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 2016  agosto 20 Sabato calendario

APPUNTI PER L’APERTURA SULLA SIRIA PER IL FOGLIO ROSA – UGO TRAMBALLI, IL SOLE 24 ORE 20/8 – Dopo Aylan Kurdi su una spiaggia curda, Omran Daqneesh innocentemente stupito in mezzo alle macerie di Aleppo: fra l’uno e l’altro, migliaia di altri bambini che non sono stati fotografati né filmati

APPUNTI PER L’APERTURA SULLA SIRIA PER IL FOGLIO ROSA – UGO TRAMBALLI, IL SOLE 24 ORE 20/8 – Dopo Aylan Kurdi su una spiaggia curda, Omran Daqneesh innocentemente stupito in mezzo alle macerie di Aleppo: fra l’uno e l’altro, migliaia di altri bambini che non sono stati fotografati né filmati. Dalla tragedia alla retorica niente, nemmeno la pietà, riuscirà a fermare il massacro della città siriana. Per farlo, per fermare qualcosa che sembra ineluttabile, noi dovremmo mobilitarci come non possiamo né vogliamo; russi e americani cancellare la loro disputa senza fine; le piccole potenze locali dovrebbero parlarsi con umiltà e i siriani – regime e milizie avversarie – guardarsi negli occhi. Ma tutto questo non può accadere. La scorza del conflitto è troppo dura per essere penetrata dallo sguardo di Omran. Di fronte alla Grande Incomprensione di tanta follia neanche papa Francesco riesce a evitare del tutto la retorica, parlando di terza guerra mondiale. Un pontefice polacco o tedesco non avrebbe mai fatto simili paragoni: a loro sarebbe stato molto chiaro cosa sia una guerra mondiale, e quanto di peggio settant’anni fa noi europei abbiamo fatto ai nostri Alan e Omran, milioni, non migliaia. L’affermazione più scontata del nostro orrore è, come sempre: «Dobbiamo fermare la tragedia!». Gli italiani che credono di poter realizzare questo imperativo, sono pronti a far partire la Folgore, il San Marco, la brigata Sassari e altre migliaia di donne e uomini per la Siria? Siamo pronti ad acquistare i famosi F-35 e cambiare radicalmente le nostre tradizionali regole d’ingaggio in zone di guerra per liberare donne e bambini dall’inferno di Aleppo che segue quello di Homs, di Sebrenica, Sarajevo, Beirut, Saigon, Varsavia? (L’elenco è quasi senza fine). Evidentemente no. La soluzione è politica!, aggiungiamo tutti. «Con chiunque io tratti, mi sento sempre dire che non c’è una soluzione militare», diceva qualche giorno fa Staffan de Mistura, l’ex vice ministro degli Esteri italiano, ora negoziatore Onu del conflitto siriano. «Il risultato? Guardate Aleppo: c’è stato un attacco, un contrattacco e chi paga il prezzo è la popolazione civile. Questo è l’aspetto più cinico del conflitto». Ecco perché la battaglia di Aleppo non può essere fermata. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è stato creato per mettere le guerre sotto un grande riflettore universale, non per risolverle. Il sistema dei veti, dei voti e delle alleanze esiste perché il potere di decidere resti nelle mani dei combattenti e dei loro padrini. Fra luci e ombre, russi e americani stanno collaborando. Ma al Consiglio di sicurezza di New York non c’è nulla che riguardi la Siria, su cui siano d’accordo. Nel suo quartier generale di Ginevra, de Mistura è riuscito a mettere insieme russi e americani, militari ed esperti, che insieme organizzano gli aiuti umanitari, a volte riescono a imporre cessate il fuoco, sfruttano le tregue per soccorrere i feriti. Fuori di lì le cose sono quelle che conosciamo: non c’è soluzione militare, dicono tutti, ma si combatte e si arma chi combatte. Sfiora il ridicolo l’offerta russa di una tregua di 48 ore a partire dalla settimana prossima. Come se ad Aleppo ci fosse tempo, come se nelle feste comandate i piccoli Omran potessero giocare nei giardini della città. I russi non vogliono liberare tutta la Siria per conto di Bashar Assad, sanno che sarebbe militarmente troppo dispendioso: il loro obiettivo è garantire al regime il controllo della costa e delle grandi città: Damasco, Homs, Latakia e ora Aleppo (Raqqa e l’Isis sono un’altra storia, un altro capitolo, quasi un altro conflitto). Per questo la stanno bombardando. Almeno su Aleppo, gli americani non hanno le idee chiarissime: continuano a non sapere se l’aiuto ai ribelli sia anche un aiuto agli islamisti radicali; se Jabat al Nusra abbia cambiato solo il nome o se davvero non sono più qaedisti. Ma prima di tutti ci sono i veri protagonisti del conflitto: i siriani e le potenze regionali. Sono loro ad essere andati troppo avanti nel massacro e nell’odio che il sangue coltiva, per potersi fermare e trattare. Come dal primo giorno, per loro la guerra civile continua ad essere un gioco a somma zero: io vinco, tu perdi. Niente compromessi. Un tempo, quando morivano troppi bambini, quando il massacro non era sopportabile, americani e sovietici moderavano i loro clientes, dopo averli armati e aizzati. Oggi questo potere non l’hanno più, nemmeno Putin. Con la sua aviazione il presidente russo può impedire a Bashar Assad di perdere ma non può obbligarlo a fermarsi e trattare. Gli americani hanno forse dubbi ancora più forti sulla vera identità delle milizie che si oppongono al regime. Si fidano solo dei curdi, formidabili combattenti ma un ostacolo per una soluzione negoziata del caos siriano. Intanto