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 2016  agosto 26 Venerdì calendario

QUESTO RESTA IL POSTO PIÙ FICO DEL MONDO


NEW YORK. Quando ancora erano una bella coppia qui vivevano Susan Sarandon e Tim Robbins. «Al piano sotto ci sta Edward Norton» spiega Jay McInerney, in Levi’s, maglietta dello stesso oltremare degli occhi e mocassini scamosciati blu, dopo avermi fatto accomodare sull’iconica poltrona a uovo di Arne Jacobsen. «Richard Gere abita là» dice puntando a est un palazzo vicinissimo, «mentre Sam Shepard e Jessica Lange hanno casa dall’altra parte. Lo chef Mario Batali invece...». Un paparazzo con teleobiettivo, da questo attico al tredicesimo piano nella parte più sofisticata del Greenwich Village, potrebbe fare in un giorno il lavoro di un anno. Dalle immense vetrate a sud si vede il nuovo World Trade Center, dal terrazzo a est l’Empire State Building e da quello a ovest il Chrysler. L’autore di Le mille luci di New York, il romanzo che ha cantato gli esagerati anni 80 inaugurando un minimalismo letterario che non risparmiava neppure le marche delle t-shirt e delle aranciate dei protagonisti, ci vive da dieci anni. Con la quarta moglie Anne Hearst, nipote del magnate Randolph che ha ispirato Orson Welles per Quarto potere e sorella di Patricia, che in piena sindrome di Stoccolma si unì ai suoi rapitori nelle sanguinose velleità terroristiche dell’Esercito di liberazione simbionese. L’appartamento di 170 metri, pagato 3,2 milioni ma senz’altro molto apprezzato da allora, è un trionfo di art déco con inserti più contemporanei. Un servizio di Architectural Digest che McInerney tiene a portata di mano sul tavolino da caffè incensa la perizia dell’arredatore, che già aveva dato prova del suo talento nel sistemare la villa di lei a Long Island, zona grande Gatsby («con elaborati caminetti e modanature che ricordano Xanadu, il castello Hearst»), nel conciliare le diverse sensibilità degli sposi.
L’autore, per così dire, è diventato protagonista. Ci vorrebbe un Francis Scott Fitzgerald – o almeno un McInerney – per celebrarne le gesta. Lui nel frattempo ha continuato a raccontare New York attraverso le vicende di Russell e Corrine, la coppia che, sfidando ogni legge di gravità sentimentale, continua a reggere nella città più tentatrice al mondo. E di cui a settembre leggeremo in La luce dei giorni (Bompiani, pp. 512, euro 20, traduzione di Andrea Silvestri, titolo originale Bright, Precious Days), il terzo volume della trilogia dopo Brightness Falls (1992) e The Good Life (2006).
A un certo punto, nel libro, una ragazza rimpiange gli anni 80 di cui ha solo sentito parlare. «Sì, furono memorabili» conferma Corrine, «se non che, come dicono, se riesci a ricordarli probabilmente non li hai vissuti». Gli chiedo perché fossero così speciali. «Venivamo dal leggendario blackout del ’76 e dal ’77 della bancarotta sfiorata. Sentivamo di essere a un bivio: sprofondare o salvarsi, cinquanta e cinquanta. Non c’era amico o conoscente che non fosse stato almeno rapinato, la città era sporca e pericolosa. Washington Square, qui a due passi, era un supermercato della droga. Però, in quartieri vicini come l’East Village, la classe creativa riusciva a campare con poco. Era il tempo migliore e peggiore per vivere a Manhattan».
Lui, per dire, era arrivato nel ’79 dopo una gioventù con diciotto traslochi in quasi altrettante città a seguito del padre manager di una cartaria. Quello stesso anno fu lasciato dalla prima moglie, modella fuggita in Italia con un fotografo, perdette il lavoro come verificatore di notizie al New Yorker e anche la polvere bianca scarseggiava. Fortunatamente il suo compagno di università, appena assunto da Random House, parlò bene di lui a Raymond Carver che lo andò a trovare il giorno in cui uccisero John Lennon. Molte chiacchiere e piste di coca dopo, i due si stettero molto simpatici e Carver, che insegnava a Syracuse, riuscì a fargli avere una borsa di studio. Fu grazie a quella che scrisse Le mille luci e la sua vita cambiò.
Non tutta la critica apprezzò la parabola del giovane fact checker lasciato dalla moglie, in perenne apnea psichedelica nella vita notturna cittadina (vi ricorda qualcuno?). Il fresco premio Pulitzer George Will lo definì «uno spot della birra Michelob reinventato come letteratura» mentre Shepard, che poi si è ritrovato come vicino, sentenziò che era «profondo come una vasca Jacuzzi». Vendette comunque mezzo milione di copie, divenne l’epitome di una generazione e di colpo McInerney fu scaraventato dall’appartamento da 250 dollari al mese di Syracuse alle stanze da 250 dollari a notte dello Chateau Marmont di Los Angeles, reclutato da Hollywood per adattare dal testo una sceneggiatura (per la prima stesura mandarono a prenderlo una limousine lunga come un tir, per la seconda un taxi, per la terza nessuno e poi lo licenziarono). Da allora, per quasi vent’anni, ha tenuto rubriche sul vino, di cui vanta competenze di prima mano («È come essere pagato per uscire con le modelle»), in riviste patinatissime da Town&Country a House&Garden. Ma torniamo nel nostro salotto aereo, vista paradiso.
