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 2016  agosto 26 Venerdì calendario

SE 4 TORNEI VI SEMBRAN TROPPI


«Perché non lo facciamo?» mi chiese il mio povero amico Collins. «Perché non lo facciamo, un libro sul Grande Slam. Io ho scritto The History of Tennis, tu 500 Anni di Tennis. Potremmo fare un libro su chi li ha vinti tutti e quattro, i Grandi Tornei, e su chi non ci è riuscito». «Vuoi spingere ancor oltre la nostra frustrazione di tennisti e romanzieri falliti?» risposi. «Ma ci pensi che 500 Anni mi è costato tre anni, il tuo mattone non di meno. Facciamoci qualche partitina tra noi e piantiamola lì, col Grande Slam.
Il giorno seguente, tuttavia, eravamo in auto, vicino a Melbourne, per andare a incontrare Jack Crawford e cavarne due interviste, lui sul Boston Globe, io sul Giorno. Nel corso dell’intervista, Collins gli chiese se, nel 1933, quando fu sconfitto agli US Championship dal britannico Fred Perry, dopo aver vinto i primi tre Grandi Tornei, si fosse reso conto di essere vicinissimo al Grande Slam. Rispose di no. Non aveva letto i cronisti Allison Danzig, sul Brooklyn Eagles, e John Kieran, che avevano entrambi scritto «Se Crawford vince, sarebbe come segnare un Grande Slam nel bridge». Crawford ebbe la cortesia di spiegarmi, a me ignorante nel bridge, che Grande Slam equivaleva a ben tredici prese a danno dell’avversario, e cioè il massimo possibile in quel gioco. E, come gli chiesi se era vero che l’unico game rimediato nel quarto e quinto set, dopo il riposo, fosse dovuto a un bicchierino di whisky bevuto, lui (astemio per sfuggire all’allergia alle graminacee) sorrise: «Forse non mi è stato d’aiuto. Ma ero troppo stanco, e avrei perso comunque quella finale».
Ne riparlammo con Allison Danzig, Collins e io, quando l’andammo a trovare nella Casa per anziani in cui passava i suoi ultimi giorni. E ci disse che la faccenda del whisky era autentica, giornalisticamente sfruttabile, ma che forse non era stata l’unica ragione di quel Grande Slam perduto, e per la prima volta annunciato sulle pagine di un quotidiano.
Da allora, ben 13 tennisti e 18 tenniste sono arrivati a tre dei quattro tornei necessari a mettere mani e racchette sopra l’immaginaria coppa del Grande Slam, mentre solo tre uomini e tre donne hanno concluso un’annata di totale superiorità, riuscendo in quello che, mi perdonino i bridgisti, io chiamerei poker. Mi pare tuttavia il caso di una modesta osservazione storica a proposito del Grande Slam. Simile definizione, e relative statistiche, sono valide soltanto a partire dal 1968, anno in cui è nato il Tennis Open, e cioè il tennis aperto a tutti, poveri e ricchi, dilettanti – di un tempo – e professionisti. Allora, nell’anno di nascita, la partecipazione era stata completa, ma si sarebbe via via rarefatta con l’istituzione del professionismo, vietato ai cosiddetti dilettanti, ai quali era severamente inibita la possibilità di ricevere denaro in cambio delle loro esibizioni sul campo.
Per riprendere la mia storia, confesso che avrei potuto iniziarla non dal giorno dell’invenzione giornalistica, ma da quello in cui un tennista fu tanto bravo da realizzare il primo Grande Slam. Si chiamava Donald Budge, si avvantaggiò della vecchiaia sportiva di Crawford e soprattutto del passaggio al professionismo di Fred Perry, che quindi fu inabilitato a competere nei tornei.
Passata la guerra, i casi di sommi tennisti che non raggiunsero il Grande Slam per esser stati costretti a preferire il denaro alla gloria aumentò. Cito, dal 1945 al 1961, e quindi durante sedici anni, l’americano Jack Kramer, il messico-americano Gonzales, l’australiano Lew Hoad, probabilmente i più forti del mondo nei loro anni ruggenti. L’ultimo dilettante a realizzare il secondo Grande Slam ufficiale della storia, nel 1962, fu Rodney Laver, detto Rocket, Razzo, non solo per l’esplosiva velocità, ma anche per la similitudine con il luogo di Nascita, Rockhampton, nel Queensland. Laver rimase poi tra i professionisti sino allo storico anno della riunione tra le due caste, il 1968, e subito si affrettò a ripetere il Grande Slam l’anno seguente, il ’69.