ad Aleppo altri Omran Daqneesh moriranno o non avranno la fortuna di essere filmati nel loro pietoso stordimento. Come era già accaduto anche a Homs, dove il massacro è terminato solo nel 2014 ma per un cessate il fuoco che potrebbe saltare, in città ci sono tutti: regime, opposizioni laiche e religiose, curdi, qaedisti, Isis e spie di tutti i Paesi. Per questo ad Aleppo si continuerà a morire e a ignorare la nostra retorica della pietà. *** IL POST 19/8 – Da mercoledì sera sta circolando moltissimo un’immagine che diversi importanti giornali internazionali hanno definito un simbolo della sofferenza dei siriani e delle atrocità della guerra che si sta combattendo in Siria da più di cinque anni: mostra un bambino estratto vivo dalle macerie dopo un bombardamento ad Aleppo e seduto dentro un’ambulanza, con uno sguardo disorientato e scioccato. Non si è ancora capito chi abbia compiuto quell’attacco aereo – forse l’aviazione del presidente siriano Bashar al Assad, o forse i russi – ma di certo c’è che nelle ultime settimane la battaglia per Aleppo ha raggiunto nuovi livelli di intensità e violenza. Oramai della guerra in Siria si parla sempre meno – spesso ci si ricorda che esiste solo quando vengono diffuse immagine particolarmente forti, come quella del bambino di Aleppo, per dimenticarsene poco dopo – ma siamo ancora molto lontani da una possibile fine del conflitto. Nelle ultime settimane ci sono state importanti novità che hanno complicato ancora di più gli schieramenti di chi combatte, e che sembrano avere allontanato ulteriormente l’ipotesi di una qualche forma di tregua. C’è stato un peggioramento della situazione ad Aleppo, ma anche i primi veri scontri tra Assad e i curdi nel nord-est della Siria. Poi si è parlato di altre due notizie all’apparenza minori, ma in realtà molto importanti: il cambio di nome del Fronte al Nusra, il gruppo che fino a poche settimane fa rappresentava al Qaida in Siria, e la decisione dell’Iran di concedere una sua base aerea alla Russia, da usare per bombardare i ribelli in territorio siriano. E c’è stata anche l’ennesima sconfitta militare dello Stato Islamico, che è sempre più in difficoltà nonostante gli attacchi terroristici in Europa. Aleppo, la città più popolosa della Siria, è contesa dall’esercito fedele al presidente Assad e dai ribelli dell’opposizione. Assad – con l’aiuto degli aerei da guerra russi e dei combattenti di Hezbollah, la milizia sciita libanese alleata dell’Iran – continua a controllare la parte occidentale di Aleppo; i ribelli controllano la parte orientale. Se tutto questo sembra particolarmente intricato, è perché lo è: la guerra in Siria non è una guerra tra due eserciti ma tra decine di soggetti diversi con diverse alleanze internazionali, che si combattono tutti contro tutti, che a volte si alleano temporaneamente per poi combattersi di nuovo, che si alleano solo in certe zone e si combattono in altre. In generale, si può dire che il regime di Assad combatte per restare al potere, e con livelli diversi di intensità e collaborazione è sostenuto dalla Russia, dall’Iran e da Hezbollah; i ribelli combattono per rovesciare Assad, e sono sostenuti dalla Turchia e in piccola parte dagli Stati Uniti (ma ora non più tanto); i curdi sono sostenuti dagli Stati Uniti e combattono soprattutto lo Stato Islamico per conquistare i territori che rivendicano da secoli; le forze che fanno riferimento ad al Qaida combattono soprattutto Assad e lo Stato Islamico, a volte anche i ribelli. La battaglia per Aleppo Ad Aleppo la situazione dal punto di vista militare è piuttosto fluida, anche se l’attuale divisione della città è abbastanza stabile dal 2012. Le novità delle ultime settimane hanno riguardato piuttosto le vie di rifornimento usate dai ribelli per far entrare nella parte orientale di Aleppo sia beni di prima necessità che aiuti militari. L’esercito siriano e i russi sono riusciti ad accerchiare il territorio controllato dai ribelli e interrompere la via di rifornimento che collegava Aleppo alla Turchia, paese alleato dei ribelli e nemico del regime di Assad, togliendo anche la possibilità per centinaia di migliaia di persone di lasciare la città. Oggi la situazione umanitaria ad Aleppo è disastrosa (un po’ meno nella parte controllata dal regime di Assad): siriani e russi colpiscono spesso zone abitate dai civili, gli ospedali sono sovraccarichi di lavoro, mancano i beni di prima necessità e negli ultimi giorni sono emerse delle testimonianze che hanno parlato di nuovi attacchi con sostanze chimiche. C’è da considerare anche un’altra cosa: la potenza di fuoco del fronte di Assad è aumentata negli ultimi giorni, per la decisione dell’Iran di concedere l’uso di una sua base aerea militare alla Russia. Gli aerei russi sono in grado oggi di bombardare i ribelli siriani – soprattutto quelli che combattono nella provincia di Aleppo – facendo partire i loro aerei da molto più vicino rispetto a prima, e trasportando bombe più grandi e potenti. Si sta aprendo un nuovo fronte di guerra? Di solito l’ipotesi che si apra un nuovo fronte di guerra per il conflitto siriano non è una notizia da prima pagina, visto che ce ne sono a decine. Ma un possibile fronte di guerra