattro mesi fa dal sisma di Kumamoto (magnitudo 7.3, con una cinquantina di morti), in quanto quella provincia del Kyushu era considerata tra le meno vulnerabili del Paese, tanto da aver attirato investimenti produttivi proprio per la relativa maggior sicurezza. Nella fascia che va da Tokyo verso il sud-ovest del Paese, la probabilità di un terremoto disastroso (intorno a una magnitudo 8) è data dai sismologi al 70% entro i prossimi 30 anni. Una situazione che ha forzato il Sol levante a essere all’avanguardia negli studi e nelle attività finalizzare al contenimento dei danni. Va ricordato che quasi tutti i circa 19mila morti del disastro del marzo 2011 sono da attribuire allo tsunami innescato dal sisma (magnitudo 9) e non dal terremoto in sé. Gli stranieri presenti a Tokyo l’11 marzo di cinque anni fa si stupirono non solo per la forza di un sisma che fece oscillare i palazzi come birilli, ma per il fatto che subito dopo non si trovava un vetro rotto per le strade. La principale differenza tra Giappone e Italia sta nella tipologia edilizia: nell’arcipelago tutto è antisismico e le strutture – residenziali e non – vengono rinnovate dopo poche decine di anni, tanto che il valore immobiliare è concentrato sul terreno e non su quello che ci viene costruito sopra. Quello che comunque stupirebbe i giapponesi (e non solo) come inconcepibile è che in zone ad alto rischio sismico possano esserci alberghi o altri edifici di pubblico servizio non costruiti con criteri antisismici. Il Giappone è poi sicuramente all’avanguardia nell’educazione ad affrontare i disastri naturali: diffusa, capillare e ripetuta fin dalle scuole elementari, con momenti culminanti come le esercitazioni di protezione civile di massa che si tengono ogni primo settembre. È la data-anniversario del grande terremoto del Kanto, che nel 1923 distrusse Tokyo e Yokohama provocando circa 140mila morti (anche in questo caso, non tanto per il crollo delle abitazioni, ma per gli incendi, favoriti dalla coincidenza con l’ora di pranzo). Oggi il primo settembre è il Giorno della Prevenzione dei disastri naturali, finalizzato a non far abbassare la guardia. Di recente, con la crescita (sia pure ancora modesta) dei residenti stranieri, l’opera di educazione alla prevenzione e ai comportamenti da tenere si è estesa. A Tokyo, ad esempio, anche gli stranieri vengono invitati a minicorsi sull’emergenza e ricevono manuali in lingua inglese. Sarebbe certo un buon esempio da seguire per altri Paesi a più forte immigrazione. Nei residence di Tokyo in ogni stanza non è insolito che vengano distribuiti kit di emergenza (anche con cibarie a lunga scadenza). Ma presso ogni famiglia giapponese è normale la presenza di kit di emergenza, “aggiornati” con scrupolo. Naturalmente, infine, il Giappone ha investito molto sulle attrezzature scientifiche e le infrastrutture tecnologiche necessarie a monitorare i movimenti della terra ed elaborare tempestivamente i dati. In caso di forti scosse, i telefonini trillano immediatamente e forniscono informazioni aggiornate. Oggi la scienza consente di “prevedere” il terremoto e dare l’allarme solo con al massimo pochi secondi di anticipo. Ancora troppo poco. Di utilità pratica più evidente sono gli allarmi-tsunami. Anche se 5 anni fa il preavviso di oltre mezzora non bastò a permettere a migliaia di persone di porsi in salvo. Stefano Carrer, Il Sole 24 Ore 26/8/2016 *** ROBERTO GIOVANNINI, LA STAMPA 26/8 – Il Giappone, uno dei Paesi più esposti al rischio sismico, è davvero un esempio da seguire. Grazie a un mix di misure di prevenzione e di contenimento dei danni, riesce a limitare in modo notevole perdite umane e distruzioni. Anche in occasione di terremoti gravissimi, come quelli di Kobe del 1995 o quello del Tohoku del 2011. Imitarle non è facilissimo però. In Italia si cerca di preservare gli edifici storici e le città antiche; in Giappone - dove da sempre gli edifici residenziali sono basati su materiali leggeri come il legno, che periodicamente per terremoti e guerre vengono distrutti - si preferisce buttar giù e ricostruire. Utilizzando, ovviamente, tutte le più moderne e aggiornate tecnologie antisismiche. Secondo, i governi laggiù spendono per ricostruzione, prevenzione e retrofitting antisismico risorse ingentissime, da noi impensabili. Infine, la popolazione giapponese è preparata agli eventi sismici, e disposta a rispettare le regole mirate a ridurre i rischi e i danni. Ridurre, non eliminare: il 14 e il 16 aprile scorsi due sismi hanno colpito Kumamoto, nel Sud del Giappone, con 80 morti e danni diretti e indiretti stimati in molti miliardi di euro. La prima misura è quella che riguarda le procedure di costruzione degli edifici. I codici delle costruzioni sono periodicamente rivisti e aggiornati per tenere conto delle più innovative tecniche antisismiche. Tra queste, sistemi di molle o di cuscinetti che permettono alle strutture di assecondare i movimenti del terreno, e strutture molto elastiche che consentono ai grattacieli grandi ondeggiamenti senza arrivare a rotture strutturali. Ancora, appositi sistemi impediscono che rotture dei cavi elettrici o delle tubazioni del gas generino incendi o altri disastri: treni e metropolitane si arrestano subito. Poi, come detto c’è una popolazione assolutamente preparata al rischio sismico. Sin da piccoli gli scolaretti giapponesi sanno che appena la terra comincia a tremare forte bisogna coprirsi la testa con un tatami e mettersi sotto un tavolo. In tutti gli uffici, pubblici o privati, si svolgono periodiche esercitazioni. In casa tutti tengono un kit di