di Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 21/8/2016, 21 agosto 2016
“I MIEI NON VOLEVANO FARMI CANTARE. SALGO SUL PALCO PER SENTIRMI ANCORA LIBERA” – [Intervista a Gianna Nannini] – Gianna Nannini si alza dalla sedia, guarda fuori dalla finestra e indica un punto all’orizzonte: “Da ragazza, in quel periodo tragico che è l’adolescenza, venivo al mare qui, in Versilia
“I MIEI NON VOLEVANO FARMI CANTARE. SALGO SUL PALCO PER SENTIRMI ANCORA LIBERA” – [Intervista a Gianna Nannini] – Gianna Nannini si alza dalla sedia, guarda fuori dalla finestra e indica un punto all’orizzonte: “Da ragazza, in quel periodo tragico che è l’adolescenza, venivo al mare qui, in Versilia. Mio padre che era sempre andato ai bagni Aurora e quando si sentì più ricco passò al Principe di Piemonte, mi convocò per un discorso serio proprio qui davanti, sui divani di vimini del nuovo stabilimento balneare: ‘Vieni che devo spiegarti qualcosa’. Papà era gelosissimo e comprensibilmente preoccupato. Temeva facessi un po’ la troia e con un fidanzato a Camaiore, un altro a Pietrasanta e un altro qui, a Viareggio, un po’ troia in effetti ero. Aveva portato delle immaginette, dei disegnini: ‘Guarda che se trombi, qualcosa poi succede’. Era terrorizzato all’idea che rimanessi incinta e voleva avvertirmi in tempo. Papà era forte e sicuro di sé. Io non ero a disagio e quel discorso in fondo mi piaceva”. Con la maglietta da marinaio che campeggiava sui dischi di un tempo lontano, la voce di sempre e un cappello di paglia in testa, Nannini ha ancora una corsa dentro che non sa fermare: “Mi sento un’avventuriera, una anarchica, una libertaria”. C’è una bambina, sua figlia Penelope, che le balla intorno. C’è David Zard, serafico, che la osserva in silenzio per poi allontanarsi. C’è la vita che si è scelta, la tournée con i brani vecchi e nuovi di Hitstory, il concerto, l’energia da ritrovare anche se prima di salire sul palco, il Southern Comfort di un’epoca lontana resta sigillato: “Non lo bevo più e pur non diventando proprio astemia, mi preparo ai viaggi, alle tappe, allo sforzo e al recupero immediato come fossi un’atleta”. Lo sforzo la sfianca? Nella vita mi sono fatta un grandissimo culo. È stata una salita e non è stato tutto facile. Ho preso qualche mazzata di cui non avevo alcun bisogno, ho pensato sempre alla musica e mi sono fatta guidare dall’istinto. Quanto c’entra l’istinto nella scelta del suo mestiere? C’entra, c’entra. I miei genitori non volevano che suonassi né cantassi. A me invece garbava il pianoforte della zia. Noi a casa non lo si aveva e già a 4 anni io insistevo per andare a trovarla: non ci arrivavo neanche bene al bianco e nero dei tasti, ma provavo comunque ad allungare il braccio e a creare qualcosa inventando delle melodie. I suoi ci ha detto non volevano che suonasse. Mio padre e mia madre credevano che i loro figli, io, Guido e Alessandro, stessimo tutta la vita a fare i dolci e mandassimo avanti la pasticceria di casa. Ma io la figliola del Nannini, la ricca erede di una tradizione in quel di Siena, non volevo diventare. Quindi ha cantato. Lottando contro tutti quelli che mi dicevano ‘non vali niente’ e ‘non ce la puoi fare’. Mario Zanoletti, il direttore artistico della Fonit Cetra, si spinse addirittura a consigliarmi un’altra direzione: “Cercati un lavoro, ma dimenticati di cantare”. Le dispiacque? Ci rimasi male. Ma ero abituata. A 7 anni mi avevano buttato fuori dal coro: “Non sei adatta – dicevano – sei stonata”. Mi sembrò un’ingiustizia perché già a quell’età