tra esercito di Assad e curdi è una cosa notevole e rilevante. Finora i due schieramenti si sono lasciati stare, diciamo così, per ragioni di opportunità: il regime di Assad – impegnato soprattutto contro i ribelli sunniti – ha tacitamente accettato la presenza di un territorio autonomo gestito dai curdi nel nord della Siria, mentre i curdi si sono concentrati nel ricacciare indietro lo Stato Islamico dai territori su cui volevano stabilire un’influenza, senza rompere le scatole ad Assad. Intese di questo tipo non sono nuove nella guerra in Siria, dove tutti combattono contro tutti e dove per le parti in causa è necessario concentrarsi su un fronte alla volta: per esempio in passato si era parlato di un’intesa simile anche tra regime di Assad e Stato Islamico. Negli ultimi giorni alcuni aerei da guerra siriani hanno però cominciato a bombardare Hasakah, una città nel nord-est della Siria sotto il controllo dell’amministrazione autonoma curda siriana. Il Wall Street Journal ha scritto che il governo siriano ha cominciato i bombardamenti per paura che i curdi diventino troppo forti, soprattutto dopo la loro recente vittoria militare a Manbij, una città sotto il controllo dello Stato Islamico. È anche difficile dire cosa potrebbe succedere nel caso dell’apertura di un fronte di guerra tra regime siriano e curdi: un effetto potrebbe essere quello di indebolire i curdi nella loro guerra contro lo Stato Islamico. Jabhat al Nusra non si chiama più Jabhat al Nusra Il gruppo conosciuto come rappresentante di al Qaida in Siria ha annunciato di essersi diviso da al Qaida e di avere adottato un nuovo nome: ora si chiama Jabhat Fateh al Sham (che significa “Fronte per la conquista della Siria”). Uno dei leader del gruppo, Mustafa Mahamed, ha spiegato che Jabhat Fateh al Sham non farà più rapporto ad al Qaida e si muoverà in completa autonomia. La divisione non è stata traumatica ed è stata concordata con al Qaida per ragioni strategiche (se ne parlava dal 2013). Charles Lister, analista per il Middle East Institute, ha detto a CNN che «al Qaida come organizzazione internazionale sta cambiando. Sta diventando più un’idea che un’organizzazione. Sta cercando di decentralizzare il jihad, di dare più autonomia agli affiliati con lo scopo di rendere i governi jihadisti più realizzabili». Nel caso specifico della guerra in Siria, c’è anche un altro motivo: i ribelli più moderati – tra cui diversi gruppi islamisti – non hanno mai visto di buon occhio l’estremo radicalismo di al Qaida e le sue ambizioni internazionali; allo stesso tempo però apprezzavano l’organizzazione di Jabhat al Nusra, uno dei gruppi più efficaci nel combattere il regime di Assad. Con questa nuova configurazione – basata sull’idea di un gruppo più siriano e slegato da al Qaida – Jabhat Fateh al Sham può aspirare di allearsi con più facilità ai gruppi ribelli che combattono contro Assad, prendendo anche il ruolo di guida in diverse battaglie. Per l’Occidente non è necessariamente una buona notizia: c’è il pericolo che il fronte jihadista si rafforzi, a discapito di quello più moderato. I guai dello Stato Islamico Lo Stato Islamico in Siria sta passando un brutto periodo e oggi non sembra essere in grado di ribaltare questa tendenza. La scorsa settimana ha perso il controllo della città settentrionale di Manbij, riconquistata dai curdi siriani. La riconquista di Manbij è considerata un importante passo per riprendere Raqqa, la capitale dello Stato Islamico in Siria, un obiettivo di cui la coalizione guidata dagli Stati Uniti parla da tempo ma che finora si è dimostrato impraticabile. Nonostante gli attentati compiuti in Europa, lo Stato Islamico ha perso forza e terreno in Siria, sta soffrendo parecchio in Iraq ed è sul punto di perdere il controllo di Sirte, la principale città che controlla in Libia. Questo non vuol dire che la guerra contro lo Stato Islamico finirà presto. E anche se la coalizione internazionale e i curdi dovessero sconfiggere il gruppo estremista, ci sarebbe tutto il resto della Siria a continuare a combattere. *** GIORGIO DELL’ARTI, LA GAZZETTA DELLO SPORT 19/8 – C’è la foto di questo bambino siriano di cinque anni, Omran Daqneesh, estratto vivo dalle macerie di Aleppo appena bombardata, e poi sistemato su una sedia color arancione dell’ambulanza. Bambino coperto di polvere, i pantaloncini corti, le ginocchia e le gambine luride, si guarda intorno senza espressione, alla sua destra una serie di classificatori, alla sua sinistra una valigetta anti-incendio. La freddezza del contesto e l’immobilità del bambino si rovesciano nel loro contrario, in un ritratto della disperazione. Nella sistematicità con cui si sta polverizzando Aleppo c’è qualcosa di burocratico, di maniacale, di folle. La foto è subito diventata virale in rete, è subito assurta a simbolo della Siria oggi, un paese azzerato dall’intreccio tra guerra civile, ambizioni del Califfo, mire russe, iraniane, americane, cinesi e della malavita mondiale. • Non è la prima foto di un bambino siriano che fa il giro del mondo. No, nei vari fotomontaggi che gli internauti hanno costruito (Omran seduto tra Obama e Putin, Omran sullo sfondo di un parlamento), ce n’è uno che affianca la