Nel libro Russell definisce «matrimonio perfetto un ossimoro pernicioso» e qualche sedicente saggio offre la formula perfetta per l’età della seconda moglie («La metà dei tuoi anni, più sei»). Corrine a un certo punto inchioda il marito a un bilancio coatto: «Tutto qui? Rose una volta all’anno e una trombata da avvinazzati obbligatoria? Abbiamo cinquant’anni. Dov’è finito il sentimento? Che ne è stato della passione?». Dall’alto dell’esperienza maturata oggi e con le tre ex signore McInerney gli chiedo cosa è cambiato rispetto alla tenuta delle relazioni. «New York è il luogo con più tentazioni al mondo, con così tante persone belle e ambiziose per strada e un anonimato che facilita le tresche. Aggiungete che l’unica religione cittadina è di scambiare costantemente quel che si ha per qualcosa di meglio. Su un piatto dunque la sicurezza domestica, sull’altro la passione (o il suo ricordo), difficile da addomesticare. Il risultato è che la coppia è un’entità intrinsecamente instabile». Un isotopo sociale.
Quando Washington e Casey, due amici dei protagonisti, fanno sesso clandestino nell’hotel dove sono stati invitati per una serata benefica con i relativi partner, vengono scoperti perché nella foga lui ha fatto partire una chiamata sul cellulare che documenta in audio l’incandescente infedeltà. Morale: «Se c’è un cambiamento è la tecnologia, dai telefonini ai social network, che ha ridotto l’anonimato, rendendo meno facile tradire».
Siamo nei giorni del tragico tiro bersaglio di un riservista afroamerica su cinque poliziotti bianchi a Dallas. Dopo, va detto, settimane di aggiornamenti continui del bollettino di neri sbrigativamente ammazzati da agenti caucasici. Il romanzo ricorda l’esperimento di Tuskegee, degno della fantasia malata di un Mengele yankee, quando seicento neri furono usati come cavie dal sistema sanitario dell’Alabama per studiare gli effetti della sifilide non curata. Andò avanti dagli anni 30 ai 70: è un modo per dire che il razzismo, da allora, è molto migliorato? «Non direi. Anzi, per ricordare che il problema, enorme, forse il più grosso che abbiamo, è sempre stato con noi. La scena della prima elezione di Obama nel 2008, verso le ultime pagine, originariamente doveva essere quella di apertura. In ogni caso resta uno dei momenti di maggior ottimismo del romanzo. Il primo grande lutto collettivo della New York in cui Russell e Corrine si muovono è l’epidemia di Aids degli anni 80. Poi la caduta delle torri nel 2001. Quindi il crollo dell’economia nel 2007. Infine arriva uno sconosciuto senatore democratico dell’Illinois e infiamma l’America di speranza. Anche Russell e Corrine, che hanno la loro buona dose di problemi per il tradimento di lei con un plutocrate dal cuore tenero, si riavvicinano davanti alla promessa di futuro che le immagini in tv regalano. Yes, we can! Eppure, nonostante Obama, non siamo diventati una società post-razziale. Ha scelto di essere un presidente unificante, di tutti, attentissimo a non essere percepito come un presidente con un’agenda da Black Panther. I rapporti sono senz’altro migliori di cinquant’anni fa, ma sussiste un razzismo istituzionale che fa sì che i neri frequentino le scuole peggiori e abbiano meno opportunità».
McInerney, in occasione di una partita amatoriale di baseball, fa dire a un suo personaggio che «scrittori e politici giocano nella stessa squadra per i successi dei secondi nel campo della fiction». Il che dirotta la conversazione su Donald Trump, potenziale illusionista-in-capo del Paese. «Sarebbe un disastro. È una truffa. Conosco molte persone nel settore immobiliare (non potrebbe essere diversamente, considerato da dove stiamo parlando) e tutti mi dicono che non ci si può fidare, cerca sempre di imbrogliare, non paga i fornitori, ha usato senza scrupoli la bancarotta per liberarsi dei creditori e così via. Ed è forse l’unico, tra i ricchi newyorchesi, a non fare beneficienza. È una non commodity, un prodotto intangibile, fuffa, un clown che mi ricorda il vostro Berlusconi. Con la differenza che voi ve ne siete liberati. Soprattutto è uno che ha un rapporto adulterato con la realtà. Ha detto che, dopo l’11 settembre, migliaia di musulmani festeggiavano in New Jersey. Una notizia falsa, priva di alcun riscontro. Lui però continua a ripeterla ed evidentemente la gente ci crede».
