Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  agosto 26 Venerdì calendario

L’EURO E TRUMP, COSA NON HA FUNZIONATO: VE LO SPIEGA MR. STIGLITZ– [Joseph Stiglitz] Joseph Stiglitz è un fiume in piena: boccia l’euro, perlomeno con le sue regole attuali, critica Bruxelles per la sua eccessiva fiducia nelle virtù autostabilizzanti dei mercati, attacca la Germania e rade al suolo Donald Trump

L’EURO E TRUMP, COSA NON HA FUNZIONATO: VE LO SPIEGA MR. STIGLITZ– [Joseph Stiglitz] Joseph Stiglitz è un fiume in piena: boccia l’euro, perlomeno con le sue regole attuali, critica Bruxelles per la sua eccessiva fiducia nelle virtù autostabilizzanti dei mercati, attacca la Germania e rade al suolo Donald Trump. Premio Nobel nel 2001, ex capo economista della Banca mondiale e oggi professore alla Columbia University, Stiglitz è anche consigliere di Hillary Clinton, e le sue ricette partono proprio dal bisogno di ridurre quella disuguaglianza evidenziata dai movimenti del «99 per cento» come Occupy Wall Street. Riformare l’economia per andare verso la piena occupazione e rilanciare il consumo è la ricetta che Stiglitz propone nel suo saggio Le nuove regole dell’economia (Il Saggiatore, pp. 224, euro 21, in uscita il primo settembre). Professor Stiglitz, ma servono davvero nuove regole? La ricetta per salvare l’euro c’è già, o almeno così dicono da Bruxelles. Sarebbe l’austerità. Lei non è d’accordo? «L’austerità non ha mai funzionato nel rilanciare l’economia, in nessuna nazione. Oggi la si presenta come una necessità, con una narrazione che in America definiamo con l’acronimo TINA (There Is No Alternative, non c’è alternativa). Ma basta guardarsi intorno per vedere che le alternative esistono: le nazioni che hanno dato meno retta al richiamo all’austerità, come quelle scandinave, oggi stanno meglio delle altre». E allora cosa suggerisce all’Europa? «Molti spingono perché l’Europa adotti il modello americano. Ma non ha funzionato per la grande maggioranza degli americani. Prendiamo le regole Usa sul lavoro, sulla gestione d’impresa, sull’antitrust: quello che hanno fatto è stato arricchire il 10 percento della popolazione e danneggiare il 90 per cento. Ora, un’economia che non cerca di migliorare le condizioni del 90 per cento della popolazione è un’economia che non funziona. Suggerirei prudenza nell’inseguire il modello aziendale americano. Il secondo nodo da risolvere, che è uno dei problemi più immediati per l’Europa, è il diminuito potere di contrattazione dei lavoratori: è una delle cause principali della disuguaglianza». Al di là della morale, perché ridurre la disuguaglianza è vantaggioso per l’economia di una nazione? «Si figuri che oggi persino il Fondo monetario internazionale riconosce che le economie con minore diseguaglianza funzionano meglio, perché, nella media, crescono più velocemente e sono più stabili delle altre». Nelle Nuove regole dell’economia lei spiega che, per ridurre la disuguaglianza, non basta redistribuire i soldi con le tasse, ma bisogna alzare i salari. Ma se una nazione decide di farlo, non c’è il rischio che le imprese portino il lavoro altrove? «Nei Paesi Ocse, i lavori a basso salario sono soprattutto nel settore dei beni non commerciabili: costruzioni, ristorazione, vendita al dettaglio... Tutte quelle attività che devono essere svolte per forza in loco. Se vivi a New York, per capirci, non andrai a comprare il tuo hamburger in Germania. Per questi settori non c’è il rischio di fuga delle imprese. Nel settore dei beni commerciabili, invece, c’è competizione con l’estero. Ma lì ci sono fattori più importanti dei salari, come la produttività dei lavoratori e la qualità delle infrastrutture. Se, tassando di più i ricchi, finanzi le infrastrutture, potrai pagare salari minimi più alti senza perdere vantaggio competitivo». Però ci sono anche nazioni che, pur molto ricche, hanno scelto di non alzare i salari. «Una su tutte: la Germania. Col tasso di cambio fisso dell’euro, non potendo quindi svalutare la sua moneta, ha voluto aumentare la sua competitività abbassando i salari. Nei primi dieci anni di moneta unica, la produttività tedesca è aumentata, ma i salari non altrettanto: sono stati tenuti giù appositamente. Questo ha causato un boom di esportazioni, a scapito dell’export degli altri Paesi europei. I politici tedeschi sono stati capaci di costruire una narrazione che li vede come virtuosi, disciplinati. In realtà hanno danneggiato i poveri in Germania e ottenuto un vantaggio competitivo a spese delle altre nazioni europee. Un esempio di ciò che gli economisti definiscono “politica del rubamazzo”». Oggi già averlo, un salario, alto o basso, è molto più difficile che in passato. Perché la disoccupazione in Europa è cresciuta così tanto? «Quando c’è una crisi economica, sono tre le strategie per ridurre la disoccupazione: stimolare i consumi e gli investimenti abbassando i tassi di interesse. Favorire le esportazioni abbassando il tasso di cambio. Usare la leva fiscale per ridurre le tasse o aumentare la spesa pubblica. Purtroppo la moneta unica impedisce le prime due strategie, e al tempo stesso i criteri di convergenza – impostati alla nascita dell’euro per ridurre nel tempo le differenze tra Stati membri – ostacolano la libertà di manovra fiscale dei singoli Stati. L’euro così come è attualmente non permette di muoversi verso un orizzonte di piena occupazione». Soluzioni? «Si potrebbe riformare l’Eurozona dividendola in due o più aree monetarie, oppure con l’uscita di alcuni Paesi. Sarebbe molto costoso, ma lo è anche rimanere nella situazione attuale senza riformarla. Tutti pensano alla moneta unica come a un fine: ma è solo un mezzo. I fini sono cose diverse, come la prosperità e la stabilità». Tornando all’America, e Trump? «Sta facendo odiare l’America con le sue posizioni oltranziste. E, cosa più grave, mi sembra capisca poco di politica economica. Propone di uscire unilateralmente dai trattati internazionali e di rinegoziare il debito estero americano. Come dire che non intende onorarlo. Ma questo messaggio farà sì che in futuro sarà più difficile ottenere altri prestiti, e chi presterà soldi agli Usa vorrà interessi più alti per compensare il rischio di trattare con un partner inaffidabile. E questo aumenterà ulteriormente il deficit. Un’assurdità».