sua foto a quella del bambino curdo Khalid Albain, il cui cadavere venne fotografato sulla spiaggia turca di Bodrum, morto mentre stava cercando di fuggire. L’ideatore dell’accostamento ha messo come titolo la frase: «Choises for sirian children», ossia «Scelte a disposizione dei bambini siriani». Sotto Omran: «If you stay», sotto Khalid: «If you leave». La morte, cioè, ti aspetta dappertutto. • Poi c’è la foto dei bambini ammazzati dal Sarin. Già, il gas nervino. I ribelli sostenevano che l’aveva adoperato Assad. Assad sosteneva che l’avevano adoperato i ribelli per sollecitare l’intervento americano. Obama aveva promesso che se Assad avesse adoperato i veleni chimici... Poi preferì non intervenire. Io però mi ricordo di un’altra foto: un bambinello di otto o nove anni a cui era stato affidato una specie di cannone e che non riusciva a reggerlo. Un’immagine tragicamente grottesca. • Sa che non mi ricordo più come è cominciata questa guerra? È cominciata nel 2011, quando varie formazioni ribelli manifestarono contro il presidente siriano Assad (esattamente Assad II) chiedendo riforme, democrazia e tutto il resto. Si rispose a queste manifestazioni col fuoco e presto scoppiò la guerra civile. Complicata fin dall’inizio: quelli che noi definiamo con la semplice parola «ribelli» erano in realtà gruppi e gruppuscoli di ogni tipo, che nel corso di questi anni si sono frammentati ancora di più, uno schieramento che andava (schematizzo) dai liberali all’occidentale fino agli estremisti islamici più terribili, con gruppi che si riconoscevano nelle formazioni terroristiche allora in auge, come al Qaeda o al Nusra. Dall’altra parte, Assad era quello che era: un dittatore sanguinario, sciita secondo il credo alawita, sostenuto da Russia, Iran e Cina. Gli americani si adeguarono alla teoria espressa allora da Edward Luttwak: poiché le parti in campo sono tutte anti-americane ci conviene manovrare per il pareggio, perché chiunque vinca sarà un problema per noi. Quindi, dare una mano (segretamente) ad Assad quando stanno prevalendo i ribelli, dare una mano ai ribelli quando sta prevalendo Assad. Una strategia che ha avuto amaramente successo. Trecentomila morti, cinque milioni di profughi, un paese raso a zero. E la soluzione non si vede. • Quando compare Al Baghdadi? Nel 2014. E con questa idea inedita: costruire uno Stato nuovo unendo Siria e Iraq. Il Siraq, o l’Isis (Stato islamico di Siria e Iraq), o il Daesh. Al Baghdadi falsifica le carte per potersi proclamare califfo e si manifesta al mondo con un video girato nella moschea di Mosul (6 luglio 2014) in cui grida che «l’annuncio del Califfato è un dovere di tutti i musulmani», in cui esalta le «vittorie dei musulmani», in cui ammonisce: «coloro che possono immigrare nello stato islamico devono farlo perché l’immigrazione nella casa dell’Islam è un dovere. Affrettatevi, o musulmani, a venire nel vostro Stato. La Siria non è per i siriani e l’Iraq non è per gli iracheni. Questa terra è per i musulmani. Tutti i musulmani. Questo è il mio consiglio. Se lo seguirete, conquisterete Roma e diventerete padroni del mondo, con la volontà di Allah». Quaranta giorni dopo, col giornalista James Wright Foley, cominciarono le decapitazioni pubbliche. • A che punto siamo adesso? Dopo aver conquistato un territorio enorme a cavallo tra Iraq e Siria, il Califfo è ora in rotta, ma resiste ad Aleppo, città massacrata adesso dai russi e dai curdi. I russi fanno partire le loro missioni addirittura dall’Iran. Erdogan, che fino a poco tempo fa avversava Assad e litigava con Mosca, ha fatto pace con Putin e un asse formidabile formato da russi, cinesi, iraniani e turchi si appresta a decidere che fare di quel paese a guerra finita. Gli americani per ora, anche se formalmente guidano una coalizione di 60 paesi, sembrano diplomaticamente fuori gioco. Intanto, sui nostri tavoli, continuano a piovere foto di bambini. *** DANIELE RAINERI, IL FOGLIO 20/8 – Fonti del Foglio a Manbij raccontano cosa succede nell’ultima città liberata dallo Stato islamico, a nord di Aleppo. Le fonti preferiscono non essere citate per nome perché anche se sulla zona non grava più il controllo del gruppo estremista, che accusava i dissidenti di essere spie e li puniva con la morte, c’è un clima nervoso. Manbij poggia sulla grande “faglia etnica” siriana che divide gli arabi e i curdi – divide si fa per dire, non ci sono linee disegnate con la riga – e questo vuol dire che dopo la liberazione c’è stata una settimana di grande festa e che però ora comincia un esperimento di coabitazione mista e di autogestione con pochi precedenti. Il governo di Damasco “quassù non arriva, come se non esistesse più da quattro anni. I curdi sospettano degli arabi perché li considerano potenziali fiancheggiatori dello Stato islamico. La liberazione della città è cominciata con un convoglio lunghissimo di auto di leader e di combattenti dello Stato islamico che è uscito dalla città facendosi scudo con migliaia di persone: il convoglio viaggiava a passo d’uomo e a destra e a sinistra c’erano file di civili a piedi, usati come scudi umani contro i bombardamenti aerei. E infatti per la prima volta gli aerei americani si sono trattenuti dal