Le patacche scambiate per oro zecchino sono anche materia prima letteraria. Nella mossa che potrebbe finalmente cambiare le sorti della sua piccola casa editrice Russell compra, per la cifra più ingente che abbia mai azzardato, i diritti per il memoir di un giornalista rapito dai talebani. Peccato che se lo sia inventato. «Non credo che la gente menta oggi più di ieri. La differenza è che oggi è più facile beccarli. Ne ho scritto perché qualche tempo fa mi ha fatto impressione In un milione di piccoli pezzi, l’autobiografia farlocca di James Frey, e quella della presunta infanzia abusata di J. T. Leroy. L’autofiction è diventata di gran moda negli ultimi vent’anni, perché la gente avrebbe fame di realtà. Io invece penso che sia una scorciatoia a buon mercato, quando non contraffatta, rispetto alla capacità di cogliere la realtà profonda che ha il romanzo».
Qualche giorno prima il New York Times gli ha commissionato il suo «canone», presumibilmente come orientamento balneare. Non ci sono grandi eccentricità: Il grande Gatsby di Fitzgerald, Fiesta di Hemingway, Ulisse di Joyce, L’usanza del paese della Wharton, Emma della Austen, Un gioco e un passatempo di Salter, Il codice dei Wooster di Wodehouse, Illusioni perdute di Balzac, Morte a credito di Céline e Una manciata di polvere di Waugh. Gli chiedo di integrarlo con qualche lettura recente e altre cose che gli piacciono: «Città in fiamme di Garth Risk Hallberg e Sweetbitter di Stephanie Danler, tra i giovani. Ovviamente DeLillo, che sta per uscire con un nuovo libro, e Franzen, anche se l’ultimo mi è piaciuto meno. Non sono assatanato di serie tv, ma ho amato moltissimo The Sopranos e Breaking Bad, belle come romanzi, e poi House of Cards. Quanto ai film, non mi viene in mente niente di strepitoso negli ultimi tempi. Mi sembra in effetti che siano diventati meno rilevanti». Sottoscrive la massima hemingwayana per cui la peggior sfiga che ti può accadere, a patto che non ti uccida, è la miglior cosa che ti può capitare come scrittore.
In una sconfinata intervista alla Paris Review sui trucchi del mestiere, sbertuccia gli aspiranti scrittori che aspettano l’ispirazione come una musa: «Devi essere vestito e pronto per la musa o altrimenti non verrà mai» che significa alzarsi, sbarbarsi e scrivere ogni singolo giorno che dio mette in terra. Disciplina cui sottostà proficuamente da anni, negli ultimi dieci nello strepitoso studio anni 20 con un grande Mac sulla cui base di alluminio è appoggiato un cuore di vetro verde ed è vegliato da foto in bianco e nero dei suoi eroi letterari: «La condizione però è essere a New York. Questa città alimenta costantemente la mia immaginazione. Sono cresciuto nei sobborghi e li detesto come poco altro. Sono posti dove si va a nascondersi, non a vivere». A un certo punto fa dire a Russell che non si trasferirebbe mai neppure nella più gentrificata parte di Brooklyn: «Odio la repubblica popolare di Park Slope. Passeggini e cooperative alimentari e criticoni moralisti di Manhattan». Mi spiega meglio: «Brooklyn è un continente, ci sono cose belle nelle sue singole parti, mentre qui c’è tutto, e lo puoi quasi raggiungere a piedi». Difficile smentirlo. Compresi, ovviamente, tutti i più assurdi tic del presente, tra cui l’enofilia più parossistica («Ragazzi, siete un branco di pedofili» grida un banchiere in un’enoteca extra lusso. «Questa bottiglia è una bambina» mentre dall’altro tavolo ribattono indignati «Neanche per sogno, amico. Questa bottiglia ha le tette») o la cottura sotto vuoto, apparentemente dernier cri.
Perché, anche da voi, tutti impazziscono per gli chef? «In effetti l’altra sera ero a Le Bernardin, uno dei migliori ristoranti della città, e il maître, che conosco piuttosto bene, era venerato come una volta si faceva con le rock star. D’altronde, per quelli della mia età con un po’ di soldi, i ristoranti sono diventati posti di socializzazione come una volta i nightclub. Quanto alla loro promozione come intellettuali, mi sembra che sia successo con tutte le celebrità e ora è il loro turno». Ovviamente il suo quarto banchetto di nozze è stato ammannito al 21 Club, a due passi dal Moma, e radio gossip c’ha ricamato per mesi.
L’ultima domanda, ormai nel corridoio turchese verso l’ascensore con foto montate su plexiglass di ninfette ammiccanti, è sulla persistenza di Bright nei suoi titoli (a partire dal capostipite, Bright Lights, Big City). Jay, il piccolo Gatsby, non fa una piega: «Forse perché tutti i miei personaggi cercano la luce, sono attratti da Manhattan come le falene dalla fiamma». Chi non si brucia, se la spassa parecchio.
Riccardo Staglianò