mi sembrava di dar corpo al coro, di avere una grana, un timbro, una voce che si sollevava rispetto alle altre. Cacciarono solo me e la mia compagna di banco. Bobo sette e Bobo otto. Bobo sette e Bobo otto? Il nostro soprannome. Il Bobo nero è una figura epica delle favole e delle ninne nanne folk della mia regione. È l’uomo nero delle ninne nanne, è il lupo, è quello che dovrebbe incutere timore, spaventare, far paura. Facevo già paura, ecco. Ora le ninne nanne le canta lei. Ne ho composte tre e ho anche capito cosa significhi cantarla e avere un figlio. Per conoscere e sapere, bisogna provare. Lei è diventata madre a 54 anni. Vanity Fair pubblicò la sua lettera: “Ti chiamerò Penelope perché mi hai aspettato tanto prima di nascere. Hai aspettato che fossi pronta”. Da quando è nata Penelope la mia vita è cambiata. Anche se in Italia, intorno alla mia gravidanza, l’aria è stata ostile. I religiosi si sono impegnati a rompere i coglioni e le critiche mi hanno fatto male perché mi è parso che ci fosse una totale mancanza di rispetto. Mi entravano in pancia, quelle critiche. Le hanno mancato di rispetto? Non a me in quanto Gianna. Mi hanno sempre massacrato e che continuino a farlo non mi fa né caldo né freddo. Io continuo a cantare e me ne frego. Nei confronti di chi allora? Della vita. Mi dava noia questa generalizzata mancanza di rispetto per la nuova vita che veniva al mondo. Una che dà vita, dà vita. È una scelta molto personale. Una scelta che non andrebbe giudicata. Sono sicuro che il Papa, Francesco, una persona illuminata, la pensi diversamente. Lui la Bibbia l’ha letta veramente bene. Come riconosceva i suoi santi all’epoca della gavetta? La mia madonna laica era l’America. Volevo raggiungerla, imparare il blues e perdermi in un mondo nuovo, ma non volevo farlo con i soldi di papà. Così mi misi d’impegno a imparare un mestiere. Se fare i ricciarelli in azienda mi avrebbe portato fuori da lì, ero disposta al compromesso. Così ho iniziato, spaccando le uova nell’impasto. Anche 350 di seguito. Lei ebbe un grave incidente proprio preparando i ricciarelli. Persi due dita mentre sperimentavo una nuova ricetta. Con lo choc e il dolore, la voce divenne più roca. Quell’incidente fu un segno. A Siena non potevo più rimanere. Quindi, tra strepiti e contrarietà, scappai di casa e andai a vivere a Milano: “Voglio fare quello che mi pare e voglio cantare” dissi. I miei non la presero bene. Papà mi amava e soffrì. Per quasi due anni non ci parlammo. Sapevo che dovevo farcela da sola. Indietro non potevo tornare. Se strappi con la provincia, poi non puoi tornare sconfitto e con la coda tra le gambe. Sono stata caparbia e mi è andata molto bene. Come si mantenne? Feci tanti provini e venni presa alla Numero Uno da Claudio Fabi e Mara Maionchi. In me – gli sono ancora grata – credettero subito e mi affidarono alle cure di Gino Mescoli. La Numero Uno era la casa discografica di Battisti ed era considerata alternativa. Inutile dire che ero contentissima. Là con 150.000 lire ci pagavo l’affitto, il pane e anche il companatico. Dopo averle fatto fare una prima esperienza nei Flora Fauna Cemento, la Numero Uno pubblicò il primo disco nel 1976. All’epoca scrivevo canzoni diversissime da oggi. Al Bar Magenta o in un appartamento milanese di Via Gian Giacomo Mora, da sola. Io e il pianoforte. Erano canzoni da cantautrice. Partivo dal testo e se serviva, stavo lì per ore, proprio come Lucio Battisti, fino a quando le parole non si sposavano con la voce e con il suono. Non collaboravo