colpire un obiettivo così facile e non hanno sganciato bombe per non fare una strage. C’è chi accusa quei civili – non tutti, una parte – di non essere innocenti sequestrati qualche ora per essere usati in quel modo, ma complici, e di avere coperto la fuga degli estremisti verso Jarablus (un’altra città in mano allo Stato islamico, vicino al confine con la Turchia)”. Gli arabi sospettano dei curdi perché temono che abbiano un piano egemonico, trasformare tutto il nord della Siria in un nuovo Kurdistan autonomo, come in Iraq. “I combattenti curdi stanno esercitando una censura cautissima, non vogliono problemi, fanno attenzione ai giornalisti che girano e infatti in città non ce ne sono molti. Hanno bloccato alcune famiglie che devono ancora rientrare nelle loro case, bisogna vedere se la questione si sistema”. Manbij è stata conquistata dalle Forze siriane democratiche (Sdf), un assortimento di combattenti in maggioranza curdi che include anche arabi. Le Sdf hanno provato di essere le più efficienti nella lotta allo Stato islamico e sono appoggiate dall’America, che aiuta con rifornimenti di munizioni e soprattutto con i bombardamenti dei jet (le bombe lanciate dagli aerei sono il vantaggio che consente alle Forze democratiche a terra di prevalere sullo Stato islamico). La liberazione è stata immortalata in foto di donne che si sbarazzavano del velo – sul volto – e di uomini che accorciavano le barbe e fumavano sigarette. Pochi giorni dopo le Forze democratiche hanno ceduto il controllo della città a due organi locali, il Consiglio militare di Manbij e il Consiglio civile, e ora la “fase civile” è osservata con attenzione perché farà da modello per la liberazione delle altre città nell’area dove il governo di Damasco è troppo debole per reclamare la restituzione del territorio – come Jarablus, al Bab e anche Raqqa, la capitale dello Stato islamico. Il presidente Bashar el Assad è per principio contrario a questa soluzione, anche se non lo dichiara esplicitamente per non rovinare il clima da resistenza popolare contro lo Stato islamico. Tuttavia, ad aprile ha promesso di riprendere tutta la Siria, shibr shibr, che in arabo vuol dire “ogni pollice”. Potrebbe andare a finire come nella vicina città di Hasaka, dove ieri i jet del Pentagono hanno impedito agli aerei siriani di bombardare per il secondo giorno consecutivo i combattenti curdi, “colpevoli” di essere ostili alle truppe del governo che controllano un paio di quartieri. *** IL FOGLIO 19/8 – Prima Aylan, il bimbo curdo riverso su una spiaggia turca. Adesso, dalla Siria, le immagini terribili di Omran, estratto dalle macerie della città-martire di Aleppo. Da William E. Smith a Cartier- Bresson, l’immagine giornalistica sembra dare l’idea della massima aderenza alla verità. Ma è davvero così? Passata l’emozione si comprende quanto queste cartoline dell’umanità ferita, queste foto senza didascalia, siano simulacri della nostra abulia, del nostro disimpegno. Non parlano. Sono afone. Col puro dolore non ci facciamo niente. Aylan e Omran sono invece due vittime della ritirata occidentale che ha consentito la nascita dell’Isis e la destabilizzazione del medio oriente (no, cretino collettivo, non è stata la guerra di Bush, ma la fuga a gambe levate di Obama). Lasciare la umma islamica in balìa di se stessa, come hanno fatto Stati Uniti ed Europa negli ultimi otto anni, produce gli Aylan e gli Omran, ma anche lo Stato islamico e il jihad sul suolo europeo. In questo senso quella fotografia ci riguarda, non come monito contro “le guerre”, neppure come stigmate della nostra colpa, ma come rimprovero contro il nostro abbandono del medio oriente. *** DANIELE RAINERI, IL FOGLIO 17/8 – Cinque mesi esatti dopo il ritiro russo dalla Siria – annunciato dal presidente russo Vladimir Putin il 15 marzo – anche alcuni bombardieri strategici a lungo raggio Tu-22 e Su-34 di Mosca sono arrivati a bombardare in Siria partendo da una base vicino Hamedan, in Iran. E’ la prima volta che la Repubblica islamica accetta di fare da base per le operazioni militari di un governo straniero, e questo conferma la tenuta dell’alleanza di Mosca e Teheran a fianco del presidente siriano Bashar el Assad nella guerra civile. Gli aerei russi non hanno mai smesso dal 1° settembre 2015 di effettuare missioni militari in Siria, partendo da alcuni basi siriane e da altre in Russia. Ora l’uso della pista iraniana permette loro di risparmiare tempo di volo e carburante, tagliando i costi. Questa accelerazione dei bombardamenti coincide con un momento di crisi del governo siriano sul terreno, perché la settimana scorsa un assortimento di gruppi armati anti Assad che comprende un po’ tutti, dagli eredi di al Qaida rinominati come Esercito per la conquista del Levante fino ai gruppi che hanno superato le selezioni del governo americano per ricevere aiuti e armi, ha rotto l’assedio di Aleppo e ha aperto un varco di quasi tre chilometri nel perimetro assadista. In questo modo, i gruppi hanno ribaltato la situazione e ora minacciano a loro volta di assediare i civili nella parte ovest di Aleppo. I bombardieri hanno colpito anche la regione di Idlib, dove lo Stato islamico non c’è, e di Deir Ezzor, dove lo