sicurezza con documenti, acqua, medicine e cibo per un paio di giorni. Terzo, in Giappone esiste un sofisticato sistema di pre-allarme in grado di avvertire la popolazione dell’arrivo di un sisma importante, o di uno tsunami, basato su una rete di sensori situati in tutto il Paese. Non appena si avverte l’imminenza di un sisma, immediatamente l’allarme viene lanciato sovrapponendosi ai programmi televisivi in diretta, indicando forza e localizzazione presunta del sisma o dell’onda in arrivo. Sono quasi sempre soltanto pochi secondi di anticipo: forse quelli che fanno la differenza tra la vita e la morte. Da poco ha avuto un gran successo una app per gli onnipresenti smartphone, Yurekuru, che in caso di sisma individuato dalle autorità squilla fortissimo. Il primo agosto, però, per un errore tecnico dell’Agenzia pubblica, un (falso) allarme terremoto ha gettato nel panico milioni di giapponesi. *** BLOOMBERG - IL POST 2/5/2016 – Questo manga non ha niente di divertente: ci sono finestre di uffici che vanno a pezzi, treni che deragliano e auto che cadono da ponti che stanno cedendo. Succede tutto alle 16.35 di un giorno ribattezzato come il «giorno X di Tokyo». Questo è lo scenario catastrofico descritto da un libro a fumetti di 300 pagine sulla preparazione ai terremoti pubblicato dall’amministrazione dell’area metropolitana di Tokyo. Il libro si apre con un avvertimento importante: secondo gli esperti c’è il 70 per cento di possibilità che entro trent’anni un terremoto colpisca direttamente l’area metropolitana di Tokyo, dove vivono 36 milioni di persone. «È una gara tra noi e il terremoto. Se non saremo noi a vincere non riusciremo a proteggere la capitale», ha detto Satoshi Fujii, professore dell’università di Kyoto e consigliere speciale per le strategie di preparazione alle catastrofi nel governo di Shinzo Abe, il primo ministro giapponese. Questo mese le misure per la preparazione al “grande terremoto” sono diventate più urgenti, dopo che due terribili terremoti hanno colpito il sud del Giappone, mettendo in luce i punti deboli nel livello di preparazione del paese a catastrofi del genere. Il Giappone – che si trova sulla cosiddetta “cintura di fuoco”, la catena di vulcani e linee di faglia che si incrociano sul bacino dell’Oceano Pacifico – è un paese sismico, in cui si registrano fino a duemila terremoti l’anno, e ha città densamente popolate. La combinazione di questi due elementi fa sì che migliaia di persone rischino di perdere la vita per una catastrofe che potrebbe arrivare in qualsiasi momento. Il 14 aprile la prefettura di Kumamoto, che si trova nella più meridionale tra le isole principali dell’arcipelago giapponese, è stata colpita dal sisma più forte nel paese dopo quello che nel marzo 2011 uccise circa 16mila persone nella regione settentrionale di Tohoku. Al primo terremoto, di magnitudo 6,5, ne è seguito un altro di magnitudo 7,3, 28 ore dopo. Secondo Fujii, gli esperti non avevano previsto il doppio sisma. Il governo dovrebbe ispezionare immediatamente gli edifici usati come centri per gestire il post-disastro, dopo che alcuni di quelli a Kumamoto sono diventati inutilizzabili, ha detto in un’intervista Fujii. «Dobbiamo agire una volta per tutte, partendo dal presupposto che il terremoto sta arrivando», ha detto Fujii. Ci sono ore in cui Giappone si registra più di un terremoto ogni dieci minuti, e secondo l’Agenzia meteorologica giapponese l’isola di Kyushu è ancora colpita da sismi. Uno scenario imminente Ci sono previsioni affidabili che descrivono come avverrebbe una catastrofe simile. Un terremoto di magnitudo 7 direttamente sotto l’area metropolitana di Tokyo, la metropoli più grande al mondo, è uno «scenario altamente imminente» che potrebbe uccidere 23mila persone e causare danni economici per 95mila miliardi di yen, stando al rapporto sulla gestione delle catastrofi in Giappone nel 2015 dell’ufficio di gabinetto giapponese, che sta cercando di dimezzare queste cifre rinforzando più case, adottando misure anti-incendio e provando a diminuire la densità di popolazione nelle zone con il maggiore rischio sismico. Secondo una previsione ancora più catastrofica ci potrebbe essere invece un triplo terremoto, che insieme a un potente tsunami inghiottirebbe a una grossa parte della costa pacifica giapponese provocando danni fino a Tokyo. In questo caso i morti potrebbero arrivare fino a 323mila, con danni economici per 214mila miliardi di yen. Anche se la probabilità che uno scenario del genere si realizzi davvero è «estremamente piccola», è stato deciso di renderla comunque pubblica per condividere gli insegnamenti tratti dal terremoto e dallo tsunami del 2011. Una pronta e ampia evacuazione dei cittadini verso strutture resistenti agli tsunami ridurrebbe il numero dei morti dell’80 per cento. La probabilità che un terremoto di magnitudo 8 o 9 colpisca l’area a largo della costa meridionale del Giappone nota come “fossa Nankai” nei prossimi 30 anni è di circa il 70 per cento. Il governo giapponese ha adottato due piani anti-disastri diversi, dal 2014. Uno di questi si occupa dei terremoti che hanno origine nella fossa Nankai, da cui dal 1600 sono partiti 6 sismi di almeno 7,9 di magnitudo. L’altro piano prende in esame il caso di un terremoto di magnitudo 7 direttamente sotto i 23 distretti di Tokyo. Il disastro di Tohoku è iniziato con un terremoto di magnitudo 9, che ha generato uno tsunami alto 39 metri e ha spazzato via intere città, danneggiando gravemente la centrale elettrica nucleare di Fukushima, nelle vicinanze. Il libro per prepararsi alle catastrofi