con nessuno e mi cantavo addosso. Di spiegarmi come lasciare nell’angolo chitarrina e pianoforte per provare a trasformarmi in una cantante rock si incaricò Conny Plank. Musicista, collaboratore di David Bowie, Eurythmics e Brian Eno, produttore del suo Latin Lover nel 1982. “Se vuoi fare le canzoni rock – mi disse – non puoi cantare contro gli accenti”. Con Conny familiarizzai con il concetto di band e trovai una nuova identità musicale più internazionale con arrangiamenti diversi e collaborazioni fondamentali. Sperimentavamo tanto all’epoca e incontravamo l’Europa. In Latin Lover, per dire, suona Annie Lennox. Con la band, finalmente diventai rock. Perché il rock, con gli altri elementi dell’orchestra, permette alla voce di spaccare. Perché il rock valorizza il cantante, ma è un gioco di squadra collettivo. Il rock lo puoi fà con gli altri, non lo puoi fà da sola. Di fronte al primo successo – Latin Lover – come si comportò? Le tappe del successo le paghi tutte. Hai successo, gli altri ti vogliono ammazzare e il tuo compito è saperlo, accettarlo e provare a sopravvivere. Comunque ho ricordi confusi di quel periodo perché, all’epoca, all’eccezionale esperienza artistica affiancavo un momento personale complicato. Ero nel caos. Avevo un problema di scissione mentale e mi sembrava di non sapere chi fossi davvero. In un certo senso penso di essere nata nel 1983. Dopo quel disco. Dopo essere andata completamente di fuori e aver rischiato di non tornare più indietro. Come accadde? Ancora esattamente non lo so. Conducevo una vita ribaltata e al ribaltamento definitivo forse contribuì Sogno di una notte di estate di Gabriele Salvatores. Interpretavo Titania. Per due mesi lavorai di notte e andai a dormire alle dieci di mattina. Gabriele era timido e gentile, così timorato dall’impresa – lui che poi seppe creare un vero e proprio genere – da non avere il coraggio di dire ‘sono il regista’. Scambiare il giorno con la notte, comunque, non mi aiutò di certo. Al tempo fumava anche qualche canna? Ho smesso, ma non le ho mai fumate per piacere. Il fumo mi faceva e mi fa schifo ancora oggi. Ero discinetica e mi muovevo senza coordinarmi bene. Le canne mi rallentavano e in qualche modo mi rendevano più armonica. “Abbiamo una nuova grande cantautrice” scrissero i giornali dopo Latin Lover. L’accostamento la convinceva? A lei i cantautori piacevano? Mi piacevano De Gregori, Battisti e Guccini, ma per lo più ascoltavo l’opera. A casa i riferimenti erano Claudio Villa e Mina. Per Mina, mio padre andava pazzo. In Hitstory lei ha recuperato Endrigo, Tenco e una poetica lontana nel tempo. E ho suonato e suono in tournée con 14 persone. L’orchestra è straordinaria e mi ha sorpresa. Non pensavo ci saremmo mossi con questa sicurezza e con questa sintonia in così poco tempo. Pensà che da piccina, prima di partecipare a Voci Nuove, qui a Viareggio, a 14 anni, sognavo di fà proprio la direttrice d’orchestra. Venne invece diretta, da un regista famoso, Michelangelo Antonioni, nel video di Fotoromanza, la canzone principe del 1984. Avevo adorato Zabriskie Point e la scena finale dell’esplosione. Glielo dissi felice, ma non sapevo cosa mi stesse aspettando. Se ci penso sto ancora un po’ male. Se pensa al video? Antonioni lo impostò e lo curò con la stessa maniacale intensità ed emozione che riservava ai suoi film. Creava la situazione giusta per esasperare l’emotività. Per fotografare il verso “Questo amore è un gelato al veleno” mi mise per due giorni nel fango facendomi venire una broncopolmonite. Qualche tempo dopo incontrai Monica Vitti. Le raccontai la storia e lei si mise a ridere: “Bella mia – mi disse – sai quanti raffreddori ho preso con Michelangelo?”