Stato islamico è il solo gruppo a dominare incontrastato. E’ probabile che questa mossa di decollare dall’Iran – e sorvolare lo spazio aereo iracheno – sia stata decisa a un incontro a fine giugno tra i ministri della Difesa russo, siriano e iraniano. (dan.rai), Il Foglio 17/8/2016 *** MARCO VALSANIA, IL SOLE 24 ORE 20/8 – Siria, tragica spina nel fianco della politica estera di Barack Obama e grande incognita sul futuro della diplomazia americana oggi anche ostaggio di una dura campagna elettorale. Prima le scioccanti immagini di un bambino coperto di sangue e polvere hanno nuovamente portato sotto gli occhi di tutti la brutalità d’una guerra ormai infinita, con migliaia di vittime e milioni di rifugiati in cinque anni. Poi i missili lanciati da navi russe nel Mediterraneo sulla martoriata città di Aleppo - i primi tre cruise partiti dal Mare Nostrum e non dal Mar Caspio - hanno acceso i riflettori sul crescente dramma strategico: l’ampliamento delle operazioni militari e delle mire strategiche di Mosca nel Paese e nello scacchiere mediorientale. Il contesto che circonda gli ultimi sviluppi giustifica il nervosismo e la preoccupazione - al contempo politica, militare e umanitaria - della Casa Bianca. Solo pochi giorni fa Vladimir Putin ha siglato un nuovo patto con l’Iran, per far decollare missioni della sua aviazione dirette in Siria da una base militare di Teheran. Ed è fresco l’incontro tra Mosca e una Turchia ai ferri corti con l’Occidente. Una rete che mette in dubbio quanto Mosca intenda o sia tenuta davvero ad agire nella regione insieme a Stati Uniti e Occidente e quanto spazio abbia invece conquistato per le proprie mire. Il rischio, o meglio lo spettro, è quello di essere ancora una volta messi in scacco da Mosca, come già accaduto troppo spesso nella partita su Damasco. Gli interventi sul campo di Putin, nonostante ripetute promesse o accordi di tregua e cooperazione internazionale, hanno avuto finora chiari risultati riscontrati dall’intelligence americana: il sostegno a Bashar al-Assad, non tanto contro Isis, ma contro i ribelli al suo regime spesso invece formalmente spalleggiati dagli americani. Una recente avanzata dei ribelli proprio ad Aleppo si è arenata sui nuovi bombardamenti, anche se il Ministero della Difesa russo ha assicurato che l’obiettivo degli attacchi è stato l’ex Fronte al Nusra. Milizie, tuttavia, che dopo aver annunciato una rottura con Al Qaida hanno svolto un ruolo nei successi dei ribelli. Mosca ha adesso offerto una tregua di 48 ore ad Aleppo per la prossima settimana in modo da consentire aiuti umanitari, ma rimane da vedere cosa accadrà davvero prima, durante e dopo. Anche zone curde, alleati degli Stati Uniti, sono state intanto attaccate da forze siriane e evacuate, nonostante velivoli americani abbiano sorvolato l’area per proteggere i partner. L’escalation di combattimenti e violenze contro la popolazione civile provoca shock e appelli ma vede oggi la Casa Bianca stranamente impotente. Da quando Obama ha prima fatto scattare ultimatum contro Assad per poi ritirarli e cedere di fatto spazio all’iniziativa russa, la strategia americana, necessaria per combattere il terrorismo di Isis che ha messo radici nella regione, è parsa in seria difficoltà e a corto di soluzioni. Tanto da essere oggi considerata tra i punti più deboli - denunciata come un fallimento da nemici e amici - della campagna per far eleggere un nuovo presidente democratico, l’ex segretario di Stato Hillary Clinton, alla Casa Bianca. La miglior speranza di ritrovare una politica e un’azione militare efficaci potrebbe adesso, ancora una volta, dipendere dai rapporti di forza e diplomatici con Mosca, una posizione scomoda. L’attuale segretario di Stato John Kerry, durante incontri in luglio in Russia, ha raggiunto e pubblicizzato un accordo per coordinare interventi in Siria e stabilire cessate il fuoco. Un’intesa la cui messa in pratica Kerry ha ancora discusso negli ultimi giorni con la controparte Serghej Lavrov. Mosca ha finora giocato le sue carte su Assad mentre Washington, seppur indebolita, cerca una sua estromissione e una transizione democratica. Se l’accordo sulla carta possa davvero portare a risultati immediati e, ancor più, indicare una direzione incoraggiante rimane oggi soprattutto una speranza elusiva, sotto i missili cruise e davanti al volto insanguinato di un bambino . Marco Valsania *** IL POST 17/8 – Martedì un importante funzionario iraniano ha confermato che alcuni aerei da guerra russi sono partiti da una base aerea iraniana per colpire obiettivi militari in Siria. La base usata dai russi si trova nella provincia occidentale iraniana di Hamedan, vicino al confine con l’Iraq, e gli attacchi sono stati compiuti da bombardieri e cacciabombardieri russi. La notizia ha fatto rapidamente il giro del mondo: è la prima volta che un esercito straniero opera in Iran dalla Seconda guerra mondiale. Il nuovo accordo tra Russia e Iran, inoltre, mostra un livello di cooperazione tra i due paesi che non si era mai visto in passato. È anche uno sviluppo che preoccupa gli Stati Uniti, che in Siria stanno bombardando lo Stato Islamico (o ISIS) e da mesi stanno collaborando faticosamente con la Russia