VARIE 26/8/2016, 26 agosto 2016
Come ricostruire dopo il terremoto di Amatrice
APPUNTI PER GAZZETTA - COME RICOSTRUIRE DAL CORRIERE DI STAMATTINA INTERVISTA A DELRIO DI LORENZO SALVIA ROMA «Ogni terremoto ha la sua storia, non voglio giudicare le scelte fatte nel 2009 all’Aquila. Però...» Però? «Stavolta a decidere saranno i sindaci. E credo che tutti preferiranno ricostruire il proprio paese lì dov’era, non di abbandonare quello vecchio per farne uno nuovo da un’altra parte». Il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio è appena uscito dalla riunione che ha stanziato i primi 50 milioni per il sisma dell’altra notte. No alle new town, dunque, a differenza dell’Aquila? «La decisione verrà presa quando usciremo dall’emergenza vera e propria. Adesso è il momento di scavare, per tenere accesa la speranza di chi è stato colpito da questa tragedia tremenda. Ma quando imposteremo la ricostruzione daremo la parola a chi rappresenta la gente del posto». Perché è sicuro che nessun sindaco sceglierà di ricostruire in un altro posto? «Perché sono stato sindaco, come Matteo Renzi. E le nostre città sono la nostra storia, tanto più in quei piccoli borghi che rappresentano il cuore dell’Italia. La gente che vive lì va ascoltata, il governo non forzerà la mano». La ricostruzione, però, ha tempi più lunghi rispetto alle new town. «E questo è il vero problema. Il tema è ridurre al minimo la durata degli attendamenti e far ripartire subito i servizi, a cominciare dalle scuole: non dico fin dal primo giorno, ma subito dopo i bambini dei paesi colpiti dovranno tornare sui banchi». Per fare questo servono decisioni rapide. Ci sarà un commissario del governo? «Decideremo con calma. Adesso è il momento di aiutare le famiglie e star loro vicino. Il tempo del dolore e dell’emergenza non è finito. Però so per esperienza che ha funzionato bene il modello dell’Emilia Romagna dove il commissario era il presidente della Regione. Le scelte vanno concordate con il territorio, fatte insieme e non calate dall’alto. Altrimenti non funzionano». C’è una stima dei danni? «No, serviranno diversi giorni. La rilevazione va fatta casa per casa, infrastruttura per infrastruttura». Per il terremoto dell’Aquila la spesa programmata fino al 2029 è di quasi 14 miliardi. Arriveremo alla stessa cifra? «Difficile dirlo ma non credo. I comuni colpiti allora avevano 140 mila abitanti. Stavolta siamo a poche migliaia». Chiederemo all’Unione Europea che i soldi spesi per l’emergenza e la ricostruzione non vengano conteggiati nel tetto del 3% per il deficit? «Siamo davanti a circostanze eccezionali. Non credo ci siano dubbi nemmeno in Europa. Sarebbe importante che restassero fuori anche i soldi che spenderemo per prevenire queste tragedie». Si stima che per mettere in sicurezza tutte le costruzioni italiane servirebbero 360 miliardi di euro. La cifra è corretta? E, soprattutto, lo sforzo è sostenibile? «L’ordine di grandezza è quello e nel lungo periodo non solo ce la possiamo ma ce la dobbiamo fare. Anche perché solo tra il 2010 e il 2012 abbiamo speso 4 miliardi di euro per riparare i danni». Renderete obbligatoria l’assicurazione della casa contro il rischio sismico? «L’ipotesi era stata valutata quando abbiamo discusso la riforma della Protezione civile. Ma poi è stata scartata e sono contento così». Ma oggi chi l’assicurazione la fa su base volontaria non può nemmeno scaricarla dalle tasse. Non è assurdo visto che sono detraibili, per dire, anche le spese per il veterinario? «Questo è oggettivamente un paradosso. Ma il vero obiettivo è rafforzare gli sconti fiscali per chi fa interventi di ristrutturazione anti sismica». Gli sconti ci sono già. «Ma il meccanismo non funziona nei condomini. Devono essere tutti d’accordo, alcuni non se lo possono permettere, altri non pagano le tasse perché hanno un reddito basso e quindi non sono interessati a uno sconto fiscale. Troveremo un meccanismo semplice per aiutare le famiglie a fare questo passo». Ma pensate solo a sconti fiscali o anche a un intervento dello Stato, insomma a soldi freschi da mettere sul piatto? «Certo che ci vuole anche un intervento diretto dello Stato. Ma non mi chieda quanto stanzieremo perché prima bisogna fare un piano organico e poi metterci le risorse che servono». Ministro, si dice che con la prevenzione non si vincono le elezioni. Non saranno mica le solite promesse del giorno dopo, che evaporano nel giro di qualche settimana? «Il tempo ci giudicherà, non ci sono più alibi: noi italiani siamo bravissimi a rialzarci, come stiamo dimostrando anche in queste ore difficili. Ma dobbiamo anche imparare a cadere il meno possibile». LA BUROCRAZIA DAI NOSTRI INVIATI AMATRICE Com’erano fatti quegli edifici che sono crollati come castelli di carte? C’è un responsabile della morte di centinaia di persone? Sotto una generica ipotesi di reato — disastro colposo — la procura di Rieti ha avviato un’ampia indagine che potrebbe decollare a breve con un primo sequestro di macerie, funzionale ad analisi più approfondite. Sarà presto per dirlo, visto che si sta ancora aggiornando il calcolo di morti e dispersi, ma intanto si comincia a ragionare su un fatto palese: alcuni degli edifici, appena inaugurati, avrebbero dovuto essere a prova di sisma. Quali regole sono state seguite nella progettazione e nell’esecuzione? È possibile che siano stati utilizzati, ad esempio, materiali scadenti. E ancora: chi ha eseguito i collaudi e con quali procedure? La pm Cristina Cambi e il procuratore capo Giuseppe Saieva vogliono stabilirlo rapidamente: ieri hanno compiuto un sopralluogo e disposto dei sequestri, in particolare di immobili colpiti dal sisma in cui ci sono state vittime. Quello in mano ai magistrati è un fascicolo che per il momento non contiene indagati, ma che è destinato ad ampliarsi a breve. Anche per le denunce che potrebbero arrivare da cittadini o da enti danneggiati: lo stesso Comune, ad esempio, potrebbe sporgere denuncia contro chi ha costruito, visto che molti edifici pubblici sono andati in briciole. In queste ore arrivano anche altre notizie: fondi stanziati nel 2009 eppure inutilizzati dai Comuni. Soldi per mettere in sicurezza edifici pubblici, come il campanile (che crollando ha ucciso un’intera famiglia) e la scuola di Amatrice ricostruita nel 2012. Le delibere con i relativi stanziamenti sono pubblicate anche sul sito della Protezione civile. A questo punto qualcuno potrebbe dover rispondere di reati ancora da accertare: dalla corruzione all’omissione di atti d’ufficio. Mentre nessuna denuncia è arrivata dai sindaci sulla tempistica dei soccorsi su cui si è polemizzato sia pure solo nelle primissime ore. C’è da dire che il mancato utilizzo dei fondi per la prevenzione del rischio sismico per infrastrutture pubbliche ed edifici privati non è un problema dei soli Comuni montani del Lazio. Dei 963 milioni di euro stanziati dal governo dall’aprile 2009, a pochi giorni dal terremoto de L’Aquila, ad oggi, ne sono stati spesi pochissimi in tutt’Italia. «Colpa soprattutto di un meccanismo a dir poco farraginoso per l’erogazione dei contributi, che pure ci sono» dice il sindaco di Ascoli Piceno, Guido Castelli, vicepresidente dell’Associazione dei Comuni. «I fondi arrivano ogni anno con un’Ordinanza della Protezione Civile, ma tutte le verifiche sulle richieste sono centralizzate, e i soldi - continua Castelli - non arrivano». Di fatto quei fondi sono serviti solo per sistemare alcune scuole. Le domande di finanziamento per ristrutturare o ricostruire ponti e viadotti, sono state, fin qui, appena 23. «Una era la nostra. Ho chiesto i soldi per rifare un ponte che rischiava di crollare tre anni e mezzo fa. Sono arrivati a maggio» aggiunge Castelli. Per la messa in sicurezza degli edifici privati, di quel miliardo, sono stati spesi pochi milioni di euro. Nel 2013, ad esempio, sono state presentate 11 mila domande ai Comuni, che le hanno girate alle Regioni e da queste alla Protezione Civile, ma ne sono state accolte solo 1.849, di cui 480 in Puglia e 580 in Calabria (191 nel Lazio, 114 nelle Marche, 77 in Umbria, le zone colpite dal sisma di questi giorni), con un contributo medio di 20 mila euro. Nel 2010 gli edifici privati che hanno beneficiato dei fondi per la prevenzione sismica sono stati appena 21 in tutt’Italia, saliti a 1.192 nel 2011 e a 1.326 nel 2012. Per il 2016 la Protezione civile stima interventi su 8-12 mila edifici, «ma se la normativa resta questa - dice Castelli - è del tutto irrealistico». Le Ordinanze della Protezione Civile per lo stanziamento dei fondi sono di una complessità estrema, in media una novantina di pagine, più una decina di allegati tecnici. Pagine e pagine per descrivere cosa sia un “edificio”, quali caratteristiche debba avere, quali gli interventi possibili e le clausole