Incolpevole come sono, grazie al mio femminismo antemarcia, nel citare tardi le donne, mi scuso tuttavia sottolineando che Allison Danzig e John Kiefer battezzarono Grande Slam i quattro tornei che Bud Collins denominò Majors senza minimamente riferirsi alle tenniste. I record femminili non sono più attendibili di quelli degli uomini, perché la traversata dell’Atlantico, quando gli aerei erano ancora delle sorti di aquiloni, non raggiungeva l’Australia per il primo Grande Slam dell’anno, e una nave, dall’Europa, impiegava sette settimane. Suzanne Lenglen, secondo me la più grande tennista mai nata, non andò dunque mai in Australia, e solo una volta negli Usa. Helen Wills, la sua grande avversaria, si limitò a venire in Gran Bretagna e vincervi otto Wimbledon, ma l’Australia la vide in cartolina.
Nonostante tra le donne – non per Lenglen – fosse insolito il professionismo, si dovette aspettare il 1953, e l’americana Maureen Connolly, per avere la prima delle tre laureate, seguita dall’australiana Margaret Court nel 1970, e dalla germanica Steffi Graf nel 1988. Maureen fu tanto regolare da non sbagliare quasi mai, fu quasi forte come un uomo, se io, col mio povero N. 10 in Italia, faticai una volta per ottenere un 6-4 in un allenamento contro di lei, al torneo di Palermo. Margaret Court, sposata Smith, fu la prima autentica atleta tra le femmine, negli anni in cui il tennis australiano scopri l’atletica leggera, vicenda che trasformò il tennis da un gioco in uno sport. Ho ancora negli occhi Margaret che si allenava nel salto del canguro, ginocchia flesse al petto, per dieci minuti, prima di scendere in campo. In qualsiasi specialità olimpica si sarebbe impadronita di una medaglia d’oro. Era un’australiana di etnia britannica, e il sangue semiblu la spinse al tennis.
Ho parlato di sport olimpici, e questo mi spinge a ricordare Steffi Graf, che ebbi la fortuna di ammirare bambina, mentre il padre che divenne poi il suo carceriere iniziava a chiuderla tra le reti metalliche dei campi, per allenarla da mane a sera. A conferma del suo grande talento atletico, ricordo una mattina in cui il tennis fu riammesso alle Olimpiadi, dalle quali era uscito per motivi economici e sottopolitici nel 1928 e nel 1968.
A Seul, una mattina, andai a cercare qualche scuppettino al campo di allenamento, e vidi d’improvviso Steffi che, invitata dagli amici tedeschi sulla pista, batteva, indossando le scarpe da tennis, le due atlete delle Germania Ovest che avrebbero partecipato ai centodieci ostacoli. Senza aver mai provato a saltare, senza aver mai corso un cento metri nemmeno alle elementari. Per lei, che il mio caro Collins soprannominò Fraulein Forhand, questa incredibile performance fu naturale come per noi una corsettina per prendere l’autobus. E le fu altrettanto naturale prendere la medaglia d’oro insieme ai quattro titoli dello Slam di una stagione tuttora ineguagliata, forse ineguagliabile.
Simile aggettivo mi spinge a parlare dei record mancati, dei quali un altro amico. Luca Marianantoni, mi ha offerto un elenco dove compaiono tredici uomini e ben diciotto donne. Nell’elenco sono compresi i Campioni contemporanei, Federer giunto 3 volte nei pressi del Grande Slam, Djokovic due, Nadal uno. E, insieme, quella che ci è andata più vicina di tutti. Serena Williams, eliminata l’anno scorso da Robertina Vinci e da un segreto che, forse, solo un allievo del dottor Freud (tennista, lo sapevate?) potrebbe spiegarci.
Mi rileggo, e mi dico non solo che ho esaurito lo spazio, ma che quest’anno nessuno sarà in grado di realizzare un nuovo Grande Slam. Mi dico anche che il mio povero Bud Collins aveva ragione. Forse avremmo dovuto passare qualche mese a scrivere quel libro intitolato Grande Slam.
Gianni Clerici