dell’amministrazione di Tokyo ha per protagonista un eroe disorientato, Mamoru, che in giapponese significa “proteggere”. Mentre fissa a bocca aperta i palazzi che vacillano e i crateri nelle strade, Mamoru si accorge che il suo telefono non ha campo per colpa delle linee intasate. Alla fine del libro si scopre che non è successo niente, e torna tutto alla normalità: l’allarme terremoto dell’agenzia meteorologica aveva messo in moto la fantasia di Mamoru, che si era immaginato tutto. Una didascalia in chiusura avverte che «la storia è di fantasia e che ogni legame a persone o organizzazioni reali è del tutto casuale». Consigli pratici Il libro contiene anche suggerimenti pratici su come tamponare una perdita di sangue arterioso, capillare e venoso; consiglia di usare collant e cravatte al posto delle bende, e dei giornali per rimanere al caldo, mentre le buste della spesa possono essere trasformate in pannolini di emergenza. Enti locali e aziende hanno accettato di aprire i loro uffici e usarli come rifugi d’emergenza, se necessario. La Sumitomo Metal Mining, società produttrice di rame e nichel che possiede anche l’unica miniera d’oro del Giappone, sta riesaminando le proprie strutture per assicurarsi che siano in grado di reggere a un forte terremoto, ed è preparata a ospitare nella sua sede di Tokyo chi non riuscisse a tornare a casa per la sospensione dei treni in caso di disastro. Il distretto Chiyoda di Tokyo, che ospita i quartieri finanziari di Marunouchi and Otemachi, sta chiedendo alle aziende della zona di fare scorte per tre giorni in previsione della catastrofe e ha raggiunto un accordo che prevede che le aziende della zona accolgano 27mila persone in caso di necessità, secondo Kenichiro Ishiwata dell’ufficio per la pianificazione delle catastrofi di Chiyoda. Secondo le stime del distretto, nel caso di un grande terremoto 500mila persone non sarebbero in grado di tornare a casa, e viste le sole mille persone a loro disposizione, anche Ishiwata riconosce che ci sono dei limiti a quello che le autorità locali possono fare. «È solo questione di tempo prima che ci sia un terremoto nella zona di Tokyo», ha detto Gavin Hayes, geofisico di ricerca del Geological Survey degli Stati Uniti (l’agenzia scientifica americana che si occupa di studiare il territorio e i suoi rischi), che è stato coinvolto per lo studio dei recenti terremoti di Kumamoto. «La zona di subduzione a sud dell’area del terremoto di Tohoku finirà con il generare probabilmente un grande terremoto». I cittadini temono di rimanere dispersi dopo la catastrofe. Mariko Kamikawa, una donna sulla settantina, la settimana scorsa è andata in un ufficio comunale del suo quartiere per chiedere come sarebbe stata salvata se ce ne fosse stato bisogno. «È dal terremoto di Tohoku che mi preparo per questo», ha raccontato la donna. «Vivo da sola, come molti dei miei amici. Ci sono molti anziani, per noi è davvero una preoccupazione. Se succede qualcosa ci verranno a salvare?». Finbarr Flynn e Katsuyo Kuwako, Bloomberg - Il Post 2/5/2016 © 2016 – Bloomberg *** ANTONIO FRASCHILLA, LA REPUBBLICA 26/8 –  Un fiume di denaro dopo il sisma per ricostruire quanto distrutto. Pochi spiccioli per la messa in sicurezza di un patrimonio abitativo tra i più vecchi e cadenti d’Europa. Nel Paese dei terremoti per la prevenzione sono stati stanziati appena 950 milioni di euro solo dopo i fatti dell’Aquila. E di questi fondi sono stati impegnati e solo in parte spesi, per l’adeguamento degli edifici non più di 180 milioni mentre in alcune Regioni i fondi sono quasi del tutto bloccati: come in Sicilia, una delle aree più in pericolo del Paese. Il risultato? Ogni giorno dovrebbero pregare che la scossa non arrivi da loro oltre 24 milioni di italiani, il 40% della popolazione, che vivono in 4,7 milioni di edifici ad elevato rischio sismico. Di questi immobili, 2,1 milioni sono stati realizzati prima del 1971, quando non esisteva alcuna norma edilizia in materia. «Ormai è assodato che il 70-80 per cento degli edifici pubblici e privati in Italia non è adeguato a reggere un terremoto – dice Alessandro Martelli, ex dirigente dell’Enea – comunque anche le abitazioni realizzate dopo il ’71 non sono sicure: una volta ho perforato con un dito un pilastro di un asilo in Sicilia, a Collesano, che era stato appena ricostruito. Perfino gli immobili recenti in molti casi non sono a norma. Ma tanto tra qualche giorno nessuno si ricorderà della prevenzione e un vero piano antisismico in questo Paese non si farà mai». Secondo gli esperti per mettere in sicurezza solo gli edifici pubblici, considerando che la metà delle scuole e degli ospedali non è a norma, occorrerebbero 40 miliardi di euro: «Questa è una cifra al ribasso, ma almeno così in venti anni ci metteremmo in sicurezza», dice Mauro Grassi, direttore della Struttura “Italia sicura” di Palazzo Chigi. Se si allarga l’orizzonte anche alle case private, gli ingegneri parlando addirittura di 93 miliardi. Nel frattempo lo Stato non ha nemmeno un dipartimento unico che si occupa di prevenzione sismica e monitoraggio degli edifici. Le competenze sono disperse in mille rivoli tra ministero Infrastrutture, Protezione civile, Enea, geni civili e alla fine nessuno sa rispondere con dati ufficiali e certi a una semplice domanda: quanti soldi sono stati spesi in prevenzione del rischio sismico, per fare cosa, in quale aree e perché? Dal Dopoguerra a oggi lo Stato ha stanziato 150 miliardi di euro per ricostruire le zone colpite dal sisma e se si allarga l’orizzonte al dissesto idrogeologico la cifra sale a 250 miliardi. Ma