per evitare pericolose sovrapposizioni nello spazio aereo siriano. In altre parole, l’uso da parte dei russi di una base aerea iraniana non è solo una notizia che interessa gli addetti ai lavori: ha un significato politico enorme e potrebbe essere significativo per gli equilibri della guerra in Siria e per il futuro della Russia in Medio Oriente. Partiamo dall’inizio: da che parte stanno russi e iraniani Russia e Iran sono alleati del regime siriano di Bashar al Assad, che dal 2011 sta combattendo contro diversi gruppi di oppositori e ribelli. Nonostante i giornali italiani e internazionali abbiano spesso parlato di questa alleanza come di un blocco monolitico – soprattutto per la necessità di semplificare, visto il caos della guerra siriana – le differenze di interessi tra Siria, Iran e Russia ci sono sempre state. Il regime di Assad è interessato a sopravvivere: i suoi nemici sono i gruppi ribelli – alcuni dei quali appoggiati dall’Occidente – e in misura molto minore lo Stato Islamico. L’Iran vuole che Assad rimanga al potere, perché è il suo unico vero alleato in Medio Oriente: da parecchi mesi in Siria ci sono comandanti iraniani che collaborano con i militari dell’esercito fedele ad Assad e con Hezbollah, il gruppo sciita libanese alleato dell’Iran. La Russia vuole che a Damasco rimanga un regime che possa permettere ai russi di continuare a contare qualcosa in Medio Oriente (in Siria c’è l’unica base militare russa della regione), possibilmente guidato da Assad: finora gli aerei militari russi hanno bombardato i nemici di Assad – soprattutto i ribelli che operano nella Siria nord-occidentale – partendo dalla base militare di Mozdok, nel sud della Russia, e passando dal corridoio aereo che attraversa il Mar Caspio, l’Iran e l’Iraq. Per via della differenza degli interessi strategici in Siria, finora era sembrato che la Russia non desse un appoggio incondizionato al regime di Assad: alcuni giornali internazionali avevano parlato per esempio della possibilità che il presidente russo Vladimir Putin potesse scaricare Assad per sostenere un governo più “accettabile” dalla comunità internazionale ma comunque amico della Russia. Gli iraniani invece hanno mostrato un sostegno totale ad Assad, sia per la storica alleanza che lega i due paesi dalla rivoluzione khomeinista del 1979, sia per l’opposizione alla prospettiva di una Siria governata dai ribelli, che sono praticamente tutti di orientamento sunnita (l’Iran è un paese a maggioranza sciita, che ha sviluppato buona parte della sua retorica politica contro diversi paesi a maggioranza sunnita, come l’Arabia Saudita). A tutto ciò va aggiunta un’ultima cosa: i rapporti tra Iran e Russia – i due più importanti alleati di Assad – sono da tempo cordiali ma basati su una reciproca diffidenza. Anche dopo la svolta anti-Occidentale della rivoluzione del 1979, il regime iraniano è rimasto molto geloso della propria sovranità e molto ostile a qualsiasi interferenza di potenze esterne. Inoltre la Russia ha mostrato di fare scelte strategiche molto diverse da quelle dell’Iran, per esempio decidendo di estendere in Siria la cooperazione di intelligence con Israele, il principale nemico del regime iraniano. È per tutte queste ragioni che la concessione di una base militare aerea iraniana alla Russia è una notizia, e ha sorpreso anche il governo statunitense. John Limbert, un ex funzionario statunitense che ha lavorato per un periodo in Iran, ha detto al New York Times che una cosa del genere «non era mai successa nemmeno sotto lo scià», riferendosi al periodo precedente al 1979, quando l’Iran era governato da Mohameed Reza Pahlavi ed era un solidissimo alleato degli Stati Uniti. Nemmeno in quel periodo – durante il quale gli iraniani concessero agli americani l’apertura di alcuni punti di ascolto sul proprio territorio per spiare i russi – l’Iran accettò di autorizzare una maggiore presenza militare di una potenza straniera nel paese. Perché c’è stato l’accordo tra russi e iraniani Bisogna dire innanzitutto che potrebbe non essere la prima volta che i russi usano la base aerea iraniana di Hamedan: Long War Journal, un sito specializzato in guerre e terrorismo, ha scritto che alcune immagini satellitari analizzate dall’American Enterprise Institute mostravano la presenza di aerei russi a Hamedan già nel dicembre 2015. È comunque la prima volta che Iran e Russia decidono di rendere pubblica e ufficiale questa collaborazione. Non è chiaro nemmeno quando e chi abbia negoziato l’accordo: sembra che negli ultimi due mesi ci siano stati incontri di alto livello a cui ha partecipato anche Ali Shamkhani, il segretario del Supremo consiglio di sicurezza nazionale dell’Iran, il principale organo del governo iraniano che si occupa di sicurezza nazionale e difesa. I termini dell’accordo non sono stati resi pubblici né commentati ulteriormente: non si sa nemmeno se l’uso della base aerea sia temporaneo o definitivo. Chi ci guadagna e cosa Da un punto di vista militare, l’uso della base aerea di Hamedan fornisce alla Russia dei vantaggi notevoli. Finora i grandi bombardieri russi erano costretti a partire dal territorio russo, a quasi duemila chilometri di distanza, perché la base