Malcom Pagani, GQ 9/2016, 25 agosto 2016
ROCKY E IO– [Nerio Alessandri] A Calisese, in via Mentana al numero 44, tra il chiosco di piadine e l’oratorio, c’è una casetta piccola così, con un garage di quattro metri
ROCKY E IO– [Nerio Alessandri] A Calisese, in via Mentana al numero 44, tra il chiosco di piadine e l’oratorio, c’è una casetta piccola così, con un garage di quattro metri. Ha il tetto in ondulina e il portone di lamiera. Nerio Alessandri ha costruito lì il suo primo attrezzo e ha lasciato quell’antro a due passi da Cesena nelle stesse condizioni di decenni fa: «Se vuole può vederlo. Ogni tanto ci vado perché ricordarsi da dove si viene è importante almeno quanto capire dove si va». Oggi il 55enne Alessandri è arrivato in tutto il mondo con Technogym. Più di 2.000 dipendenti, quasi 500 milioni di euro di fatturato nel 2014, tapis roulant e vogatori che abbracciano Olimpiadi (quest’estate a Rio come fornitore ufficiale dei Giochi), Mondiali, salute di capi di Stato e repentini desideri di giovinezza del popolo delle palestre. Technogym è una città, un modernissimo spazio architettonico di 60mila metri quadri appoggiato all’uscita della A14, in cui i dipendenti possono stare in cucina o camminare nei giardini. Questa Wellness Valley di Romagna è una fiamma, dice Alessandri divorando la c, «nata da una sintilla». Come si era accesa? «Con la fame, che continua a essere identica e forse è anche aumentata. Fame di imparare, esplorare, creare e crescere senza accontentarsi mai. Una fame legata alla reputazione della famiglia e dell’azienda». Per lei, reputazione è una parola importante? «Reputazione è pensare che qualcosa ci sopravviva, è la ricerca dell’eternità, è un’eredità basata sui valori. Ecco, forse valore è una parola più interessante di reputazione. A me i valori li hanno lasciati i miei genitori. Chi erano? «Due persone che hanno sempre lavorato duro. Mio padre Giovanni era stato contadino a mezzadria e aveva vissuto per anni in una casa colonica con tutta la famiglia. Quando nacque mio fratello pensò che lì saremmo stati troppo stretti e, siccome mancavano i soldi, comprò un pezzo di terreno e tirò su l’appartamento nuovo con le proprie mani. Per risparmiare andava a prendere la sabbia al Rubicone e sgobbava anche di notte. Non me lo sono più dimenticato». Ha iniziato a lavorare presto anche lei. «A dieci anni, nel magazzino di frutta di mio nonno, il padre di mia madre che lì faceva l’operaia. All’inizio mettevo la carta nelle cassette, poi diventai carrellista. Mi muovevo tra le pile accatastate spostandole con il muletto». Poi è arrivato il garage. «Di meccanica avevo iniziato ad appassionarmi da giovanissimo, nell’officina del signor Mengozzi davanti a casa. Entravo e, tra chiodi, bulloni e cacciaviti, imparavo a montare e a smontare le cose». E cos’altro faceva a quell’età? «Mi informavo. Chiedevo. Ho sempre pensato che sia più interessante domandare che rispondere. Da ragazzo desideravo cose che non potevo permettermi e mi industriavo. I miei compagni ricchi compravano autoradio o motorini inaccessibili, poi si annoiavano, passavano al modello successivo e me li rivendevano a metà prezzo». E lei che ci faceva? «Li riassemblavo, li miglioravo e li rivendevo a un prezzo più alto. Con il Caballero a sei marce feci un lavoro niente male e con i soldi ottenuti dalla vendita due anni dopo riuscii ad acquistare una Vespa». Lei si è diplomato al tecnico industriale di Forlì. «Era il 1980. Lavorai come bagnino e cameriere e mi servì. Imparai ad ascoltare e a mandar giù i bocconi amari. La cosa più bella è che oggi ti parlano solo di Master, ma la verità è che, se non hai fatto la gavetta e non hai visto come si serve un cliente, certi pezzi di carta non servono a niente». Era un bravo cameriere? «Lavoravo con una ragazza. La sala era divisa in due parti. Strappare la mancia era un’arte. Io ci riuscivo, lei no. I clienti in fondo erano gli stessi». Perché lei prendeva le mance e la sua collega no? «Perché sapevo anticipare i desideri dei clienti. Quasi quarant’anni dopo, cerco di fare lo stesso. Il modello che ha