per la messa in sicurezza degli edifici nel resto del Paese il primo finanziamento arriva solo dopo il terremoto dell’Aquila nel 2009, quando il governo Berlusconi impegna 950 milioni nel «fondo per la prevenzione del rischio sismico». Soldi serviti in gran parte per la mappatura dei terreni e delle zone rosse. E per gli edifici? Al momento, e sono trascorsi sette anni, sono stati impegnati e non tutti spesi non più di 180 milioni per circa 250 interventi. Una goccia nel mare. Ma c’è di più. In molte regioni la spesa è vicina allo zero: in Sicilia i 10 milioni di euro per la mappatura dei terreni sono ancora bloccati. Il motivo? In una Regione che ha un bilancio da 24 miliardi di euro non sono state trovate le somme per cofinanziare il progetto e adesso si aspetta la nuova pioggia di fondi Europei. E dire che i numeri sugli edifici a rischio crollo nel Paese sono drammatici. Secondo una ricerca dell’Ance ci sono 4,7 milioni di edifici privati ad elevato rischio sismico nelle regioni più esposte ai terremoti, 5,5 milioni se si aggiungono quelli pubblici. In queste palazzine vivono 24 milioni di persone, la gran parte concentrate in Campania e Sicilia. In generale nel Paese secondo l’Istat vi sono 7 milioni di immobili realizzati prima del 1971 e di questi 2,1 milioni sono in pessimo stato. Una relazione parlamentare della commissione Sanità denuncia l’esistenza di 500 ospedali a rischio crollo (il 75 per cento di quelli in funzione). Le scuole? «La metà sono insicure e non a norma – dice Salvo Cocina, ex ingegnere della protezione civile esperto del settore – la verità è che occorrerebbe avere il coraggio di abbattere le scuole degli anni Settanta e Sessanta e realizzarne di nuove». Sulla prevenzione l’Italia non ha un piano e ha agito sempre con interventi spot. L’ultimo quello nella scorsa Finanziaria che ha esteso gli sgravi fiscali in materia di ristrutturazione anche a interventi sulla prevenzione dei terremoti. Ma la norma non è stata pubblicizzata: «E in ogni caso va estesa anche ai condomini, altrimenti serve a poco – dice il presidente dell’Ance, Claudio De Albertis – Quello che occorrerebbe davvero è però un programma di grandi interventi nell’edilizia pubblica e privata». Da sempre l’Italia è scossa da terremoti e ancora si parla di piani e programmi d’intervento da varare. Nel frattempo non è nemmeno obbligatorio per ogni abitazione avere la scheda tecnica sul rischio sismico: così chi compra una casa non sa nemmeno se andrà a vivere sotto un tetto sicuro. *** ELENA DUSI, LA REPUBBLICA 25/8 – «Previsione, nel nostro campo, è ancora una parola tabù. Specialmente dopo quel che è avvenuto a L’Aquila». Ma qualcosa si sta muovendo. «California e Giappone sono diventati paesi guida nell’adozione dei sistemi di allerta rapida» spiega Marine Denolle, sismologa dell’università di Harvard. Non sappiamo dire nulla, quindi, su quel che avverrà domani nell’Italia centrale? «Ci sono leggi della fisica che ci consentono di fare previsioni affidabili, entro certi limiti, su quel che avviene dopo un terremoto. Sappiamo che una scossa forte viene quasi sempre seguita da numerose scosse più deboli». Perché parlate sempre di rischi e probabilità, senza poter dare informazioni più precise? «A differenza di altre scienze, quella dei terremoti è una scienza giovane. Ha solo una cinquantina d’anni. Quando registriamo una scossa, possiamo tracciare sulle nostre mappe la presenza di una faglia sismica. E quando le faglie sono al di sotto dei 10 chilometri di profondità possiamo anche delinearle facendo propagare delle onde nel terreno. Se studiamo bene una faglia e impariamo, per esempio, che genera terremoti ogni 100 anni, con un margine di incertezza di 30 anni, possiamo fare dei calcoli. Se l’ultima scossa è avvenuta 120 anni fa, ci aspettiamo che un sisma colpisca a breve». Ma satelliti, sensori nel terreno, gps e algoritmi informatici sono tutti strumenti nuovi, che promettono passi avanti. «Purtroppo prevedere una scossa resta molto, molto difficile. Immaginiamo di avere un bicchiere pieno d’acqua fino all’orlo e di aggiungere altra acqua, una goccia alla volta. Come facciamo a prevedere quale goccia farà tracimare il bicchiere? Con i terremoti il discorso è simile. Le forze e gli stress in azione sulle faglie sono altissimi, ma basta una piccola alterazione per scatenare una scossa. I segnali che potrebbero essere interpretati come precursori sono rari. E vengono puntualmente osservati solo dopo il terremoto». Abbiamo speranza di migliorare la scienza dei precursori? «Il vero problema è che non capiamo con precisione come si generino i terremoti. Per questo c’è ancora dibattito su cosa sia esattamente un precursore». Le mappe del rischio sono l’unico strumento affidabile? «Sì, sono strumenti utili. Conosciamo quali sono le faglie attive e questo ci permette di dire dove si concentra il rischio sismico. Con il tempo stiamo diventando sempre più bravi a determinare quanto – se mai colpirà – un terremoto potrà essere forte. Alcune aree come Los Angeles e Tokyo sono studiate benissimo, e da decenni. Lì siamo in grado di determinare la violenza di un’eventuale scossa molto meglio rispetto ad altre zone. Ma siamo sempre lontani dal livello di precisione desiderato. Sappiamo che l’Italia si trova sul margine di diverse placche ed è soggetta al pericolo di terremoti e vulcani. Ingegneri, economisti e altri esperti possono usare quelle informazioni per calcolare il rischio di una determinata zona». A quale energia i terremoti uccidono? «Dipende. Si possono avere scosse fortissime in zone isolate