Stefano Mannucci, il Fatto Quotidiano 20/8/2016, 20 agosto 2016
HA VINTO IL ROCK’N’ROLL
Erano in trappola. La limousine non riusciva a farsi largo nell’assedio di ragazzine in deliquio. Ringo piagnucolava: «Voglio tornare a casa da mamma!». Ma non c’era niente da fare. Così, per lasciare il Candlestick Park, lo stadio in cui venivano celebrati i fasti dei San Francisco Giants, anche in quella notte del 29 agosto 1966 i quattro di Liverpool dovettero essere caricati su un blindato. I Beatles sognavano di farsi lanciare via dalla pazza folla come palline da baseball: un “home run” che li scagliasse agli antipodi di un’isteria generazionale sfuggita loro di mano. In quell’ultima data del tour americano, era andata ancora bene: giusto la sera prima, a Los Angeles, c’erano stati scontri tra i fans e la polizia, le auto distrutte erano state tre, un miracolo che nessuno fosse stato investito. Al Candlestick gli unici autorizzati a lamentarsi erano, semmai, gli impresari locali: mezzo stadio rimasto vuoto su 42mila posti. Un fiasco? Il manager Brian Epstein faceva spallucce, ma qualcosa non andava più per il verso giusto. Nel ’64 e nel ’65 le tournée negli Usa erano state un trionfo, come documenterà Eight Days a Week, il film di Ron Howard in uscita il 15 settembre, ricco di immagini rare sui giorni vorticosi della Beatlemania, affiancato da una riedizione scintillante del disco Live at the Hollywood Bowl, diversa (c’è anche un inedito) da quella del ’77.
Nella cerchia esterna alla band, nessuno aveva la sensazione che quella ventosa notte di fine agosto ’66 a San Francisco sancisse il passo d’addio dei Beatles ai concerti. Ricorda ancora Ringo: «Lo capii solo nel volo verso Londra». John era quello che premeva maggiormente per lo stop, ma anche George voleva rassicurazioni su un futuro solo in studio. Paul aveva chiesto al collaboratore Tony Barrow di registrare una cassetta-ricordo dell’esibizione al Candlestick: erano poco più di trenta minuti, ma Barrow dimenticò di girare il nastro, e nei bootleg comparsi negli anni l’ultimo brano, Long Tall Sally, risulta bruscamente tagliato. McCartney e Lennon portarono una macchina fotografica in scena e scattarono un selfie: insomma, la decisione era presa, si staccava la spina.
Ma perché? Di certo, i Fab Four erano insoddisfatti delle performance: sotto lo stridio stordente del pubblico suonavano male. «E io», sottolineò Ringo, «mi ero unito a loro perché erano i migliori musicisti di Liverpool». In più, la Beatlemania era intossicante: a ogni party ci si teneva su con insidiosi trip a base di Lsd. Colpa di Dylan: era stato lui a convincere gli ingenuotti della Mersey Side, dediti a banali spinelli, a provare le pasticchette.
Infine, il motivo decisivo: in marzo la giornalista Maureen Cleave aveva intervistato l’amico Lennon per l’Evening Standard. John disse: «Noi ora siamo più popolari di Gesù. Non so cosa finirà prima, il rock and roll o il Cristianesimo». Quando uscì sul quotidiano, la frase passò inosservata. Ma in agosto fu ripubblicata sul teen-magazine Datebook. E scoppiò il putiferio. Non bastarono le conferenze stampa convocate da Epstein per far chiarire il concetto a John: dalla “pancia profonda” dell’America sortirono reazioni scomposte, soprattutto nella Bible Belt.
Sotto la spinta di predicatori infervorati, i dischi di quelli che due anni prima erano divenuti idoli globali grazie all’apparizione all’Ed Sullivan Show, venivano banditi dalle radio e bruciati in sinistri falò. Il Ku Klux Klan inchiodò gli album alle croci invocando vendetta e picchettando i loro concerti. I Beatles si sentivano fisicamente minacciati: il 19 agosto, a Memphis, un petardo fu lanciato sul palco. Era il presagio di quanto accadde l’8 dicembre 1980: Lennon assassinato davanti alla sua residenza newyorchese da Mark Chapman, un “cristiano rinato”. Quando gli chiesero di giustificare l’omicidio, il killer citò proprio la dichiarazione di John sul declino della fede cristiana. Che era valsa ai Beatles, già in quel fatale ’66, la scomunica del Vaticano contro i «satanisti rock». L’indulgenza plenaria dell’Osservatore Romano arrivò solo nel 2010, quando la Santa Sede riconobbe la grandezza artistica del gruppo. Ringo chiosò: «Ora ci perdonano? E chi se ne impippa!».
A guardarli da mezzo secolo di distanza, gli eventi di quell’estate appaiono coerenti. I Beatles avevano appena pubblicato Revolver, un album rivoluzionario nell’approccio creativo e tecnologico, e la vertigine psichedelica di Sgt. Pepper’s si profilava come un arcobaleno all’orizzonte. Il meglio doveva ancora venire. Mai più sul palco: su un tetto, semmai. Quello della Apple Records: tutti con il naso all’insù a Savile Row, la via dei sarti, nel plumbeo mezzogiorno del 30 gennaio ’69. Un tetto: più su c’era solo il cielo. E lì i Beatles sono rimasti. Per sempre.
Stefano Mannucci, il Fatto Quotidiano 20/8/2016