. Quest’anno festeggia il suo quarantennale. Non è stanca di cantare? Pensi che la stesa cosa me la chiese Mina: “Ma come fai ad affrontare le tournée con questa gioia?”. “Sento l’emozione e devo andare sul palco, sentire i brividi, avvertire la fisicità del pubblico” le ho detto. E Mina? “Ha mandato a fare in culo tutti ed è una grande” disse di lei un giorno. Mina fu ganzissima e lo è ancora, quella volta però insisteva: “Va bene, ma come fai a sentirle ancora?”. “È un rito che mi restituisce energia” le ho detto. Perché è quel che penso. Il successo non uccide l’emozione. L’emozione è pericolosa. È l’ultima delle cose rimaste libere. Nessuno può dirti se provarla o non provarla. Quindi abbiamo ancora un ventennio almeno di Nannini davanti a noi? Adesso l’importanza di quel rito lo sento, se domani non lo sentissi più smetterei. Ma non è il momento. Non ho perso curiosità e mi sento ancora esploratrice. Se c’è una luce lì in fondo, io la seguo. Se l’ispirazione mi chiama, io vado. Ora, dopo anni di usucapione in cui non ho potuto controllare nulla dei miei dischi, mi sono liberata dai contratti capestro e ho anche le persone giuste accanto. Con David Zard volevo lavorare da sempre. È successo. Sono felice. Si è sentita incompresa? Non tutti hanno capito il lavoro che ho fatto, ma farsi amare da tutti è impossibile e forse non è neanche giusto. Sa una cosa? C’ho una certa autostima io. (Ride) All’epoca di California, non tutti capirono il significato di una canzone dirompente come America. Non si parlava solo di masturbazione. Si parlava anche di politica e di contratti perché quello era stato fatto per fissare la pace dopo la Seconda Guerra Mondiale: un contratto. Lei vota ancora? Voto, voto. Pensi, l’ho scoperto anni dopo, che Renzi faceva il runner ai miei concerti. Mancava qualcosa e – zac – lui prendeva un motorino e la procurava. Renzi ha spirito toscano e questo va bene. In generale però, mi sembra che i governi ormai facciano poco. Si limitano a ripetere dei moduli. Vedremo. “Tutti i partiti sono di destra” ha detto. L’ho anche cantato in Revolution: “Anni falsi di democrazia/dittatori scelti a dare il via”. Quelli pericolosi però non sono quelli che governano, ma quelli che stanno dietro muovendo i fili della finanza e a volte della guerra. Lei andò di persona in Iraq nel 2003. Prendendo il visto per il passaporto in ambasciata con le foto di Saddam Hussein alle pareti. In Iraq vidi cos’era la guerra dal vivo. Un affare per distruggere e poi ricostruire. I miei amici mi dicevano: “Ma sei matta a partire?”. E partire non era un azzardo? A me non piace farmi dare la pappa pronta. Ho bisogno di vedere con i miei occhi, di capire senza fare pubblicità salva-coscienza alle Ong dal salotto di casa propria. Al Palestine Hotel comunque, di giornalisti che volevano raccontare la verità non ce n’erano poi molti. Lei ha molti amici? Ne ho pochi e qualcuno di veramente caro è morto. Non è facile diventarmi amica, le persone non pensano tu sia solo Gianna, ma si proiettano immediatamente sul tuo ruolo di cantante. L’altro giorno ho sentito la massaggiatrice che parlava stupita con una persona: “Non è solo brava, è anche una persona normale”. E lei è d’accordo? D’accordissimo. Agli scettici dico sempre che al gabinetto vado anch’io. di Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 21/8/2016