che non causeranno alcun danno. E scosse di energia moderata (per l’Italia penso a una magnitudo 5 o 6) che colpiscono zone popolate e con un’edilizia povera, creando danni enormi. In Nuova Zelanda c’è stato un terremoto tremendo, di magnitudo 7, distante da Christchurch che non ha creato danni equivalenti a quelli di una scossa di magnitudo 6 che ha colpito proprio sotto la città». Cosa sono i sistemi di allerta rapida, e perché sono così poco diffusi? «Il più efficiente fra questi sistemi di allarme è in Giappone. Ma è estremamente costoso. Ci vogliono numerosissimi sensori distribuiti per tutto il paese e algoritmi precisi per interpretare questi segnali e inviare i messaggi di allerta. La California e ancora una volta il Giappone sono i paesi che stanno investendo di più per migliorare questi algoritmi. Ma prima che possano essere considerati sicuri e adottati dalle autorità pubbliche ci vogliono tantissimi test e validazioni. E se la scossa è vicina l’allarme può arrivare solo pochi secondi prima: utile solo fino a un certo punto». Elena Dusi, la Repubblica 25/8/2016 *** OSCAR GIANNINO, IL MESSAGGERO 25/8 – Spesso non sono i terremoti a uccidere gli uomini, ma le strutture costruite male dall’uomo. Da questa amara constatazione bisogna ripartire ogni volta che un sisma miete vittime nel nostro paese. Cioè ogni pochissimi anni, visto che siamo un paese interessato da forti rischi sismici, regolarmente studiati e censiti dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. La zona del Lazio, Umbria e Marche colpita ieri dal terremoto di magnitudo 6 rientra nella zona 1 della classificazione sismica, la più alta. Eppure, a ogni schiera di morti è come se la lezione non l’avessimo mai imparata. Come ha detto ieri il sismologo Massimo Cocco dell’INVG, in una zona di rischio 1 «tutti gli edifici nuovi devono essere costruiti seguendo regole adeguate, e quelli più vecchi devono essere messi in sicurezza». In questo paese abbiamo perseguito penalmente i sismologi per non aver saputo predire il terremoto dell’Aquila in un processo che ha fatto ridere il mondo, ma alle cose serie documentate da decenni dalla comunità scientifica italiana no, continuiamo a non dare retta. L’INSOFFERENZA Oltre al dolore per le vittime e alla solidarietà per tutti i colpiti, ieri la prima reazione è stata appunto quella dell’insofferenza, nel pensare che paesi del mondo interessati da analoghi rischi tellurici da decenni hanno messo in atto una vera rivoluzione nell’edilizia, mentre da noi ci si continua ad affidare al fato. Facciamo un solo esempio, di quanto amara possa essere la conseguenza del nostro incredibile atteggiamento nazionale. Tra il 14 e il 16 aprile scorso la prefettura di Kumamoto in Giappone è stata colpita da un terrificante sciame di scosse telluriche, oltre mille, con le due punte massime a 6,2 e 7 gradi di magnitudo. La prima delle due è del tutto paragonabile a quella che ieri ha devastato Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. Una magnitudo 6 equivale, nella scala Richter, all’energia sprigionata dall’esplosione entro 100 km di un milione di tonnellate di tritolo, e per capirci la bomba di Hiroshima equivaleva solo a 13mila tonnellate. LE SCALE Una magnitudo 7, poiché le scale sono logaritmiche, equivale invece all’esplosione di 31,6 milioni di tonnellate. Di scosse di magnitudo 6, come quella che ha colpito il centro Italia ieri, se ne registrano in media 120 l’anno sul nostro pianeta. Di magnitudo 7, solo 18. L’area interessata dal sisma giapponese ad aprile ha oltre 2 milioni di abitanti, di cui 800mila nel solo capoluogo Kumamoto. Eppure, malgrado l’alta densità antropica e un sisma tanto più potente di quello che ha colpito l’Italia ieri, le vittime giapponesi furono solo 49. Mentre da noi quando scriviamo si parla di almeno 120 vittime: in un’area in cui i residenti complessivi sono poche decine di migliaia, non milioni come in Giappone. LA RIPROVAZIONE Eppure ieri è bastato dirlo, che dovremmo fare anche noi col nostro patrimonio edilizio quel che da decenni fanno Giappone e California, per scatenare un’ondata di riprovazione. Poi rintuzzata dal parere accreditato di geologi e sismologi, che naturalmente hanno battuto sullo stesso punto. Ma, in generale, la convinzione diffusa resta che no, noi non possiamo credere di poter fare come altri paesi, perché noi abbiamo centri storici e piccoli paesi che sono il frutto di un’evoluzione bimillenaria, mica possiamo radere al suolo e ricostruire come fanno gli altri. E’ una convinzione sbagliata. L’alternativa irrazionale è tra radere al suolo e morire sfidando il fato. Quella razionale è tra il mettere finalmente mano a un enorme piano pluriennale di messa in sicurezza del patrimonio esistente sì, anche quello storico, di edifici che hanno uno, due, tre o quattro secoli e di radicale ottemperanza ai criteri antisismici per le costruzioni nuove. In caso contrario, ricordarsi bene che la colpa delle vittime è nostra. Anche perché poi non è affatto vero che a crollare e a far vittime siano solo gli edifici in pietra secca. Nei terremoti italiani ogni volta se ne scendono a pezzi i palazzi dello Stato edificati pochi anni o al massimo 2-3 decenni fa. LA STRAGE Ricordate la strage di San Giuliano di Puglia, il 31 ottobre 2002, quando sotto i mattoni della scuola completamente distrutta da una scossa di magnitudo 6 morirono 27 bambini e una maestra? Non vi è tornato in mente, osservando ieri le immagini devastate dell’ospedale di Amatrice, inagibile per le scosse malgrado risalga alla fine degli anni Settanta? E malgrado