Giuseppe Videtti, la Repubblica 20/8/2016, 20 agosto 2016
“LA MIA CASA È IN OGNI LUOGO” – [Intervista a Daniele Silvestri] – Le ville nascoste dalla vegetazione sono allineate lungo strade e incroci tutti uguali, musica commerciale ronza dai bar estivi simulando un piacevole effetto jukebox mentre le prime famiglie si avviano in bici verso la spiaggia e una cicala inizia a frinire aspettando il caldo di mezzogiorno per unirsi al coro
“LA MIA CASA È IN OGNI LUOGO” – [Intervista a Daniele Silvestri] – Le ville nascoste dalla vegetazione sono allineate lungo strade e incroci tutti uguali, musica commerciale ronza dai bar estivi simulando un piacevole effetto jukebox mentre le prime famiglie si avviano in bici verso la spiaggia e una cicala inizia a frinire aspettando il caldo di mezzogiorno per unirsi al coro. Daniele Silvestri, 48 anni compiuti il 18 agosto, ha scelto Fregene, sul litorale romano, come laboratorio per il mestiere di cantautore che esercita da oltre vent’anni con rigore e discrezione, una disciplina che ha ereditato dal padre Alberto, sceneggiatore e autore televisivo. E pur con un album (Acrobati, il nono da quando nel 1994 trionfò al Premio Tenco) in cima alle classifiche, un singolo ( Pochi giorni) in heavy rotation, un tour teatrale che ha radunato 35 mila persone e uno estivo ancora in corso, può permettersi il lusso di uscire di casa praticamente indisturbato, bermuda e infradito, e restarsene in panciolle e bene in vista nel suo caffè preferito. Per lui, qui, è estate tutto l’anno, il mare d’inverno è tutt’altro che un film in bianco e nero visto alla tivvù. Strano rifugio per un ex liceale del Mamiani, cresciuto a Roma nel quartiere Prati, a ridosso di Via Asiago, che all’epoca era il cuore nevralgico di Radiorai. «Sono arrivato a Fregene a vent’anni senza aver mai pensato al mare come a un posto interessante », racconta, «non avrei mai pensato di abbandonare la città». Poi un paio di viaggi in Sicilia mi spalancarono gli occhi – e il cuore – su un’altra dimensione. Prima di allora Fregene era solo il posto in cui io e i miei venivamo d’estate, un fazzoletto di sabbia per la pallavolo». Accadde, a un certo punto, che la famiglia, «quando mio padre si era finalmente risollevato da una situazione economica piuttosto precaria», decise di acquistare una casa al mare. Daniele accompagnò i genitori, annoiato e senza nessuna curiosità. «Ma nel momento stesso in cui entrammo qui dove ora vivo gli occhi mi brillarono alla vista di quei grandi spazi nel seminterrato. Avevo già deciso che quello sarebbe stato il mio studio. Così presi ad assillare i miei affinché non si lasciassero sfuggire “l’occasione”. Il giorno in cui ebbi finalmente in mano le chiavi, riempii la macchina di strumenti, caricai un materasso e una borsa con un paio di jeans, una t-shirt e un pigiama e traslocai. Dal 1996 non sono mai più tornato a Roma. Sono stato conquistato da un rapporto con la natura totalmente diverso. Qui il cielo, che da adolescente vedevo a riquadri tra lo skyline dei palazzi, è diventato il mio padrone. Qualche tempo dopo, per avere maggiore libertà, presi un’altra casa proprio sulla spiaggia, dove ora vivono i miei due figli più grandi con la loro madre, e il mio rapporto con il mare divenne più forte, intenso, irrinunciabile. Luce, buio, freddo, caldo sono elementi che nella dimensione urbana vivi con un certo automatismo. Meno male, dirà qualcuno. Ma io non sono sicuro che sia giusto così. Preferisco confrontarmi quotidianamente con il tempo che passa, con i fenomeni metereologici, con le mille informazioni che arrivano dall’esterno. Non ho un’indole bucolica, non sono esageratamente poetico né inguaribilmente romantico, ho semplicemente verificato sulla mia pelle che un contatto più diretto con la natura è rigenerante. In qualsiasi stagione. Mio figlio, che ha quattordici anni, ovviamente non è d’accordo, smania per iniziare il liceo a Roma, che per lui è un mondo