trionfato nell’ultimo ventennio dice che si può ottenere tanto senza faticare e che, se ce la fai senza meriti, sei furbo e sei fico. Su queste basi parlare di sacrificio a un ventenne è più dura». Come le sembra l’Italia di oggi? «Un sistema obsoleto. Non c’è un sogno e manca un progetto a lungo termine. Si vive in emergenza, e non è vero che l’emergenza aiuti la creatività, al limite la frustra. Per alzare la testa abbiamo bisogno di immaginare un progetto condiviso». Serve un sogno, dice lei. «Noi abbiamo un solo possibile prodotto da esportare, che è la qualità della nostra vita. Se non la mettiamo a sistema facendone un prodotto riconoscibile, non attireremo investitori. Potremmo fare dell’Italia il più grande produttore di benessere al mondo. Mens sana in corpore sano l’abbiamo inventato noi. Se rimettiamo l’uomo al centro, in dieci anni, mettendo intorno a un tavolo le menti migliori del Paese, riprendiamo a volare. Vola il lavoro, vola il Meridione». Ma lei, queste cose, le ha dette a Renzi? «Certo che gliele ho dette. Il problema è che anche lui è nell’emergenza. Vive alla giornata. Io sono un sognatore, non il primo ministro e tantomeno voglio semplificare, perché qui sono tutti governanti ed esperti di calcio. Faccio quello che posso. Mi rimbocco le maniche. Non cedo alla cultura del sospetto né dell’invidia. Lavoro». Il primo attrezzo della lunga storia di Technogym lo costruì nel garage di Calisese. «E lì feci anche la mia prima pubblicità. La modella, vestita come Jane Fonda, fu mia moglie Stefania. Io avevo 16 anni, lei 21. L’avevo conosciuta, bellissima e con dei grandi occhi verdi, in un bar di Gambettola. Avrebbe dovuto andare a Roma per entrare nel mondo del cinema. Invece rimase in Romagna con me. Lei posò, io mi improvvisai fotografo». A quel tempo lei poteva fare scelte diverse: il posto fisso, per esempio. «Alla Roda, un’azienda che produceva macchine automatiche per il confezionamento della frutta, feci un apprendistato importante, in cui scalai le tappe una a una imparando a maneggiare una competenza tecnica che di lì a poco mi sarebbe stata utilissima. Avrei potuto accontentarmi, ma cercavo altro. Mi licenziai. Mia madre era sconvolta. Non poteva crederci. Si mise a piangere». L’idea di Technogym nasce proprio in quegli anni. «Avevo iniziato a frequentare una palestra di Cesena e mi ero reso conto che su quei primi attrezzi rudimentali, pericolosi, avrei potuto applicare le mie conoscenze di meccanica. Studiai le novità sulle riviste di settore americane, che mi feci vendere da un culturista, e iniziai a progettare il mio primo modello. Technogym nasce allora. Pensare che il sogno nel cassetto era quello di diventare stilista. Scrissi persino a Giorgio Armani per avere un appuntamento». E Armani? «Non mi rispose. Mi gettai anima e corpo nella mia impresa proprio a causa di quel rifiuto». In qualche modo, con Technogym, stilista è diventato lo stesso. «In qualche modo. Sono fiero di quel che ho costruito, anche se so che la modernità di oggi tra un minuto invecchierà. Chi si compiace è perduto. Nel 1998 mi invitarono al Centro Pio Manzù, a tenere una relazione insieme a molti nomi più importanti del mio. Quando mi presentai sul palco a parlare di wellness, cioè di felicità, mi guardarono con scetticismo». Come mai? «Eravamo in pieno edonismo e parlare di salute non era di appeal. Oggi l’hanno capito tutti». Cos’hanno capito? «Che senza salute, con due miliardi di persone in sovrappeso e gli Stati che con il welfare non riescono a sanare i buchi dovuti a un pessimo stile di vita, non c’è futuro. Oggi la gente vuole star bene dimenticando le diete, una trappola punitiva. Un’illusione. Se ne affronta tre, può star sicuro di perdere per sempre la possibilità di stare bene con il suo corpo». Lei è magro. «Non rinuncio alla tagliatella, ma cerco di mantenere un equilibrio tra testa e fisico». È vero che è di manica strettissima? «Investiamo moltissimo nelle risorse umane, però non buttiamo via niente e non ci piace lo spreco. Se trovo una luce accesa in ufficio, stia sicuro che sono il primo a spegnerla».