sia stato destinatario di fondi anche per la messa in sicurezza dopo il sisma dell’Aquila del 2009, fondi naturalmente non spesi e dunque senza realizzare le opere di consolidamento previste? La strage di San Giuliano ha visto condannati fino alla Cassazione i responsabili: non la natura aspra e matrigna coi suoi terremoti, ma i costruttori e progettisti, il tecnico comunale e il sindaco dell’epoca, che di quella scuola non a norma portavano la colpa. Da allora, c’è stata una radiografia dell’intero sistema di edifici pubblici sanitari, svolta dalla Commissione che ha consegnato i lavori a febbraio 2016, da cui abbiamo appreso che il 75% degli oltre mille presidi sanitari italiani corre il rischio di crollare, in presenza di scosse come quella di ieri. L’ordine dei geologi a ogni inizio anno scolastico ricorda che nel nostro paese sono 24mila le scuole ad alto rischio sismico. Ma nell’osservatorio per l’edilizia scolastica, che esiste da 20 anni, i geologi non ci sono. L’ordine di grandezza dei danni patiti dall’Italia per eventi sismici e idrogeologici dal dopoguerra a oggi sisma di ieri escluso, ovviamente - è di 250miliardi di euro, e sono sempre i geologi a stimarla. Con oltre 4500 vittime se solo ci limitiamo agli ultimi 40 anni, dal terremoto del Friuli a quello dell’Irpinia, fino all’Aquila nel 2009 e all’Emilia nel 2012. E’ verissimo. Per lo Stato la messa in sicurezza di decine di migliaia di propri edifici comporterebbe costi elevati. Molto più elevati ancora i costi poi per l’intervento sul patrimonio immobiliare privato, intervento che dovrebbe essere incentivato da potentissimi sgravi fiscali. Interventi che dovrebbero essere realizzati anche evitando l’azzeramento del valore in portafoglio alle famiglie, e da una politica ossessivamente volta all’assicurazione degli immobili contro il rischio sismico e idrogeologico. Ma quando si ha alle spalle un bilancio di sangue e finanziario così disastroso per non averlo fatto, continuare a non farlo è da imbecilli. I TEMPI Nessuno può immaginare che ci vogliano pochi mesi o un paio d’anni. Dev’essere una scelta decennale, da presentare in Europa come una priorità assoluta. E del resto, l’Unione Europea per prima s’inventò nel 2002 il FSUE, il fondo di solidarietà contro le calamità naturali, a seguito delle inondazioni che allora avevano colpito il centro Europa. E noi, come paese più sismico e a rischio idrogeologico della UE, dobbiamo provarci seriamente, a convincere i partner del fatto che non possiamo continuare a morire per colpa nostra. Il punto è crederci, volerlo intensamente, metterlo al centro dell’agenda nazionale. Non commettiamo ancora una volta l’errore di affidarci ai tarocchi. *** GIULIA POMPILI, IL FOGLIO 2/8 – Succede, a volte, che il mondo della tecnica si rivolti. Un tema fin troppo facile per una sceneggiatura cinematografica – o televisiva, per esempio “Black Mirror”, la serie tv britannica sulla dittatura tecnologica e le sue fantascientifiche conseguenze, e la terza stagione sarà su Netflix a partire da ottobre. Succede, a volte, che a subire le conseguenze della rivolta sia proprio il paese della tecnica per eccellenza, la patria del Pokemon Go e del Tamagotchi e del primo hotel interamente gestito dai robot (l’Henn-na Hotel, si trova a Nagasaki, 132 euro per una notte in camera doppia). Tokyo, un pomeriggio umidissimo, una temperatura intorno ai trenta gradi. Alle 17 e 09 minuti, gli smartphone iniziano a suonare contemporaneamente. E’ la sirena di Yurekuru Call, un’applicazione che è installata sui telefoni di cinque milioni di giapponesi. Yurekuru, che letteralmente significa “un terremoto che sta arrivando”, segue i dati dell’Agenzia meteorologica giapponese e non ha nulla di predittivo, semplicemente avverte i cittadini qualche secondo prima dell’arrivo del sisma (anche quei pochi secondi, in certe circostanze, sono utili). Quando è partito l’allarme, ieri, l’immagine che compariva sui cellulari degli utenti era apocalittica: sta per avvenire un terremoto con epicentro nell’area della baia di Tokyo, un sisma di magnitudo 9,1. Alcuni treni, come da procedura, si sono fermati. La gente ha iniziato a correre fuori dagli edifici, in attesa del Big One, il terremoto devastante che – secondo gli scienziati – al settanta per cento di probabilità dovrebbe colpire l’area di Tokyo nei prossimi trent’anni. E però era tutto un errore. Uno sbaglio, un falso allarme partito dall’Agenzia Meteorologica per motivi ancora da chiarire (forse un fulmine che ha colpito la stazione, dicevano ieri alcune fonti dall’Agenzia, che invece parla di “un rumore elettrico sul fondo dell’oceano”). L’allarme è stato cancellato dopo pochi secondi, ma nel paese della tecnica, dove tutto funziona con puntualità proverbiale, è proprio lì che entra in gioco la variabile impossibile da calcolare: quanto ci mette un’applicazione a far rientrare il panico irrazionale delle persone? Dopo il terremoto che ha colpito la prefettura di Kumamoto, nell’aprile di quest’anno, e soprattutto dopo il devastante terremoto dell’11 marzo del 2011, il Giappone ha fatto della prevenzione del rischio una scienza esatta. Fino a prova contraria. Il governo metropolitano della capitale qualche mese fa ha pubblicato un manuale di trecento pagine per preparare i suoi 36 milioni di abitanti alla catastrofe. Di terremoti in Giappone ce ne sono almeno duemila l’anno, e tutti i nuovi edifici sono costruiti secondo rigorosissime regole antisismiche. Ma un terremoto del nono grado sulla scala Richter, secondo un paper dell’ufficio di gestione dei disastri del governo, se