di esclusione. Sono stati invece quasi tutti utilizzati i fondi concessi ai Comuni per la «microzonazione sismica del territorio», la premessa per qualsiasi intervento. Le mappe i Comuni le hanno fatte, pure Accumoli e Amatrice. Ci sono anche i soldi, ma le case continuano a crollare. Ilaria Sacchettoni Mario Sensini LORENZO SALVIA SULLE SPESE DI QUESTO DOPOGUERRA ROMA Il primo giugno di quest’anno è terminata la visita della commissione Ambiente del Senato per fare il punto sulla ricostruzione post terremoto. I parlamentari hanno preso atto che, per terminare le opere, servono ancora un po’ di soldi e di conseguenza hanno informato il governo. Di quale terremoto parliamo? Quello dell’Emilia nel 2012, quello dell’Aquila nel 2009 o in Umbria nel 1997? Acqua. La visita era a Gibellina e Salaparuta, in Sicilia, e la ricostruzione ancora incompiuta è quella del Belice, primo grande terremoto del Dopoguerra, 296 morti. Era il 1968. In Italia la terra trema per pochi secondi ma poi la ricostruzione può andare avanti pure per mezzo secolo. E la spesa continua a lievitare. I soldi stanziati per i sette grandi terremoti che hanno colpito l’Italia dal Belice in poi, facendo oltre 4 mila morti, ammontano a 121,6 miliardi di euro. Sono 35 volte quanto abbiamo pagato per la vecchia Imu sulla prima casa, per farsi un’idea. È la stessa cifra che l’Italia ha perso in termini di Pil, cioè di ricchezza prodotta, negli anni più neri della crisi, tra il 2007 e il 2013. I conti li ha fatti il Centro studi del consiglio nazionale ingegneri, sulla base di un documento del servizio bilancio della Camera. Ed è una stima parziale, perché dentro ci sono solo le «spese vive»: i soccorsi, la gestione dell’emergenza, la ricostruzione. Non ci sono i costi indiretti, come i mancati guadagni delle imprese che, per il terremoto, hanno fermato o rallentato la loro attività. Difficili da misurare ma tutt’altro che trascurabili. Una ricerca dell’Università delle Hawaii dice che il terremoto che nel 1995 colpì Kobe fece perdere agli abitanti della città giapponese il 13% del reddito pro capite. Tutto questo resta fuori dalla tabella degli ingegneri. Come i turisti che non arrivano più e non portano soldi. Come le migliaia di euro che lo Stato spende in più per le cure mediche di lungo periodo. Quasi la metà di quei 121 miliardi viene dal terremoto in Irpinia del 1980, il più pesante anche per numero di morti, 2.734. Poi c’è quello del Friuli Venezia Giulia (965 vittime), con poco meno di 20 miliardi, l’unico per il quale il «periodo di attivazione degli interventi» si è concluso, nel 2006. Per tutti gli altri — oltre al Belice e l’Irpinia, ci sono Umbria e Marche nel 1997 con 11 morti, Puglia e Molise nel 2002 con 27 vittime, L’Aquila nel 2009 con 309 morti e l’Emilia nel 2012 con 27 vittime— gli interventi sono ancora in corso. Come sottolinea il documento degli ingegneri e come ricorda il presidente Armando Zambrano «l’esperienza italiana ha sempre evidenziato un continuo ricalcolo delle spese e dei danni con una continua produzione di norme per rifinanziare le attività di ricostruzione, con una lievitazione delle spese e un prolungamento delle azioni di ripristino». Per il terremoto in Irpinia, ad esempio, sono state 25 le leggi e leggine che hanno stanziato qualche milione. L’ultimo intervento per il Belice è arrivato con la Finanziaria del 2013. Anche in questo caso prevenire è meglio che curare. Il presidente della commissione Ambiente della Camera, Ermete Realacci, la prossima settimana convocherà il governo per fare il punto sugli interventi possibili. Sarà quella la prima occasione per vedere come potenziare gli sconti fiscali a favore di chi fa una ristrutturazione antisismica. «Il bonus fiscale — dice Realacci — non solo va esteso ai condomini ma va anche reso stabile nel corso degli anni. Altrimenti le famiglie non si impegnano perché si tratta di spese non trascurabili». Un’ipotesi è la possibilità di cedere la detrazione fiscale a fondi di investimento che poi garantiscono a chi ristruttura una piccola rendita. lorenzosalvia SERGIO RIZZO La maledizione è la memoria corta. «Tutte le volte si ricomincia daccapo. Dopo ogni terremoto ripartiamo da zero, dimenticando tutto quello che è stato fatto prima», dice Roberto Di Vincenzo, il coordinatore del progetto Officina L’Aquila. Nel Paese più fragile e prezioso d’Europa mancano perfino i fondamentali. Non sappiamo quante case sono in quei bellissimi centri medievali aggrappati sulle colline dell’Appennino. Né conosciamo le condizioni reali di quel patrimonio immenso, a cominciare dagli edifici che verrebbero giù al primo starnuto. I catasti sono inaffidabili. I fascicoli di fabbricato, ancora purtroppo una chimera. Il primo passo dev’essere dunque colmare questa micidiale lacuna. Ricostruire la memoria perduta, con un censimento serio e approfondito delle abitazioni, degli edifici che hanno un valore storico artistico, degli immobili pubblici. Darà fastidio, statene certi. Verrebbero fuori tantissime magagne. Si scoprirebbe per esempio che la maggior parte degli edifici pubblici non sono a norma e magari non rispettano neppure le normative antisismiche pur essendo in zone dove il rischio del terremoto è incombente. Ospedali, scuole, municipi. Pure caserme dei carabinieri che occupano stabili presi in affitto da privati, senza che siano state verificate, c’è da supporre, le condizioni statiche. Nel 2007, dieci anni dopo il terremoto che ha sconvolto alcune aree interne di Marche e Umbria, l’ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso parlò pubblicamente di almeno quindicimila scuole a rischio sismico. E i crolli di edifici sono una costante in tutti i terremoti registrati negli ultimi quarant’anni. Ora si apprende che la messa a norma degli immobili pubblici è prevista da un’ordinanza governativa del 2004. Una semplice ordinanza, rimasta praticamente lettera morta. Salterebbero fuori milioni di abusi. E verrebbero alla luce anche le pesanti responsabilità dei politici autori di piani regolatori sconsiderati dettati solo da interessi affaristici o elettorali. Al tempo stesso risulterebbe impossibile occultare i lavori di ristrutturazione fatti con i piedi, capaci paradossalmente di peggiorare la resistenza alle scosse. Ma un censimento è l’unica cosa da fare, e subito, se davvero vogliamo evitare un’altra Amatrice. La mappatura del territorio a rischio è rimasta sempre lettera morta. L’aveva invano proposta già nel 1993 l’urbanista e deputato ambientalista Sauro Turroni, che fra le tante cose era stato anche per nove mesi consulente di Bertolaso per il terremoto dell’Aquila. Ieri lui ha scritto una lettera aperta a Matteo Renzi proponendo di «mettere in catene» i nostri centri storici a rischio per difenderli dai terremoti. Intervenire in modo «leggero» su 513 milioni di metri cubi costruiti prima del 1945 potrebbe costare al massimo, dice Turroni, quattro miliardi e mezzo. Una cifra analoga a quella impegnata finora per la ricostruzione degli edifici privati a L’Aquila. E proprio dal capoluogo abruzzese, se vogliamo rompere con un passato di memoria corta, si deve partire. La ricostruzione qui è rimasta ferma per più di cinque anni, con l’ufficio speciale sommerso da una marea sterminata di pratiche, ognuna delle quali riguardava una singola abitazione. Finché c’è stata la svolta degli aggregati, che era stata anch’essa proposta da Turroni in uno schema di ordinanza messo a punto nei primi mesi del dopo terremoto. Si è cioè stabilito che la ricostruzione privata dovesse procedere per blocchi interi dove gli edifici sono collegati strutturalmente, affidati con gara a una singola impresa, essendo tutti i proprietari d’accordo e consorziati. L’operazione ha permesso di trasformare l’Aquila nel cantiere di consolidamento antisismico più grande del mondo. Per giunta su edifici storici. Sulla città svettano 114 gru, con 583 cantieri aperti di cui 227 nel centro urbano. In poco tempo sono stati innescati interventi sull’edilizia privata per 4 miliardi 377 milioni, con un risparmio di 473 milioni rispetto alla spesa prevista, grazie anche alle economie di scala garantite dall’intervento su interi aggregati urbani. Pezzi di città, per capirci, considerati alla stregua di condomini. L’esperienza dell’Aquila dimostra che procedendo così, e con le tecniche modernissime e i materiali ormai a disposizione, si possono mettere immobili antichi nelle condizioni di resistere a forti terremoti con un costo che oscilla fra 1.000 e 2.000 euro al metro quadrato. Il prezzo della ristrutturazione di una casa normale. La domanda è se il modello aquilano degli aggregati non si possa applicare anche ad altri centri storici a rischio, ma prima che abitazioni e chiese del Quattrocento (e anche ospedali e caserme) vengano