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 2016  agosto 20 Sabato calendario

“COME REGALO PER I MIEI 80 ANNI VORREI UNA COMPAGNIA TUTTA MIA” – [Intervista a Carla Fracci] – Oggi sono 80, ma Carla Fracci, coetanea perfetta delle Kessler e quasi al pelo anche di Robert Redford, eviterà i festeggiamenti: «Come sempre aspetteremo il 6 settembre, quando compie gli anni mio marito Beppe, per organizzare una cosa in comune qui a casa

“COME REGALO PER I MIEI 80 ANNI VORREI UNA COMPAGNIA TUTTA MIA” – [Intervista a Carla Fracci] – Oggi sono 80, ma Carla Fracci, coetanea perfetta delle Kessler e quasi al pelo anche di Robert Redford, eviterà i festeggiamenti: «Come sempre aspetteremo il 6 settembre, quando compie gli anni mio marito Beppe, per organizzare una cosa in comune qui a casa. Semplice. Per carità». Stamattina, invece, c’è il caso che la si trovi a Venezia sulla tomba di Diaghilev, il fondatore dei Ballets Russes: «Forse gli porto dei gigli, è anche quella una tradizione, è morto credo il 19 o il 20 e ci siamo venuti pure con Lifar tanti anni fa». Il tempo passa: «La vita anche, e va di fretta. È vero però che questi 80 me li sento poco: finché si lavora, finché si hanno progetti». E lei, signora, da quando era allieva nella Scala del Dopoguerra, di danzare non ha mai smesso. Lo ha fatto fino qualche sera fa nel ruolo della regina Thalassa, in un balletto ispirato a Sheherazade con il Balletto del Sud. «Già. È bello lavorare con un gruppo di giovani pieni di talento. Però adesso, per piacere, non tiri fuori la domanda che mi fanno tutti». Sarebbe? «Sarebbe: ma se, quando, smettesse di ballare, che cosa gradirebbe fare? Le sembrano cose da chiedere? Ma certo che mi sento una maestra, ma certo che mi piacerebbe trasmettere quel che so ai ragazzi. A Parigi, da giovane, vidi agli Studi Vaquer dar lezione un’insegnante russa che di anni ne aveva 90. Era minuscola, rattrappita, aggrappata al pianoforte. Meravigliosa. La danza funziona così. I balletti storici vengono tramandati attraverso l’esperienza. E si trattasse solo di piedi e di gambe. No. C’entrano la testa, il cuore, la generosità». Il suo sogno, dunque, è una scuola da dirigere. Chi glielo impedisce? «Ci vorrebbe intanto una struttura, e poi appoggi, sponsor. Non è facile in un’Italia che continua a tagliare i budget per i teatri, e dove la danza è sempre la prima a pagare. Certo: una scuola, una compagnia tutta mia. Non voglio fare quella che pretende, e detesto essere considerata l’icona, il simbolo. Ma a un po’ di riguardo credo di avere diritto». Direttrice del corpo di ballo lo è stata per vari anni, al San Carlo di Napoli, all’Arena di Verona e poi, dal 2000 al 2010, all’Opera di Roma. Non senza qualche scintilla. Circola su YouTube un video in cui, durante un’assemblea, scende dal palco e va a cantarle all’allora sindaco Alemanno seduto in poltrona. «Lì ho perso la pazienza perché era una questione di rispetto, quello che lui non aveva dimostrato alla compagnia rimandando gli impegni e gli incontri. Ma di Roma preferirei ricordare il buono. Aver riportato il gruppo a livelli internazionali, l’affetto con cui i ragazzi mi pensano ancora, e la carriera di chi ho fatto prendere io, per esempio Rebecca Bianchi». Sempre a proposito di impegni personali: com’è andata come assessore alla Cultura della Provincia di Firenze? «Bene finché è durata. Un percorso interrotto per l’abolizione della Provincia, peccato perché anche lì si erano fatti molti sforzi. Ma, assessorato a parte, non dimentichi soprattutto il lungo lavoro di decentramento, le serate in giro per l’Italia, quando c’era chi mi guardava come una marziana perché andavo a Bari: ma chi te lo fa fare, mi dicevano, tu che sei la Fracci, cosa vai in Africa? E gli impresari che mi facevano capire che, se mi fossi fatta scritturare da sola, senza i ragazzi, il compenso sarebbe stato maggiore. Però io tenevo duro ». Perché? «Perché sapevo di avere ragione. In quegli anni abbiamo preparato il terreno al boom della danza, l’abbiamo offerta come su un piatto d’argento alle nuove generazioni. Le parlo di un’epoca in cui le scuole private si contavano sulle dita di una mano. E poi era anche una questione di crescita personale, di rinnovamento del repertorio. L’altro giorno un signore mi ferma per strada: l’ho vista tanto tempo fa a Jesi, nel Lutto si addice a Elettra». Non era più solo la Fracci dei tutù bianchi, dei balletti romantici. Le è pesato quel ruolo? «No. Ogni balletto romantico è una cosa a sé stante, un viaggio a parte, indimenticabile. Lo sa una volta che cosa mi hanno detto alla Scala, quando ho proposto una Giselle? Che era “un balletto di pantomima”. Ho rabbrividito, poi ho pensato allo stile della Karsavina. Altro che pantomima: pensi alla tecnica che c’è dentro. Solo che non va mostrata. Non siamo lì per farci dire: guarda come sono belli i miei arabesque». Se nomina quel titolo, il pensiero va subito al suo esordio da leggenda. Ce lo ricorda? «Avevo 19 anni, Anton Dolin all’audizione mi chiese una certa posizione e poi disse che gli ricordavo Olga Tsessisova: “Sarai una grande Giselle”. Mi ritrovai a Londra, io che ero una ragazzina, proprio per tre serate di quel balletto. Arrivavo dopo Markova e Chauviré. La consacrazione. Ballerine italiane ce n’erano state tante nella storia, Maria Taglioni, Fanny Cerrito, ma certo mancavano da un pezzo. Capitava di sentirmi dire: ma perché, alla Scala c’è un corpo di ballo?». La Scala era, è casa sua: lei e la Callas ne eravate le regine, e il teatro per farle gli auguri le dedicherà una recita proprio di «Giselle» e un appuntamento nel ridotto dei palchi. Nessuna delusione, magari per quella carica direttiva che non è arrivata neanche da lì? «Non ne voglio parlare, si sfocerebbe in politica. Non è il caso». Che cosa l’appassiona, oltre la danza? «Il giardino, perché ho origini contadine e la terra mi è sempre piaciuta. La cura della casa, che a volte esercito con fin troppa esigenza. I miei due nipoti, Giovanni e Gioele, figli di mio figlio Francesco, e la figlia di mia nipote Barbara, Lelia. Vado in giro, se serve al supermercato. Lavo i piatti. Non mi consideri una santa sull’altarino, una che neppure è capace di camminare. La gente mi ferma e mi tratta come un’amica. Certo i telefonini che scattano le foto un po’ di noia la danno. Ma meno male che ci sono i fan. A dimostrare che tutto questo tempo non è passato per niente». Egle Santolini, La Stampa 20/8/2016