colpisse Tokyo potrebbe fare ventitremila vittime e oltre 850 miliardi di dollari di danni. Prepararsi al peggio è sempre meglio di niente: nel manuale ci sono i consigli di Mamoru, un pupazzetto che spiega tutto, da come comunicare senza la rete cellulare a come depurare l’acqua e creare un water dal nulla (è disponibile anche in inglese, qui www.metro.tokyo.jp/ENGLISH/GUIDE/BOSAI/). Tutti i giapponesi hanno uno zainetto sempre pronto per l’evenienza, con ciò che serve per resistere fino all’arrivo dei soccorsi. E’ sopravvivenza. Ieri, però, i giapponesi hanno assistito a una specie di “prova generale” del Big One, e quando hanno capito che era tutto finto se la sono presa con l’Agenzia metereologica, perché morire di crepacuore per colpa di un errore tecnico non è poi tanto meglio che morire per un terremoto. “E’ stato probabilmente il più grande errore” da quando il sistema di “previsione” dei terremoti è stato inventato, ha detto il portavoce dell’ufficio per la prevenzione dei disastri al Japan Times. L’Agenzia non ha ancora smesso di scusarsi per aver terrorizzato i giapponesi, ma con il nuovo governatore eletto domenica scorsa, Yuriko Koike (non proprio una tenera) c’è da giurare che qualche testa per un errore simile salterà. Giulia Pompili, Il Foglio 2/8/2016 *** GIULIA POMPILI, IL FOGLIO 19/4 – I terremoti non sono prevedibili. E’ un concetto difficile da comprendere per un paese come il nostro, che dopo il sisma dell’Aquila del 2009 ha istituito un processo mediatico – e pure penale – contro la Commissione Grandi rischi, colpevole di non aver “avvisato” preventivamente la popolazione di una possibile scossa più forte dello sciame sismico che stava colpendo in quel periodo l’area del capoluogo abruzzese. Ma la scienza – quella vera – è chiara: i terremoti non sono prevedibili. Lo sa il Giappone, forse uno dei paesi più preparati ai disastri naturali. L’isola meridionale di Kyushu era da sempre considerata piuttosto sicura, nonostante tutto il territorio nipponico sia soggetto a rischio sismico. Per la sua relativa sicurezza, Kyushu è diventata negli anni la sede di numerose industrie manifatturiere, tra cui la Mitsubishi, la Honda, la Sony e la Toyota. Aziende che studiano i terremoti, i fattori di rischio, e spendono parecchi soldi per addestrare i dipendenti in caso di calamità naturali. Ieri la Toyota ha sospeso le attività di produzione per alcuni giorni a causa di difficoltà nella catena di distribuzione dei componenti. Lo sciame sismico rischia di peggiorare i danni già registrati dopo il terremoto di giovedì, di 6,5 gradi sulla scala Richter, e la scossa di venerdì, il cui epicentro è stato calcolato nella stessa zona – tra Kumamoto e la prefettura di Oita – questa volta più forte, di 7,3 gradi Richter. Nel mezzo, e fino a ieri, 530 terremoti minori. I morti accertati sono 42, almeno 400 le case crollate, migliaia inagibili. Centodiecimila sarebbero gli sfollati, aiutati da un esercito intero di militari, forze dell’ordine, pompieri, che il governo di Shinzo Abe ha inviato per organizzare la vita durante l’emergenza. Ieri il quotidiano Asahi spiegava che secondo i sismologi l’epicentro si sta spostando verso sud-ovest, e che nessuna zona è al sicuro visto che, dopo il primo sisma, la probabilità di un evento del grado 7,3 era considerata solo “fino allo 0,9 per cento”. Quello 0,9 per cento che si è poi verificato. Quando la scienza non può prevedere, e la tecnica può aiutare ma non arrestare un evento catastrofico, allora non resta che la preparazione, la risposta efficace, tempestiva. Per una tragica casualità, mentre il Giappone combatteva con la calamità naturale – che ricorda le immagini successive all’11 marzo di cinque anni fa, quando il sisma colpì il Tohoku – anche l’Ecuador è stato colpito da un terremoto di 7,8 gradi sulla scala Richter, soltanto 0,3 gradi in più rispetto alla seconda scossa in Giappone di venerdì. Nel paese guidato da Rafael Correa i morti sono almeno 350. E’ il peggiore sisma degli ultimi quarant’anni. Sono due terremoti molto diversi, quello del Giappone e quello dell’Ecuador. Ha spiegato ieri il New York Times che non hanno alcuna relazione – come invece alcuna stampa ha lasciato intendere: anche geologicamente si tratta di movimenti diversi. Appunto, le vittime. La differenza tra le catastrofi forse risiede lì, nella cultura della reazione, nella resilienza. Un paese preparato culturalmente e socialmente non teme il disastro ambientale, la natura che si manifesta, ma usa la scienza e il progresso per trovare metodi e soluzioni. La discussione sull’energia nucleare che si è aperta in Giappone dopo il terremoto del 2011 e il disastro di Fukushima aveva le sue ragioni: la catastrofe si verificò perché non era stata messa in sicurezza la centrale, perché l’uomo non aveva applicato la scienza e la tecnica di cui era capace (da notare, però, che l’unica centrale atomica ancora attiva nel Sol levante, a cinque anni da quel sisma, è a un centinaio di chilometri da Kumamoto, l’epicentro del terremoto dei giorni scorsi). In Italia, di solito, in questi casi si usano le commissioni d’inchiesta, i tribunali. A volte i referendum. Tutto, tranne che la scienza. Giulia Pompili, Il Foglio 19/4/2016 *** GIAN ANTONIO STELLA, CORRIERE DELLA SERA 19/1 – Arriverà? I molisani angosciati dallo sciame sismico e dall’incubo di un terremoto non possono avere risposte certe dagli scienziati: la scienza sa di non sapere. E lo ammette. Meglio così che buttar lì previsioni non più credibili di quelle del Marchese di Carabà. Ma se «gli astronomi da molti secoli sono