giù. A costi economici e umani, ovviamente, assai inferiori. Il problema sono però sempre i soldi che mancano, anche se un simile piano straordinario di messa in sicurezza dei borghi e dei centri storici, partendo dalla dorsale appenninica, potrebbe essere finanziato attingendo ai fondi europei. Perché dunque non provarci? O è meglio aspettare il conto del prossimo terremoto, magari tornando alle care pratiche individuali, casa per casa, che alimentano il vecchio rassicurante sistema clientelare dove tutti lucrano, dal geometra al proprietario? Magari con qualche imprenditore che di notte ride nel letto pensando ai quattrini che si possono fare con un terremoto? La verità è che si finirebbe per mettere in seria crisi quella definita da Turroni nella lettera a Renzi l’«industria delle catastrofi» che fa girare un sacco di soldi. Li fa girare nei puntellamenti degli edifici con i tubi innocenti, affittati a 25 euro per ogni «snodo» come a L’Aquila: e più i muri restano puntellati e le facciate dei palazzi ingabbiate, più denari girano. Li fa girare negli appalti. E nelle cose che non c’entrano un fico secco, come la «ripresa produttiva del Molise» dopo il terremoto del 2002 finanziata con 454 milioni pubblici. Pensate: 1.458 euro per ogni molisano. Sono 293 i beni culturali colpiti dal sisma solo nella zona più ristretta e di questi 50 risultano gravemente danneggiati o crollati. Il ministro della Cultura Dario Franceschini annuncia i primissimi dati sui danni al patrimonio dell’arte. E sottolinea: «È certamente un numero destinato a salire vista la vastità della zona colpita dal sisma». I dati arrivano dalle prime ricognizioni dei carabinieri del Comando per la tutela dei beni culturali. REPUBBLICA STAMATTINA TONACCI E FOSCHINI GIULIANO FOSCHINI FABIO TONACCI UN dirigente distratto, che si dimentica di inviare in tempo l’elenco dei (pochi) che hanno deciso di mettere in sicurezza la casa. Una legge sbagliata che esclude dai finanziamenti le seconde abitazioni, e quindi il 70 per cento di Amatrice. Gli edifici pubblici che si sbriciolano: la scuola elementare Capranica, il Municipio, un intero ospedale chiuso nel momento in cui più servirebbe, il ponte di Retrosi che si lesiona. Potevano piovere un paio di milioni di euro per consolidare le case fragili, in questa terra. Invece negli ultimi sette anni sono arrivati gli spiccioli. Poco più di 200 mila euro. Quando sarà terminata la conta e l’identificazione dei morti, l’inchiesta per disastro colposo aperta dal procuratore capo di Rieti Giuseppe Saieva, dovrà accertare le responsabilità. Un responsabile, però, già si intravede. La burocrazia. La solita vischiosa burocrazia che in Italia impedisce di usufruire a pieno, e rapidamente, dei contributi che lo Stato eroga dopo ogni calamità. E così, a catastrofe segue catastrofe. In una prassi che non impara mai da sé stessa. Subito dopo il terremoto dell’Aquila, i comuni di Amatrice e Accumoli furono classificati “categoria 1”, cioè massimo rischio sismico. L’allora governo Berlusconi stanziò quasi un miliardo da utilizzare entro il 2016 per le zone rosse: i soldi sono gestiti dalla Protezione civile, l’assegnazione ai comuni passa attraverso una graduatoria regionale. A cosa dovevano servire? Ad esempio a dare contributi ai privati cittadini per sistemare le loro case e renderle più sicure. Lo Stato garantisce da 100 a 200 euro al metro quadrato, per piccoli interventi di consolidamento. Non sono la soluzione finale, ma sicuramente possono limitare i danni durante le scosse più forti e salvare vite. Ora, Amatrice ha un centro storico con edifici e appartamenti che risalgono al Settecento. E se in estate la sua popolazione supera le 15mila persone, per l’ufficio anagrafe i residenti effettivi non sono più di 2.750. Quasi tutte le abitazioni private sono seconde case, dunque. Si riempiono d’agosto, restano vuote il resto dell’anno. A rigor di logica, Amatrice avrebbe dovuto beneficiare di una buona fetta dei 10 milioni destinati al Lazio per i suoi 61 comuni dell’Appennino a rischio sismico. Invece, nei primi due-tre anni, da queste parti non si è visto un euro. Anzi, i bandi non furono nemmeno resi pubblici. L’ex capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, fece un tour nel reatino proprio per promuovere la misura, perché nessuno pareva sensibilizzare i cittadini su questa opportunità. In seguito ad Amatrice è accaduto anche che un dirigente poco solerte abbia spedito a Roma le richieste dei suoi cittadini quando ormai erano scaduti i tempi di consegna, facendo perdere così ogni diritto ai finanziamenti a chi (meno di dieci persone) che aveva fatto domanda. Un caso emblematico di come fosse stata presa seriamente l’opportunità del consolidamento antisismico. Ma c’è un altro motivo per cui fino ad oggi dei 10 milioni assegnati al Lazio ne sono stati spesi appena tre. E ancora una volta, torna la manina della burocrazia più cieca. La Regione Lazio, infatti, ha inserito tra i requisiti per accedere ai fondi, la “residenza”, e non la semplice proprietà della casa come invece prevede l’ordinanza della Protezione civile. Risultato: su 1342 domande presentate per il 2013-2014 alla regione, ne sono state accolte soltanto 191. Undici ad Amatrice per un totale di 124.700 euro, e sette appena ad Accumoli per 86.400. Diciotto piccoli interventi sull’ordine dei 10-15 mila euro per diciotto case. Pochissimo. Non solo: da un primo accertamento sembrerebbe che parte di questi soldi non siano stati ancora liquidati, a causa problemi della Regione con la legge di stabilità. E siccome gli intoppi non finiscono mai, negli ultimi due anni l’erogazione si è bloccata del tutto. Anci e Protezione civile nei mesi scorsi hanno per questo convocato un tavolo (che già si è riunito tre volte) per commissariare in qualche maniera le regioni e cercare di velocizzare le faticosissime procedure. Ma il miliardo di euro del post sisma dell’Aquila era destinato anche ad opere strategiche (ponti, scuole, ospedali) dei comuni in zona rossa. Al primo bando in tal senso aveva risposto il comune di Accumoli. Un piano è stato anche realizzato ma, evidentemente, non è stato poi così efficace. Il Lazio è riuscito a finanziare cinque ponti per adeguarli al rischio sismico. Uno si trova proprio in una frazione di Amatrice (gli altri sono a Cantalice, Castelnuovo di Farfa, Contigliano e Rieti). Al “ponte Rosa”, località Retrosi, vanno ad aprile del 2014 170mila euro. Teoricamente è viabilità di competenza della provincia, ma non si ricordano di interventi di consolidamento effettivamente fatti. Il ponte, che si trova su un arteria di alto passaggio, ha tremato come il resto del paese martedì notte, e si è lesionato in alcune parti. Dove sono finiti quei soldi? REP ANTONIO FRASCHILLA NAZIONALE - 26 agosto 2016 CERCA 10/11 di 52 26/8/2016 terremoto in centro italia Mezza Italia a rischio ma per la prevenzione spesi solo 180 milioni ANTONIO FRASCHILLA UN FIUME di denaro dopo il sisma per ricostruire quanto distrutto. Pochi spiccioli per la messa in sicurezza di un patrimonio abitativo tra i più vecchi e cadenti d’Europa. Nel Paese dei terremoti per la prevenzione sono stati stanziati appena 950 milioni di euro solo dopo i fatti dell’Aquila. E di questi fondi sono stati impegnati e solo in parte spesi, per l’adeguamento degli edifici non più di 180 milioni mentre in alcuni Regioni i fondi sono quasi del tutto bloccati: come in Sicilia, una delle aree più in pericolo del Paese. Il risultato? Ogni giorno dovrebbero pregare che la scossa non arrivi da loro oltre 24 milioni di italiani, il 40% della popolazione, che vivono in 4,7 milioni di edifici ad elevato rischio sismico. Di questi immobili, 2,1 milioni sono stati realizzati prima del 1971, quando non esisteva alcuna norma edilizia in materia. «Ormai è assodato che il 70-80 per cento degli edifici pubblici e privati in Italia non è adeguato a reggere un terremoto — dice Alessandro Martelli, ex dirigente dell’Enea — comunque anche le abitazioni realizzate dopo il ’71 non sono sicure: una volta ho perforato con un dito un pilastro di un asilo in Sicilia, a Collesano, che era stato appena ricostruito. Perfino gli immobili recenti in molti casi non sono a norma. Ma tanto tra qualche giorno nessuno si ricorderà della prevenzione e un vero piano antisismico in questo Paese non si farà mai». Secondo gli esperti per mettere in sicurezza solo gli edifici pubblici, considerando che la metà delle scuole e degli ospedali non è a norma, occorrerebbero 40 miliardi di euro: «Questa è una cifra al ribasso, ma almeno così in venti anni ci metteremmo in sicurezza», dice Mauro Grassi, direttore della Struttura “Italia sicura” di Palazzo Chigi. Se si allarga l’orizzonte anche alle case private, gli ingegneri parlando addirittura di 