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 2016  agosto 25 Giovedì calendario

ZERO PREVENZIONE E TEMPI BIBLICI: CONTO DA 150 MILIARDI

Una scia di disastri e occasioni perse lunga i mille chilometri dello Stivale, dal Belice (1968) al risveglio dell’Orcolat, che squassò il Friuli nel ’76, fino a quel 6 aprile 2009 azzoppò L’Aquila. Tutto pagato a caro prezzo: oltre 150 miliardi di euro e il conto salirà ancora. È la storia di una sconfitta, quella della “prevenzione del rischio sismico” che l’Italia, spaventata dai costi, ha derubricato a missione impossibile sul nascere, confinandola alla sola evoluzione normativa.
E così ha partorito le “gestioni emergenziali” ultradecennali, le case senz’acqua del Belice 46 anni dopo, le new town dell’Aquila che cadono a pezzi, il disastro di San Giuliano di Puglia trasformato in pioggia di soldi per Comuni mai lambiti dalle scosse dal governatore Iorio e via dicendo. Lungo elenco, conto salato e migliaia di morti.
Cifre stilate 7 anni fa dall’Ufficio studi della Camera: dal 1968 al 2009 la gestione dell’emergenza e la ricostruzione sono costate 135 miliardi di euro, oltre 90 messi dallo Stato. Con L’Aquila e l’Emilia (2012) – stima la Protezione civile – si arriva a 150 miliardi fino al solo 2013. Si pagherà a lungo: per il Belice fino al 2018; per l’Irpinia al 2020; per Marche e Umbria al 2024; per il Molise al 2023; per l’Abruzzo al 2033. Solo per il Friuli tutto s’è completato nel 2006. Una storia virtuosa grazie a stanziamenti diretti in capo al commissario ad hoc e a scelte strategiche come trasformare il centro di Venzone in “opera pubblica”. Meccanismo abbandonato già con l’Irpinia.
E così il ritardo dell’Italia è rimasto. Oltre il 60% degli edifici (7 milioni) è stato costruito prima delle normative antisismiche, 2,5 milioni sono in pessimo stato. Ma si è fatto davvero poco, quasi nulla.
Nell’85 il “gruppo nazionale difesa dai terremoti” quantificò in 100 mila miliardi di lire (110 miliardi di euro attualizzati) il costo per mettere in sicurezza gli edifici pubblici delle aree più a rischio (Sicilia, Calabria, Garfagnana), a fine anni 80 un gruppo guidato dal direttore del centro rischio sismico del Cnr, Vincenzo Petrini, stilò un conto brutale: per tutto il patrimonio edilizio (monumenti esclusi) la cifra eguagliava il debito pubblico (oltre 800 miliardi di euro). “Ci risero in faccia, e non se ne fece nulla – spiega Giulio Ballio, ex rettore del Politecnico di Milano – Ma la vera priorità sono gli agglomerati vecchi come i centri colpiti martedì notte, che hanno costi molto alti”.
Dopo, il vuoto. Il primo “fondo per la prevenzione del rischio sismico” è arrivato solo nel 2009 (governo Berlusconi) con il decreto per L’Aquila: 965 milioni per 7 anni (a dicembre si chiude) per interventi su edifici pubblici e privati e studi di micro-zonazione sismica. Stando all’unico monitoraggio disponibile, tra 2010 e 2011 i primi hanno riguardato 271 tra edifici e viadotti. Una goccia nel mare.
Eppure con la precisione delle mappe sismiche, le stime sono calate di molto. Nel ’96 l’allora sottosegretario alla Protezione civile, Franco Barberi, spiegò che si poteva dire addio agli effetti devastanti dei terremoti “con un flusso costante annuo di 2-3 mila miliardi di lire”, 3,6 miliardi di euro. Una cifra alla portata di qualsiasi governo, a patto di recuperare il tempo perso. E l’investimento ha effetti imponenti su crescita e casse pubbliche.
Ricostruire, infatti, costa più che mettere in sicurezza: ogni euro speso in prevenzione ne fa risparmiare 3-5 in interventi post-sisma. Non solo, gli investimenti pubblici in edilizia hanno un impatto sul Pil tra i più elevati (moltiplicano il 3,5% della spesa). La prevenzione è un affare.
di Carlo Di Foggia, il Fatto Quotidiano 25/8/2016