in grado di prevedere l’esatto istante delle prossime eclissi di Sole» e tutti noi viviamo online e le tecnologie sono sempre più avveniristiche, com’è possibile «che i sismologi siano tanto ignoranti da non riuscire a prevedere nulla di nulla?». La domanda è ripresa da Francesco Mulargia, docente di Geofisica a Bologna e membro della commissione Grandi rischi, nel saggio «Prevedibile / imprevedibile. Eventi estremi nel prossimo futuro» che lui stesso ha curato con Emanuela Guidoboni e Vito Teti. Risposta onesta: esatto, non è possibile. «Il fatto è che il problema dei terremoti è leggermente più complicato delle chiacchiere da bar, o da blog». Cercate chiacchiere? Il web trabocca. Digitando su Google le parole «terremoto e astrologia» in italiano e inglese escono 900.000 risultati. Come appunto i pistolotti di un certo «Marchese di Carabà» (ricordate «Il Gatto con gli stivali»?) che vorrebbe spiegare tutto con «le stelle connesse ai terremoti» tipo «Aldebaran della costellazione del Toro, Antares dello Scorpione, Sirio nel Cane Minore». Auguri. In alternativa, ci son sempre i tarocchi o i fondi del caffè... In realtà, purtroppo, poco è cambiato da quando il sismologo Fernand Montessus de Ballore, chiamato in Cile dopo un catastrofico terremoto a Valparaiso, scrisse nel 1919: «Perché io sistematicamente rifiuto, a ragione, di profetizzare i terremoti, il governo non mi ascolta più». Mezzo secolo dopo, Charles Richter, che diede il nome alla «scala», ribadiva: «Dal tempo che mi sono interessato alla sismologia, le predizioni e quelli che le fanno mi hanno sempre fatto schifo. I giornalisti e il grande pubblico si precipitano sulla minima suggestione di predizione di un terremoto, come maiali verso un trogolo pieno... La predizione è un magnifico campo di caccia per i dilettanti, gli eccentrici e i ciarlatani avidi di pubblicità». Siamo ancora là. Ovvio: se ancora oggi non è facile per i meteorologi stabilire con esattezza cosa succederà dopodomani pur avendo a disposizione un secolo di cicli meteorologici, sostiene Mulargia, «nei nostri cento anni di registrazioni strumentali dei terremoti abbiamo osservato soltanto un milionesimo di un ciclo di convezione del mantello terrestre». Per capirci: «È come osservare un milionesimo di anno, cioè meno di un minuto di dati meteorologici, e pretendere di fare previsioni affidabili». Assurdo. Men che meno serve osservare «gatti che si nascondono, serpenti che escono dai buchi, pesci che saltano fuori dall’acqua, galline che si agitano». Che si tratti di antichi oracoli o di analisi avveniristiche «tra tutti i segni premonitori potenziali non è stato possibile trovarne uno che sia di valore universale». Certo, uno sciame sismico come quello registrato in questi giorni in Molise con una miriade di scosse tra le quali un’ottantina superiori ai 2 gradi della scala Richter e un paio intorno ai 4 gradi è una cosa seria, spiega Mulargia. Quindi «occorre stare in guardia». I terremoti tendono a «raggrupparsi nel tempo e nello spazio» e dunque nella scia di uno sciame, scusate il pasticcio, il rischio «aumenta grandemente». «Grandemente» quanto? Se l’eventualità di avere un terremoto a sorpresa in una certa zona è una su 100.000, la probabilità all’interno di uno sciame sismico sale di mille volte: una su cento. Guai non tenerne conto. L’utilità pratica, però, «è molto scarsa: anche all’interno di uno sciame, in 99 casi su 100 non accadrà nulla». Come è già successo più volte in passato. Il problema quindi «sta nella gestione dell’emergenza, che a livello elementare prevede solo due comportamenti: o si fa finta di niente o si evacua la zona». Ma si può fare una scelta simile con probabilità così alte e insieme così basse di rischio? I giapponesi, fin da piccoli, hanno chiaro cosa fare se capita: niente ascensore, niente fughe per le scale, niente panico: evitare le librerie, i pensili e i tramezzi e appiattirsi sotto un muro portante: è il luogo più sicuro. È dal 1978, spiega nel libro collettivo già citato il fisico francese Jean-Paul Poirier, che aspettano la botta nell’area di Tokai, a nord di Tokyo: non è mai arrivata, meglio così. Ma sono pronti. Lo stesso vale per i californiani, che dal 1961 tengono sotto strettissima sorveglianza la faglia di San Andreas. Vivono, lavorano, studiano, amoreggiano, ridono sapendo che può accadere da un momento all’altro. Ma gli uni e gli altri, in Giappone e California, hanno piani d’emergenza, hanno edifici antisismici, hanno esercitazioni a scuola. Non si tappano le orecchie e non toccano il cornetto scaramantico. Ed è questa la tesi di fondo degli scienziati. Come spiega Luca Valensise, quella colpita in questi giorni in Molise è un’area a «elevatissima pericolosità sismica, probabilmente la più alta in Italia insieme all’Abruzzo e alla Calabria». Già colpita, tra l’altro, dal «terremoto di Sant’Anna» che il 26 luglio 1805 uccise nell’area del Matese, tra Isernia e Campobasso, 5.573 persone. «Sono passati “solo” due secoli, un tempo decisamente breve per i “tempi di ricarica” tipici di quelle grandi faglie sismogenetiche, però...». Gira e rigira, si torna sempre lì: non è il terremoto a uccidere ma il modo in cui gli uomini hanno costruito le case in cui vivono. Uno degli ultimi esempi, del resto, fu proprio molisano: il crollo nel 2002 del tetto appena sottoposto a una ristrutturazione cialtrona della scuola elementare a San Giuliano. Dove l’amministrazione comunale, presi i soldi per dare una «sistemata antisismica» al paese, li spese anche per assurde megalomanie. Comprese delle strisce pedonali in marmo...