93 miliardi. Nel frattempo lo Stato non ha nemmeno un dipartimento unico che si occupa di prevenzione sismica e monitoraggio degli edifici. Le competenze sono disperse in mille rivoli tra ministero Infrastrutture, Protezione civile, Enea, geni civili e alla fine nessuno sa rispondere con dati ufficiali e certi a una semplice domanda: quanti soldi sono stati spesi in prevenzione del rischio sismico, per fare cosa, in quale aree e perché? Dal Dopoguerra a oggi lo Stato ha stanziato 150 miliardi di euro per ricostruire le zone colpite dal sisma e se si allarga l’orizzonte al dissesto idrogeologico la cifra sale a 250 miliardi. Ma per la messa in sicurezza degli edifici nel resto del Paese il primo finanziamento arriva solo dopo il terremoto dell’Aquila nel 2009, quando il governo Berlusconi impegna 950 milioni nel «fondo per la prevenzione del rischio sismico». Soldi serviti in gran parte per la mappatura dei terreni e delle zone rosse. E per gli edifici? Al momento, e sono trascorsi sette anni, sono stati impegnati e non tutti spesi non più di 180 milioni per circa 250 interventi. Una goccia nel mare. Ma c’è di più. In molte regioni la spesa è vicina allo zero: in Sicilia i 10 milioni di euro per la mappatura dei terreni sono ancora bloccati. Il motivo? In una Regione che ha un bilancio da 24 miliardi di euro non sono state trovate le somme per cofinanziare il progetto e adesso si aspetta la nuova pioggia di fondi Europei. E dire che i numeri sugli edifici a rischio crollo nel Paese sono drammatici. Secondo una ricerca dell’Ance ci sono 4,7 milioni di edifici privati ad elevato rischio sismico nelle regioni più esposte ai terremoti, 5,5 milioni se si aggiungono quelli pubblici. In queste palazzine vivono 24 milioni di persone, la gran parte concentrate in Campania e Sicilia. In generale nel Paese secondo l’Istat vi sono 7 milioni di immobili realizzati prima del 1971 e di questi 2,1 milioni sono in pessimo stato. Una relazione parlamentare della commissione Sanità denuncia l’esistenza di 500 ospedali a rischio crollo (il 75 per cento di quelli in funzione). Le scuole? «La metà sono insicure e non a norma — dice Salvo Cocina, ex ingegnere della protezione civile esperto del settore — la verità è che occorrerebbe avere il coraggio di abbattere le scuole degli anni Settanta e Sessanta e realizzarne di nuove». Sulla prevenzione l’Italia non ha un piano e ha agito sempre con interventi spot. L’ultimo quello nella scorsa Finanziaria che ha esteso gli sgravi fiscali in materia di ristrutturazione anche a interventi sulla prevenzione dei terremoti. Ma la norma non è stata pubblicizzata: «E in ogni caso va estesa anche ai condomini, altrimenti serve a poco — dice il presidente dell’Ance, Claudio De Albertis — Quello che occorrerebbe davvero è però un programma di grandi interventi nell’edilizia pubblica e privata ». Da sempre l’Italia è scossa da terremoti e ancora si parla di piani e programmi d’intervento da varare. Nel frattempo non è nemmeno obbligatorio per ogni abitazione avere la scheda tecnica sul rischio sismico: così chi compra una casa non sa nemmeno se andrà a vivere sotto un tetto sicuro. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Il 40% della popolazione vive in edifici senza norme antisismiche “Serve subito un piano” DE MARCHIS ROMA. Moduli abitativi e nessuna new town come è avvenuto all’Aquila. Accesso a tutti gli strumenti - prestiti della Bei (la banca europea degli investimenti), fondi della Ue, soldi pubblici e donazioni - per la ricostruzione dei borghi. «Quelle comunità non vanno disperse», dice Matteo Renzi. Si comincia con il blocco delle tasse nelle aree colpite e con 50 milioni per l’emergenza. Servono per assistere la popolazione e per i puntellamenti degli edifici, in particolare nei pressi delle vie di comunicazione. Quello che appare chiaro è che il premier non vuole fare tutto da solo. Anzi. Vuole evitare annunci e chiede l’aiuto di tutti: forze politiche, associazioni, sindaci, enti locali. «Una concertazione per ricostruire e sviluppare un piano di prevenzione», spiega. Occorre lo sforzo collettivo. E sulla ricostruzione, «per evitare di buttare soldi e gli sciacallaggi» e garantire la trasparenza verrà applicato il modello Anac, l’authority anticorruzione. Non è il tempo delle promesse. Troppo fresca la ferita, appena 48 ore dal sisma che ha colpito Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. Molto probabilmente ci sono ancora dei morti sotto le macerie. Di questo si sta occupando la Protezione civile nella zona. Ma fra poco si faranno i conti con il dopo terremoto. Qualche cifra si può già fare. La prima notte sono stati allestiti 2500 posti letto, nelle tende o al palazzetto dello sport. Gli sfollati che li hanno occupati sono stati però 1200. Ieri notte invece i posti sono saliti a 4000. Già stamattina nella prefettura di Rieti verranno conteggiate le persone che li hanno richiesti effettivamente. Sono numeri importanti per valutare il numero di abitanti al quale bisognerà assicurare l’accoglienza , soprattutto in inverno. «Fare presto è una priorità, dobbiamo andare avanti senza intoppi a differenza dell’Aquila, sappiamo che passare l’inverno nelle tende in quei territori è una cosa molto dura. Vogliamo fare il più veloce possibile ma non siamo in grado di prevedere i tempi a distanza di poche ore. Non è un settore per lanciarsi in sfide e promesse. Occorre il passo del maratoneta», dice con cautela il premier alla fine del consiglio dei ministri che delibera sui primi 50 milioni. Visti i numeri, l’idea di una new town, sull’esperienza del terremoto dell’Aquila, può essere esclusa sia come filosofia dell’emergenza che come reale necessità. Possono invece essere utilizzati gli appartamenti sfitti e i moduli abitativi in modo da lasciare la popolazione vicina ai propri territori, che è la vera preoccupazione di tutti, dai sindaci al governo. Fu così per il terremoto del Friuli: casette nelle zone colpite e ricostruzione rapida. La Protezione civile però è prudente. Non è affatto detto che i 1200 della prima notte siano indicativi del problema sfollati. Molti hanno dormito in macchina o hanno preferito evitare un tetto sulla testa come nel palazzetto. Troppa paura, troppo ravvicinato il trauma. Tocca ai presidenti di regione la gestione e la valutazione del danno. Renzi li ha ringraziati tutti: Zingaretti (Lazio), Ceriscioli (Marche), Marini (Umbria), D’Alfonso (Abruzzo). Il governatore laziale ieri è stato di nuovo ad Amatrice, ma gli elementi per fare una stima sono ancora molto scarsi. Si può invece immaginare un piano di prevenzione globale che Renzi chiama Casa Italia. Del resto «il conto umano del sisma è impressionante - dice Renzi -. Per le vittime l’unica cosa che possiamo fare è provare a prevenire». Di questo allora si occuperà il governo, oltre a ricevere le richieste delle regioni sulla ricostruzione del terremoto del 24 agosto e a reperire le risorse. «Perché sicuramente - aggiunge il premier - noi non vogliamo che quelle zone perdano i loro tratti identitari». Insomma, non saranno abbandonate le persone ma neanche i luoghi. «La ricostruzione non è una priorità di Amatrice. È una priorità dell’Italia ». Casa Italia non sarà un elenco di parole, questa sì è una promessa. «Faremo ciò che è giusto, anche se nell’immediato non porta voti. Prepareremo un progetto serio, non diremo che servono città nuove». Il piano prevederà la messa in sicurezza degli edifici pubblici e probabilmente sconti fiscali per le case private. «Quello che non è stato fatto in 70 anni non sarà fatto in 7 mesi. Ma è importante un cambio di mentalità. Non considero i sodi delle prevenzione una spesa. Li considero degli investimenti ». In particolare in un Paese a rischio sismico. ELENA DUSI ELENA DUSI IL RISCHIO è noto. Le norme antisismiche fra le migliori al mondo. E l’ingegneria oggi promette “danni zero” o quasi. Perché allora quelle vittime, in un sisma classificato come “moderato”, un gemello del quale ad aprile in Giappone aveva causato nove morti? Perché in Italia le norme antisismiche sono recenti e le case antiche. E perché — è la risposta provocatoria di alcuni esperti — di terremoti ne vediamo troppo pochi. «Le grandi tragedie ci colpiscono ogni 4-5 anni, poi ce ne dimentichiamo» spiega Paolo Clemente, ingegnere dell’Enea, capo del laboratorio Prevenzione rischi naturali e mitigazione effetti. «Per un anno discutiamo, organizziamo convegni, prendiamo impegni. Poi l’interesse si esaurisce» conferma Gianmario Benzoni, ingegnere che dal Politecnico di Milano si è trasferito all’università della California di San Diego. Racconta Benzoni che «la Regione Umbria, dopo un sisma di molti anni fa, erogò dei soldi per ristrutturare le case danneggiate. Buona parte fu spesa per rifare il bagno o