quasi ignoto, dunque attraente». Ai tempi di scuola Silvestri viveva con la famiglia in un appartamento in Via Durazzo. Lo spazio che anche allora chiamava “casa” era esiguo, ma i sogni e le fantasie che lo abitavano erano sconfinati. «La mia camera era anche lo studio di mio padre. I miei ricordi sono tutti legati a quella stanza, lì dentro c’era il mio mondo. In un angolo, il mio letto a una piazza e mezza, sovrastato dalla scrivania di mio padre, un ripiano bianco appoggiato su due cavalletti, stracolma di carte e di libri. La libreria, con migliaia di volumi accatastati su tre file, occupava un’intera parete. In un angolo, accanto al balcone che affacciava su Monte Mario, avevo sistemato il giradischi – un po’ di vinili di mia madre e le prime cose che cominciavo ad ascoltare. Disteso sul letto ero sovrastato da questa sconfinata biblioteca, mi addormentavo leggendo e rileggendo i titoli sulle coste. Me ne bastavano una mezza dozzina per cominciare a viaggiare con la fantasia e … sognare. I più bei ricordi sono legati a tutte quelle lettere, parole, nomi, luoghi di cui non sapevo nulla. Il “carattere” di quella stanza ha certamente influenzato tutte le mie successive residenze. Qui, nella casa di Fregene, il mio mondo è rimasto nel piano interrato, dove lo sistemai alla meglio il primo giorno. Seminascosta c’è una stanzetta, che chiamo lo studiolo, il mio archiviotto segreto, con tutti i volumi raccolti da quando ho cominciato ad appassionarmi alla lettura, libri di fantascienza, saggi, romanzi, e qualche lettera scritta a qualche fidanzata. Non ci entro spesso, ma ho bisogno di sapere che c’è. È la mia unica debolezza. Se non ci fosse…boh, forse sarebbe la volta che cresco davvero, oppure mi perdo per sempre». Raccontato così, Silvestri sembrerebbe un artista morbosamente legato ai suoi spazi, esageratamente schiavo di una routine da cantautore pantofolaio. Ma La mia casa, un brano del suo ultimo album, svela un’attitudine diversa, una curiosità da esploratore, un’irrefrenabile vocazione al viaggio. «La verità è con un paio di libri in borsa e una chitarra io mi sento a casa ovunque», confessa. «Sono stanziale, mi piace sentirmi protetto nel mio piccolo mondo, ma al contempo amo viaggiare, spostarmi, conoscere luoghi e culture, soddisfare delle curiosità, scoprire delle storie – mi affascina l’essere umano, anche quando è orrendo – ci sono dei luoghi in cui tutto questo si respira in maniera particolarmente forte, ed è lì che mi sento più a casa. In fondo siamo la specie animale con maggiore capacità di adattamento, e lo siamo anche dal punto di vista cerebrale, intellettuale, dei sentimenti, non solo fisico. Nella canzone parlo della misteriosa Teotihuacan e di Lisbona, una città dove l’eco delle musiche ti dà i brividi anche se non ami il fado. E ti senti a casa. Mi piaceva scrivere una canzone che raccontasse questo desiderio, sentirmi a casa in ogni luogo, anche come reazione a chi pretende di paralizzarci con la paura, di indurci a erigere muri e a barricarci (nella canzone si parla anche di Parigi e del Bataclan, oltre che di Camden Town, Marrakesh, Berlino, Istanbul, Favignana e, ovviamente, Roma)». Lisbona, però, ha un posto speciale nel suo cuore. «Scrivendo La mia casa mi sono ricordato che una volta da adolescente chiesi a mio padre quale fosse la città più bella che avesse visitato. Lisbona, rispose senza indugio. Lui di musica non capiva niente ma di parole tantissimo, mi è capitato più volte nella vita di camminare sulle sue orme. A Lisbona andò, scrisse e trovò ispirazione. Anni fa, poco prima che morisse (nel 2001), mi fermavo spesso con la macchina sotto un tiglio sul Lungotevere Prati a strimpellare la chitarra. Ho poi scoperto che era lo steso punto dove lui si rifugiava a scrivere trent’anni prima, quando ancora non aveva un mestiere vero e proprio ma era già scrittore fino al midollo. Anche quella è la mia casa». Giuseppe Videtti, la Repubblica 20/8/2016