comprare la cucina nuova». Alla scienza — punta poi il dito Richard Allen, direttore del Seismological Laboratory di Berkeley — «continuiamo a chiedere di prevedere i terremoti. Ma che senso ha? Prima di tutto non è un obiettivo raggiungibile nel futuro prossimo. Poi i sismi continuerebbero comunque a distruggere le città. La soluzione giusta è costruire case resistenti. L’esempio di Norcia rimasta in piedi ne è la dimostrazione lampante». Gli edifici nuovi devono essere resistenti per legge. Quelli vecchi possono essere adeguati al rischio sismico della zona con un intervento ad hoc, a carico dei proprietari. Ma è poco realistico che un privato decida da solo di spendere 100-300 euro al metro quadro per installare cuscinetti antisismici sotto ai pilastri o controventi dissipativi fra un solaio e l’altro. «Da noi in California lo stato offre incentivi fiscali importanti », spiega Allen. «La nostra università ha appena speso 2 miliardi di dollari per il retrofitting, cioè l’adeguamento antisismico di edifici che risalivano agli anni ’60 o ’70. I privati che vendono una casa riottengono indietro metà delle tasse se l’aveva ristrutturata ». Ma forse neanche quello è il punto. Anche l’Italia infatti dal 2013 prevede il rimborso del 65% delle spese in 10 anni. Eppure gli interventi di retrofitting restano rari. Il 70% degli edifici — stima un’indagine conoscitiva della Camera sulla sicurezza sismica — non è adeguato al rischio sismico della zona in cui sorge. E probabilmente mai lo diventerà (ci vorrebbero in tutto 36 miliardi). Il 64% delle nostre case è stato realizzato prima che un’efficace normativa antisismica entrasse in vigore, negli anni ’70. E si è dovuti arrivare al 2009, dopo L’Aquila, affinché una giungla di norme aggirabili senza troppi patemi fosse raccolta in un testo unico, valido ovunque. «L’applicazione delle leggi e l’accuratezza dei controlli restano però nodi in parte irrisolti» ammette Clemente. «Uno dei nostri punti deboli — aggiunge Benzoni — è anche la vasta presenza di case in muratura. Sono edifici pesanti e che tendono a sbriciolarsi». Nemmeno il modello Giappone che tanto spesso viene tirato in ballo convince fino in fondo gli esperti italiani. «Lì buttano giù e ricostruiscono dopo pochi anni» spiega Clemente. «Se la trave di legno di un tempio marcisce, la sostituiscono. Noi abbiamo un’attenzione diversa per la nostra storia e per i restauri». In Italia, è la conclusione dell’ingegnere dell’Enea (ma non solo) «ci vorrebbe un’assicurazione obbligatoria. Basterebbero 100 o 200 euro all’anno sui 32 milioni di edifici del nostro paese per bilanciare i quasi 3 miliardi di euro spesi per affrontare le emergenze». Che in realtà, sottolinea Antonio Coviello, economista del Consiglio Nazionale delle Ricerche, «è sempre il cittadino a spendere, anche se inconsapevolmente. L’assicurazione almeno fungerebbe da incentivo per la prevenzione». E andrebbe accompagnata, aggiunge Clemente, da un censimento degli edifici: «Facciamo la revisione dell’auto ogni due anni e non sappiamo nulla sulla salute della nostra casa». È verso queste soluzioni che probabilmente andremo a parare, quando l’ennesimo terremoto ci farà superare la misura del dolore. «Certo, però abbiamo dimostrato di avere la testa proprio dura» commenta Benzoni. «Le batoste pesanti non ci sono mancate». La tecnologia di cui l’ingegnere di San Diego si occupa riguarda l’isolamento antisismico. «Si fa uno scavo sotto ai pilastri e si inseriscono dei dispositivi che separano l’edificio dal suolo. Sono interventi applicabili quasi ovunque. Li abbiamo realizzati anche sotto strutture complesse come la City Hall di San Francisco». Politica ed economia, sembra di capire, sono i pilastri deboli del nostro sistema antisismico. Ma la scienza, che non smette di sforzarsi per comprendere i terremoti, ha qualcosa da rimproverarsi? «È importante che le mappe del rischio sismico siano sempre aggiornate» sostiene Allen. «È fondamentale anche capire con maggiore precisione l’intensità con cui il terreno si scuote» aggiunge Gregory Beroza, professore di geofisica a Stanford. «È su questi dati infatti che gli ingegneri si basano per costruire edifici sicuri». Poi ci sono i sistemi di “early warning”, allo studio da una decina di anni. Si basano sul fatto che alcune onde prodotte da un terremoto raggiungono i sismografi prima delle onde distruttive. «Questo ci dà alcuni secondi di preavviso, fino a dieci, rispetto alla scossa violenta» spiega Aldo Zollo, sismologo dell’università di Napoli Federico II, responsabile di un sistema sperimentale di early warning allestito sulla faglia che causò il terremoto dell’Irpinia nel 1980. «Cosa si può fare in dieci secondi? Bloccare le reti del gas e dei trasporti, mettere in sicurezza ambienti di lavoro pericolosi o sale operatorie, avvisare la popolazione con sirene o sms» spiega il ricercatore. La rete di sismografi del nostro paese è sufficientemente ricca. «Ma andrebbe adeguata la velocità di trasmissione dei dati» precisa Zollo. «Oltre che sulla tecnologia, bisognerebbe lavorare poi sulla società, educando la popolazione ». Ancora una volta, sembra essere proprio quello il buco nella rete. EMANUELA GUIDOBONI NAZIONALE - 26 agosto 2016 CERCA 16/17 di 52 26/8/2016 terremoto in centro italia EMANUELA GUIDOBONI, SISMOLOGA E STORICA “La lezione che viene dai disastri del passato” EMANUELA GUIDOBONI ROMA. Sismologa e storica, Emanuela Guidoboni studia i terremoti e i maremoti del passato da oltre trent’anni. Nel 2015 è stata fra i curatori di Prevedibile/ Imprevedibile. Eventi estremi nel prossimo futuro (Rubbettino). «Sono amareggiata. Studio i disastri del passato e oggi sono costretta a riviverne i danni». Perché sembra che la storia non ci abbia insegnato nulla, visto che queste regioni hanno visto disastri simili? «È una domanda inquietante. In realtà i disastri del passato ci hanno insegnato molto, hanno lasciato memorie dettagliate delle scosse e dei danni, migliaia di documenti d’archivio, normative. È un patrimonio storico preziosissimo, che pochi paesi al mondo hanno, ma è quasi sconosciuto a chi risiede nelle aree sismiche». Quali sono i sismi del passato più significativi? «Ce ne sono tanti che conosciamo in dettaglio, che hanno colpito l’area in cui vediamo oggi rovine e morti. La crisi sismica più violenta fu quella iniziata nel settembre 1702, che ebbe tre picchi di alta energia il 16 e 17 gennaio, nell’area umbro-laziale, poi il 2 febbraio colpì più a sud l’aquilano (quest’ultima fu la grande scossa che distrusse l’Aquila e decine di paesi). Quella del 1703 fu una sequenza impressionante, per violenza, numero di scosse e durata. L’area colpita, che apparteneva ai due diversi governi della Chiesa e del regno di Napoli, rimase quasi spopolata per decenni, in povertà e miseria. Poi lentamente l’economia si riprese, con pochissimi incentivi » . C’erano precauzioni per difendersi in passato? «È un grande tema di ricerca, che sta dando da alcuni anni risultati sorprendenti. Già nel mondo antico i Romani applicavano sistemi di rafforzamento antisismico. Dal Cinquecento poi ci furono diverse e chiare proposte: da Leonardo da Vinci, che propose degli archetti rovesciati sotto le fondazioni, a Pirro Ligorio: nel 1571, dopo il terremoto che distrusse Ferrara, progettò la prima casa antisismica basata su criteri anche oggi validissimi per gli ingegneri ». Perché le conoscenze della comunità scientifica non arrivano alla gente, ad amministratori e sindaci? «Questa è una domanda che mi faccio da molti anni. È drammatico. Non ci sono barriere reali fra la comunità scientifica e la società, probabilmente solo silenzi e disattenzioni e forse in mezzo istituzioni che sottovalutano questo problema. Io metterei nella piazza di ogni paese e città a rischio un grande e stabile cartellone con i dati della Mappa di Pericolosità, una sorta di inizio d’attenzione. Poi da lì procedere alla valutazione degli edifici, coinvolgendo i proprietari, gli abitanti, dando loro un protagonismo nuovo, facendo crescere una democrazia di base, che oggi su questi argomenti non c’è. Anzi, nel sentimento diffuso della gente questi sono temi per pochi esperti. Invece è vero proprio il contrario. Le cose cambieranno quando i cittadini si sentiranno responsabili e coinvolti». Questo sisma cambierà per sempre la storia della regione? «Dopo ogni disastro sismico niente è più come prima. Ci sono paesi che saranno ricostruiti e cambieranno più o meno il loro volto, altri che saranno abbandonati. Questa è la storia dell’Italia, segnata da disastri sismici che accadono in media ogni 4-5 anni. E paghiamo tutti quasi 5 miliardi all’anno solo per rincorrere i danni, non per prevenirli. È un nodo cruciale del Paese, che comporta tragedie, perdite di vite umane, di beni, di identità locali. Ma offre anche opportunità per cambiamenti di rotta e realtà nuove. È un nodo sociale, economico e culturale, che mi auguro diventi centrale per i temi del governo». ( e. d.) ©RIPRODUZIONE RISERVATA ,, In ogni piazza di paese metterei dei cartelli con la mappa di pericolosità Oggi non si coinvolgono abbastanza gli abitanti ‘‘ SISMOLOGA E STORICA La prima casa antisismica progettata e spiegata in dettaglio da Pirro Ligorio, nel suo trattato del 1571 Libro di Diversi Terremoti LA STAMPA ALESSANDRO CASSINIS All’inizio la ricostruzione non fu facile nemmeno in Friuli. «Fasin di bessôi», avevano detto gli abitanti dopo la tragedia del 6 maggio 1976. Facciamo da soli. E avevano cominciato a riparare le case distrutte, a rinforzare quelle pericolanti. Poi venne la scossa del 15 settembre e tutto crollò di nuovo. Ci sono voluti dieci anni e quasi 20 miliardi di euro per far rientrare a casa gli ottantamila sfollati e far tornare come prima i 137 Comuni colpiti dall’Orcolat, l’orco sotterraneo della Carnia. «Dopo un sisma non ci sono ricostruzioni felici», commenta Andrea Barocci, mentre si prepara a partire per le zone terremotate. Ingegnere delle strutture, coordinatore della sezione norme, certificazioni e controlli in cantiere dell’associazione Ingegneria sismica italiana, Barocci è autore di un manuale, «Rischio sismico» (edizioni Grafill), in cui spiega che il terremoto, in Italia, è una certezza con cui dobbiamo convivere. In meno di cinquant’anni sette sismi ci sono costati cinquemila morti, oltre 500 mila sfollati e 121 miliardi di euro di soldi pubblici spesi per ricostruire. Come una manovra aggiuntiva di due miliardi e mezzo ogni anno. La vergogna del Belice Primo venne il Belice, la valle siciliana dove l’Italia diede il peggio di sé negli aiuti e nella ricostruzione. Gibellina, Salaparuta, Montevago erano polvere, ma lo Stato lasciò per quasi due anni i cittadini nelle tende, assieme ai loro sindaci esautorati, per ricostruire malamente i paesi in una distesa di case a schiera tutte uguali. A poco servì la protesta di Danilo Dolci, il Gandhi della Sicilia, che gridava «La burocrazia uccide più del terremoto». Quarant’anni fa c’erano ancora 47 mila sfollati, le ultime baracche di eternit sono state smantellate nel 2006. Agli antipodi dell’Italia, il Friuli è un’altra storia. Siamo ancora in guerra fredda, il premier Aldo Moro non può lasciare solo il territorio militarmente più esposto a eventuali attacchi da Est. Già il 7 maggio, il giorno dopo la scossa da quasi mille morti, Giuseppe Zamberletti viene nominato commissario straordinario ad hoc. Tre le linee guida: decentrare le decisioni, reinsediare al più presto la popolazione, ricostruire tutto com’era e dov’era. Prima le fabbriche, per garantire il lavoro, poi le case e infine le chiese. Sono anni da stato d’assedio: roulotte sequestrate in tutta Italia, case espropriate, interi Comuni come Venzone che diventano «opera pubblica», edifici privati compresi. Cossiga, ministro dell’Interno, scrive di suo pugno: «Il commissario agisce in deroga a tutte le leggi ivi comprese quelle sulla contabilità generale dello Stato». Fioccano le denunce e le proteste di chi aveva un appartamento e si vede restituire una stanza. Ma intanto i paesi rinascono. Con la tecnica certosina dell’«anastilosi» si ricostruiscono palazzi e chiese numerando le pietre e rimettendole al loro posto esatto. Diecimila quelle del Duomo di Venzone, finito quasi vent’anni dopo. Alla metà degli anni ’80 gli ultimi sfollati lasciano i prefabbricati e tornano a casa. Ed è questo il modello Friuli, forse l’unico esempio positivo di ricostruzione in Italia, che non ha purtroppo fatto scuola. Solo quattro anni dopo viene l’Irpinia, quasi tremila morti, la madre di tutte le sconfitte dello Stato e delle cosiddette autorità locali. La prima stima dei danni, nel 1981, parla di 8.000 miliardi di lire, ma alla fine il conto totale supererà i 50 miliardi di euro. Ogni volta che facciamo benzina, paghiamo 4 centesimi al litro per la ricostruzione dell’Irpinia, una piaga che nel frattempo si è allargata dai 99 Comuni dichiarati all’indomani del sisma ai 643 riconosciuti dal governo di Arnaldo Forlani e ai 687 finali: miracolo al contrario di un’Italia che promette consensi elettorali in cambio di contributi non dovuti. Ancora oggi i quartieri di Penniniello e Quadrilatero delle carceri a Torre Annunziata, feudi di camorra, aspettano la ricostruzione. I fondi dello Stato sono finiti altrove. La risata e le new town Della ricostruzione in Umbria e Marche si può parlare bene o male, ma il lavoro di restauro della basilica di Assisi e la riparazione dei paesini storici feriti hanno del miracoloso. Nulla di sacro c’è, invece, nella gestione del dopo-sisma in Abruzzo, marchiato dalla risata oscena fra Francesco Maria De Vito Piscicelli e suo cognato al pensiero dei lucrosi appalti in arrivo. «Ricostruiremo in sei mesi tenendo fuori speculazione e mafia», aveva promesso Silvio Berlusconi. Ma la sua idea della «new town», i paesi di plastica dove ricollocare gli sfollati, è stata un autogol. Sette anni dopo la tragedia, migliaia di persone vivono nelle Case (Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili) o nei Map (Moduli abitativi provvisori). L’Aquila non è risorta, l’emergenza non è mai finita. Nemmeno il terremoto nella pianura padana emiliana è un esempio di rapida ricostruzione: in quattro anni sono poche le attività ripartite. Per il Centro Italia nuovamente colpito non ci sono modelli vincenti. L’unica strada è una vera prevenzione strutturale, con la revisione di tutti gli edifici a rischio. Ma questa sarebbe un’altra Italia. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI pag. 3 di 3 CLAUDIO BRESSANI Le misure antisismiche che l’Italia progetta ma esporta e non usa L’esperto dello Iuss di Pavia: “Il costo? Solo il 10% di quello che pagheremmo per la ricostruzione” Claudio Bressani Si chiama «seismic retrofit», ovvero adeguamento sismico: un complesso di tecniche per intervenire sui vecchi edifici esistenti e renderli più sicuri contro i terremoti. Un campo in cui gli ingegneri italiani sono all’avanguardia a livello mondiale. Eppure poi solo in rarissimi casi queste misure sono applicate nel nostro Paese. «È certamente un problema di risorse - dice il professor Paolo Bazzurro, docente di tecnica delle costruzioni allo Iuss di Pavia, uno dei massimi esperti italiani - ma anche di volontà politica, ovvero di scelte su come spendere i soldi. Purtroppo scontiamo decenni di scarse azioni. Spesso anche le comunità locali fanno resistenza, temono effetti negativi sul turismo». Per l’adeguamento degli edifici privati non ci sono obblighi di legge, solo gli incentivi fiscali del 65% per i Comuni inseriti nelle zone 1 e 2. Per gli edifici definiti strategici gli obblighi invece ci sarebbero, «eppure - osserva il professor Bazzurro mentre nel pomeriggio torna dalla riunione della commissione Grandi rischi a Roma - in tutto l’epicentro non è rimasto più un edificio pubblico agibile. L’ospedale è andato giù, le scuole pure, la caserma dei carabinieri è lesionata. Ci sono programmi per intervenire, ma poi per attuarli di solito si aspetta la catastrofe. Dove è stato fatto, come a Norcia dopo il sisma del 1997, ha dimostrato la sua efficacia. La forza del terremoto che l’altra notte ha colpito la cittadina umbra è stata solo di poco inferiore a quella di Arquata del Tronto. Quest’ultima è distrutta, mentre a Norcia non c’è stato un solo morto e credo neanche un ferito». Cosa possiamo fare dunque per proteggere i vecchi edifici di cui l’Italia è piena? «Se partiamo con l’idea di trasformare quelli in muratura raggiungendo livelli di sicurezza comparabili con gli edifici moderni costruiti con criteri antisismici, bisogna rassegnarci: non ci si arriverà mai. Ma sarebbe già un grande risultato renderli sicuri, fare cioè in modo che non collassino e che la gente non resti sotto». E quanto costa? «Si può fare con una spesa abbordabile, nell’ordine del 10 per cento di quello che costerebbe la ricostruzione». «Gli antichi edifici in muratura - osserva ancora il professore pavese - stavano in piedi con catene, tiranti, morsature agli angoli, tetti in legno. Poi le catene sono state tolte, magari per ragioni estetiche, le finestre sono state ingrandite, sono state aggiunte porte, il tetto è stato rifatto in cemento armato che pesa di più. Risultato: l’edificio è diventato più vulnerabile». Per migliorare la sicurezza può bastare poco, dalle semplici piastre per aggiungere vincoli, ad esempio tra pilastro e trave, alla posa di tendini d’acciaio all’aggiunta di elementi di rinforzo come archi o puntelli. Per gli edifici in cemento armato si va dal rendere le colonne più resistenti con un «jacket», un cappotto di calcestruzzo o materiali compositi, all’isolamento alla base, cui si ricorre di solito per edifici più importanti come ospedali e che si può adottare anche per quelli esistenti, dopo averli «sollevati». All’Aquila è stato impiegato diffusamente anche per i moduli abitativi del progetto Case. Soprattutto per gli edifici in acciaio si usano gli smorzatori o dissipatori sismici. Altre tecniche più complesse, come il cosiddetto «slosh tank», si utilizzano per edifici più alti come i grattacieli. Gli strumenti a disposizione sono parecchi, per decidere quali adottare serve un’attenta analisi delle caratteristiche di ciascun edificio. Certo, il problema è che sono centinaia di migliaia: «Ci vogliono tanti soldi - conclude il professor Bazzurro - ma sono comunque meno di quelli che spendiamo per ricostruire». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI pag. 2 di 3 ROBERTO GIOVANNINI Tokyo sicura con esercitazioni e case costruite sulle molle Roberto Giovannini Il Giappone, uno dei Paesi più esposti al rischio sismico, è davvero un esempio da seguire. Grazie a un mix di misure di prevenzione e di contenimento dei danni, riesce a limitare in modo notevole perdite umane e distruzioni. Anche in occasione di terremoti gravissimi, come quelli di Kobe del 1995 o quello del Tohoku del 2011. Imitarle non è facilissimo però. In Italia si cerca di preservare gli edifici storici e le città antiche; in Giappone - dove da sempre gli edifici residenziali sono basati su materiali leggeri come il legno, che periodicamente per terremoti e guerre vengono distrutti - si preferisce buttar giù e ricostruire. Utilizzando, ovviamente, tutte le più moderne e aggiornate tecnologie antisismiche. Secondo, i governi laggiù spendono per ricostruzione, prevenzione e retrofitting antisismico risorse ingentissime, da noi impensabili. Infine, la popolazione giapponese è preparata agli eventi sismici, e disposta a rispettare le regole mirate a ridurre i rischi e i danni. Ridurre, non eliminare: il 14 e il 16 aprile scorsi due sismi hanno colpito Kumamoto, nel Sud del Giappone, con 80 morti e danni diretti e indiretti stimati in molti miliardi di euro. La prima misura è quella che riguarda le procedure di costruzione degli edifici. I codici delle costruzioni sono periodicamente rivisti e aggiornati per tenere conto delle più innovative tecniche antisismiche. Tra queste, sistemi di molle o di cuscinetti che permettono alle strutture di assecondare i movimenti del terreno, e strutture molto elastiche che consentono ai grattacieli grandi ondeggiamenti senza arrivare a rotture strutturali. Ancora, appositi sistemi impediscono che rotture dei cavi elettrici o delle tubazioni del gas generino incendi o altri disastri: treni e metropolitane si arrestano subito. Poi, come detto c’è una popolazione assolutamente preparata al rischio sismico. Sin da piccoli gli scolaretti giapponesi sanno che appena la terra comincia a tremare forte bisogna coprirsi la testa con un tatami e mettersi sotto un tavolo. In tutti gli uffici, pubblici o privati, si svolgono periodiche esercitazioni. In casa tutti tengono un kit di sicurezza con documenti, acqua, medicine e cibo per un paio di giorni. Terzo, in Giappone esiste un sofisticato sistema di pre-allarme in grado di avvertire la popolazione dell’arrivo di un sisma importante, o di uno tsunami, basato su una rete di sensori situati in tutto il Paese. Non appena si avverte l’imminenza di un sisma, immediatamente l’allarme viene lanciato sovrapponendosi ai programmi televisivi in diretta, indicando forza e localizzazione presunta del sisma o dell’onda in arrivo. Sono quasi sempre soltanto pochi secondi di anticipo: forse quelli che fanno la differenza tra la vita e la morte. Da poco ha avuto un gran successo una app per gli onnipresenti smartphone, Yurekuru, che in caso di sisma individuato dalle autorità squilla fortissimo. Il primo agosto, però, per un errore tecnico dell’Agenzia pubblica, un (falso) allarme terremoto ha gettato nel panico milioni di giapponesi. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI (Kimimasa Mayama/Bloomberg/Getty) - Un edificio antisismico di Tokyo pag. 2 di 2 MARIO TOZZI Riusciamo a prevedere con una certa precisione dove atterrerà il prossimo tornado o quando arriverà la piena dell’Arno o, ancora, se il Vesuvio sta per risvegliarsi: perché non riusciamo a predire il momento del prossimo terremoto? Prima di un’eruzione vulcanica il terreno si rigonfia, avvengono terremoti locali e cambiano temperatura e composizione delle fumarole gassose. Possiamo volare dentro un uragano in movimento e possiamo misurare gli spostamenti del terreno prima di una frana, o il ritirarsi di un’onda marina prima di uno tsunami. Quando arriva un terremoto, invece, nessun segno. Perché? La prima risposta è che i fenomeni sismici avvengono a migliaia di metri sotto i nostri piedi e sono esclusi alla nostra osservazione diretta. E anche i segnali indiretti sono spesso deboli e qualche volta contraddittori, nonostante decenni di studi e tentativi. Prove e analisi I terremoti non sono ancora prevedibili, cioè non esistono prove sperimentali, ordinate in maniera scientifica e applicabili in ogni zona del mondo, a favore della previsione, certamente non di quella fatta tenendo conto di agitazione di animali e avvertimenti divini o paranormali di persone particolarmente dotate. È poi largamente sospetto che questo tipo di osservazioni venga comunque sempre fatto dopo i sismi e mai prima. Esiste invece una serie di parametri fisici e chimici del sottosuolo che possono essere tenuti sotto controllo e che cominciano a fornire risposte convincenti in termini di previsione: non sufficienti per conoscere in anticipo l’ora e neppure il giorno del terremoto prossimo venturo, ma abbastanza per fare una soddisfacente prevenzione. Ma investire energie in previsione fa perdere di vista proprio la prevenzione, che resta il vero obbiettivo. Il livello dell’acqua nei pozzi in aree in cui si approssima un evento sismico sembra variare significativamente, così come sembrano mutare sensibilmente le composizioni e le quantità di gas emessi da fratture in comunicazione col sottosuolo e così come si registrano deformazioni millimetriche, ma costanti, delle rocce. All’Università di Tokyo i ricercatori giapponesi hanno analizzato le bottiglie di acqua minerale riempite prima del gennaio 1995, data del terremoto di Kobe, e confrontato i risultati con le analisi condotte su bottiglie riempite dopo quella data. Cloro e zolfo sembrano aumentare progressivamente con l’avvicinarsi del sisma. In molte zone del mondo cospicue liberazioni di gas radon dal sottosuolo sembrano avvenire una settimana o un mese prima di un terremoto. Ma, per ora, nulla di più preciso, nulla di utilizzabile. Il caso cinese In Cina fu messo in piedi un vero e proprio piano nazionale per la previsione dei terremoti a metà degli Anni 60, poi abbandonato definitivamente negli Anni 90 perché non aveva portato alcun risultato significativo, eccetto che in un caso. Nel 1975 decine di microscosse di terremoto avevano convinto i sismologi cinesi che la provincia di Haicheng fosse minacciata da un terremoto: in quell’occasione si tenne conto anche di alcuni pretesi segni premonitori dati dagli animali domestici. Parte della provincia fu sgombrata e il sisma di magnitudo 7,3 Richter, che effettivamente arrivò, rase al suolo la metà delle costruzioni. Diverse decine di migliaia di persone furono così salvate dal terremoto e in molti pensarono che i terremoti si sarebbero finalmente potuti prevedere. In realtà morirono comunque oltre 1.000 persone e i feriti furono quasi ventimila. E molto della presunta previsione fu dovuto a circostanze casuali, non sistematiche, circostanze che non si verificarono l’anno successivo, quando, nella regione di Tangshan, un forte sisma di magnitudo 8,3 Richter uccise ufficialmente 230.000 persone, realisticamente forse più di 500.000, il terremoto che in assoluto ha provocato più morti al mondo. Ma fra i non esperti prendono corpo anche altri segni: galline che volano sugli alberi, maiali che si azzannano fra loro, anatre che escono precipitosamente dall’acqua e cani che abbaiano sarebbero segni inequivocabili di un terremoto in arrivo. Secondo il maestro cinese Tung, alcuni pesci vanno a morire soffocati all’asciutto uscendo dalle acque, mentre i topi lasciano i granai terrorizzati e i serpenti escono dalle tane, nonostante il freddo, e muoiono. Può anche darsi che qualcuno di questi comportamenti sia da tenere in considerazione, ma, al momento, non è possibile trarne un metodo scientifico e sarebbe dunque bene non tirarli in causa. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI pag. 3 di 3 REPUBBLICA.IT KATIA RICCIARDI ROMA - A guardarla bene, la mappa sismica dell’Italia (Pdf) dell’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia (ordinanza Pcm del 28 aprile 2006 n.3519, All.1b), resta impressa come una foto dai colori troppo accesi. Il viola al centro come un’arteria a rischio, i bordi più chiari, arancioni, gialli, verdi. L’Italia è un Paese ad alto rischio. Altissimo in alcune zone, in altre medio, solo una minuscola porzione si salva dai terremoti. Siamo capaci di guardare lontano da qui, in California o in Giappone, invece anche lo stivale scalcia spesso, una volta ogni 4-5 anni una catastrofe distrugge tutto, eppure, riesce ancora a sorprenderci. L’Abruzzo è la regione storicamente più colpita dai terremoti: L’Aquila 1786, la Marsica e Avezzano 1904, Messina 1908, 1915 di nuovo la Marsica e Avezzano. Nel 1919 il terremoto al Mugello, 1930 l’Irpinia, la prima volta in questo secolo, poi ce ne fu un altro. Nel 1933 la Maiella, 1943 Marche e Abruzzo, 1958 L’Aquila, 1963 secondo terremoto in Irpinia, 1968 il Belice, 1976 il Friuli con mille morti e nel 1980 di nuovo l’Irpinia, la provincia di Salerno e un pezzo della Basilicata. Poi tre giorni fa, il 24 agosto. E se le case normali crollano con scosse di intensità 5-6 della scala Richter, solo negli ultimi 16 anni in Italia ci sono stati oltre 110 terremoti di varia intensità, da 4 fino a quel 6,3 che ha raso al suolo L’Aquila nel 2009. LEGGI Il 60% dei vecchi edifici a rischio. E l’Italia se ne dimentica Le case non costruite a norma, collassano. I muri mal collegati ai solai cadono lateralmente, i solai precipitano nel vuoto e schiacciano tutto. La scossa da sottoterra muove le fondamenta, i piani bassi oscillano e fanno trabballare quelli superiori. Ma è la seconda scossa, che arriva in senso inverso, a spezzare l’edificio come ossa sul ghiaccio. Ci vogliono gomma, legno, un certo tipo di acciaio più plastico per ammorbidire una costruzione e consentirle di ballare. Ci vogliono colonne, pilastri di cemento armato piazzati in punti specifici. Il risultato dipende sia dalle caratteristiche della casa che dai tipi di intervento. Che vanno dal rafforzamento della struttura, per esempio con gabbie in cemento armato, all’applicazione di isolatori, dissipatori e smorzatori, ad altre ancora. E questo costa, fino al 10, al 20 per cento in più del costo base. Terremoto, Amatrice dall’alto: il paese è una distesa di macerie Navigazione per la galleria fotografica 1 di 17 Immagine Precedente Immagine Successiva Slideshow () () C’è una differenza importante tra prevedibilità di un terremoto e la sua inevitabilità. Prevedere consente di scappare, forse di non morire, ma ricostruire resta comunque inevitabile. Ripartire dalle briciole è certo più oneroso che aggiustare. "Costruire una casa antisismica costa di meno che aggiustarne una, un edificio esistente deve mantenere le sue origini storiche", spiega l’ingegnere Francesco Sylos Labini, professore all’università la Sapienza di Roma, progettista dell’intervento di recupero del Palazzo del governo a L’Aquila. "Il Friuli dopo il sisma è stato ricostruito dov’era e com’era, con materiali nuovi, ma le piazze, le strade sono invariati. Anche nel centro Italia si può fare, certo, contrasterebbe contro tutti i criteri di ingegneria, e ricostruire nello stesso posto dal punto di vista ingegneristico potrebbe essere considerata una follia. Nello stesso tempo, gli italiani sono legati ai loro paesi, è difficile delocalizzarli, le New Town non sono state un esperimento riuscito. E ricostruire si può", dice. Aggiungendo che, tutto sommato, la spesa non è poi così sconvolgente. Insomma non è la scusa. "Ora va fatta l’analisi degli edifici, alcuni, quelli storici, sono rimasti in piedi, ma l’attenzione è su quelli che sono crollati, ci sono interi pezzi di paesi spariti. Un tempo si costruiva bene, bisogna analizzare perché. E dare i numeri è difficile. Diciamo che dai 100 ai 300 euro a metro quadrato è una valutazione plausibile. La struttura è il costo minore, perché è povera di materiali, quello che pesa sul totale sono pavimenti, finestre, impianti. E si deve pagare comunque. Lo scopo è ricostruire un edificio che non uccida, con scale e le strutture che restino in piedi. Per semplicità diciamo che se un’edificio costa 100, la struttura 30-35, il resto è costo fisso" continua Sylos Labini, "che si possa costruire e consolidare, che si possano fare le cose bene, come a Norcia, è un dato di fatto". Terremoto, il salone, il soggiorno, la camera da letto. Gli interni delle case distrutte Navigazione per la galleria fotografica 1 di 12 Immagine Precedente Immagine Successiva Slideshow () () Arquata del Tronto è a pezzi, Norcia, poco distante, ha qualche ammaccatura ma è restata in piedi. "Dopo il terremoto del 1979 è stata messa in atto una ristrutturazione di Norcia e di tutte le frazioni, non è stato semplice, ci sono voluti anni, ma abbiamo voluto ricostruire tutto rispettando le norme antisismiche", racconta l’assessore del Comune di Norcia, Giuseppina Perla. "Dopo le scosse di ieri, le lesioni e i crolli più importanti li abbiamo avuti solo negli edifici vecchi non ristrutturati. Certo, questo non vuol dire che le case costruite con criteri antisismici non abbiano subito lesioni, ma sono lesioni contenute, che hanno salvato tante vite umane". LEGGI Da Arquata ad Amatrice chiedono: "Ricostruiamo qui". Gli esperti: "Si può fare, basta errori" Le case nuove devono essere costruite, per legge, secondo norme anti sismiche, gli edifici vecchi possono essere adeguati. Ma l’intervento è carico dei proprietari. In California e in Giappone lo Stato offre incentivi fiscali, ma lì buttano giù tutto e ricostruiscono. Riparano assi di legno, sostituiscono pezzi. Noi abbiamo case in pietra, patrimoni culturali, rocche, castelli, chiese, campanili. In alcuni casi viviamo in equilibrio su angoli di montagne. Sporgiamo in bilico. Costruiamo case una sopra l’altra, conviviamo con monumenti e conserviamo medioevo. Anche in città abbiamo palazzi in muratura, che se scossi diventano briciole in pochi secondi. L’Italia dal 2013 prevede il rimborso del 65% delle spese in 10 anni. Eppure ci vorrebbero 36 miliardi affinché il 70 per cento dei nostri 32 milioni di edifici ancora non adeguato al rischio, lo diventi. Che si adegui. Terremoto, quelle porte che si aprono sulle macerie Navigazione per la galleria fotografica 1 di 25 Immagine Precedente Immagine Successiva Slideshow () () La Protezione civile definisce normativa antisismica "l’insieme dei criteri per costruire una struttura in modo da ridurre la sua tendenza a subire un danno, in seguito a un evento sismico. "Dire che la normativa di ricostruzione e adeguamento sia stata disattesa è troppo generico - continua l’ingenere - perché il non aver rispettato regole coinvolge singole responsabilità. Le norme ci sono, e sono ottime norme, in linea con l’Europa. L’attenzione o meno non è stata un’evasione di massa alla ricostruzione". Dal 1908, anno del devastante terremoto di Messina e Reggio Calabria, fino al 1974, in Italia i comuni sono stati classificati come sismici e sottoposti a norme restrittive per le costruzioni. Il 63, 8 per cento dei nostri edifici sono stati costruiti prima che entrasse in vigore, nel 1971, una più efficace normativa antisismica. Dopo il terremoto del 2002 in Puglia e Molise viene emanata l’ordinanza del presidente del consiglio dei ministri n.3274 del 2003, che riclassifica l’intero territorio nazionale in quattro zone a diversa pericolosità, eliminando le zone non classificate. Da quel momento nessuna area del nostro Paese può ritenersi non interessata al problema sismico. Il problema non sono i costi, ma i tempi. "Io di terremoti ne ho visti tanti", spiega Sylos Labini. "La cosa che mi ha sempre turbato erano le tendopoli, ora ci sono i mezzi e la tecnologia per diminuire i tempi e rifare rapidamente un tetto di una casa, è necessario stabilizzare le persone, anche psicologicamente, la normativa ha fatto passi enormi, e per ora la prevenzione è l’unico mezzo che abbiamo e che dobbiamo attuare. La burocrazia frena i tempi, all’Aquila ha rallentato tutto, ma c’è bisogno di un controllo per quanto possibile, che le cose non sfuggano in queste maglie capillari". Che le persone capiscano l’importanza di una ricostruzione sensata". I ministri delle Infrastrutture e dell’Interno insieme al Capo Dipartimento della Protezione civile emanano il 14 gennaio 2008 il decreto ministeriale che approva le nuove norme tecniche per le costruzioni. L’applicazione diventa obbligatoria dal 1 luglio 2009, come previsto dalla legge n.77 del 24 giugno 2009. Oltre la legge, che dovrebbe obbligare un intervento, restano le pietre a terra, per non dimenticare, per non trovare scuse. E per rimettere in piedi case in grado di ballare, non tombe.