aerea russa in Siria – che si trova a Latakia, sulla costa occidentale – non può ospitarli. Da martedì partono da molto più vicino, cosa che gli permette di ridurre il tempo di volo del 60 per cento e di trasportare bombe molto più grandi e potenti. Cosa abbia ottenuto l’Iran in cambio, invece, non si sa. Diversi esperti ipotizzano che l’Iran abbia scambiato l’uso della sua base aerea per accordi sulla vendita di armi. Ruslan Pukhov, direttore del think tank moscovita CAST, ha detto al Wall Street Journal: «Ci sono state negoziazioni estese. Gli iraniani hanno chiesto forniture di armi a prezzi buoni, e noi [i russi] abbiamo fatto le nostre richieste, che probabilmente hanno incluso l’uso della base militare aerea iraniana». Konstantin von Eggert, analista politico russo, ha detto al New York Times: «La Russia ora vede l’Iran come un potente alleato nella regione e una fonte stabile di entrate per le sue industrie statali. Teheran è un ricco regime anti-americano in una regione strategicamente importante per gli Stati Uniti. Ci potrebbe essere di meglio per Putin?». Cosa significa l’accordo L’accordo – o quello che se ne sa – significa diverse cose. Primo: la Russia ha scelto di avvicinarsi di più ad Assad, superando almeno per ora quelle reticenze che avevano creato distanza tra i russi da una parte e i siriani e gli iraniani dall’altra. In altre parole significa che il fronte che combatte i ribelli in Siria (i ribelli, non lo Stato Islamico) è più unito di prima e può sfruttare una maggiore potenza di fuoco. È un punto fondamentale, soprattutto per come sta andando la guerra nelle ultime settimane e per le sconfitte subite dall’esercito di Assad nella provincia di Aleppo, nel nord-ovest della Siria, per mano dei ribelli. Secondo: gli Stati Uniti hanno fallito nel loro tentativo di allontanare la Russia dall’Iran e l’Iran dalla Russia. In un certo senso il fallimento è doppio, perché da mesi gli americani tenevano in piedi dei negoziati con i russi per trovare una forma di cooperazione in Siria. Diversi funzionari americani hanno detto che gli Stati Uniti sono stati avvisati della missione russa partita da Hamedan poco prima dell’inizio dei bombardamenti, e Associated Press ha scritto che per il governo americano la notizia è stata una sorpresa. Alcuni analisti pensano che gli Stati Uniti abbiano sbagliato anche in un altro senso: decidendo di non avviare una grande operazione militare in Siria – uno scenario di cui si parlò concretamente nell’estate del 2013 – hanno di fatto lasciato spazio alla Russia, permettendole di entrare in guerra e fare il bello e il cattivo tempo (quest’ultimo è un punto molto dibattuto, ovviamente: anche l’ipotesi di un massiccio intervento americano aveva sollevato diversi dubbi). Terzo: l’accordo sembra mostrare l’intenzione della Russia di ampliare la sua influenza in Medio Oriente, sia nella regione del Golfo Persico (dove si trova l’Iran) sia in quella del Levante (dove si trova la Siria). Uno scenario di questo tipo spiegherebbe anche il recente avvicinamento della Russia alla Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, dopo mesi di litigi causati dall’abbattimento dell’aereo da guerra russo da parte della Turchia in prossimità del confine turco-siriano. Quarto: l’intera vicenda potrebbe mostrare ancora una volta tutti i limiti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Gli Stati Uniti dicono che l’accordo tra Russia e Iran potrebbe essere proibito dalla risoluzione 2231 dell’ONU, che stabilisce che non si può fornire, vendere e trasferire equipaggiamento militare all’Iran senza il permesso del Consiglio di Sicurezza. Effettivamente potrebbe essere vietato, ma non è ancora sicuro: gli americani stanno indagando. Ma viene da chiedersi cosa potrebbe succedere, anche se ci fosse stata una violazione, visto che tutte le decisioni più importanti dell’ONU passano per il Consiglio di Sicurezza stesso, dove sia Stati Uniti che Russia hanno il potere di veto. *** ALBERTO NEGRI, IL SOLE 24 ORE 17/8 – Un messaggio politico oltre che militare, questo è il senso dei raid aerei russi sulla Siria in partenza dall’Iran. È la prima volta che la Repubblica islamica concede ufficialmente basi a forze straniere per operazioni di guerra. Continua pagina 8 Continua da pagina 1 Un evento epocale per un Paese che da solo ha combattuto il conflitto Iran-Iraq negli anni 80 contro un fronte arabo in cui l’unico alleato di Teheran era la Siria di Hafez Assad. Dalle nostre parti la memoria storica è corta, conviene rinfrescarla. I caccia russi decollati da Hamadan per colpire non solo l’Isis ma anche al-Nusra, il gruppo jihadista filo al-Qaeda – che gli Usa con sauditi e turchi vorrebbero usare in chiave anti-Teheran – sono il segnale del rafforzamento dell’intesa tra Russia e Iran, consolidata durante gli anni delle sanzioni a Teheran che in questo lungo periodo di isolamento si è rivolta principalmente per le sue forniture strategiche a Pechino e Mosca. I raid sono un segnale politico forte inviato agli americani e all’Occidente: un accordo su Aleppo è possibile ma alle condizioni di Mosca e Teheran, cioè sbarazzarsi dei jihadisti e di un bel pezzo di opposizione anti-Assad. Il Medio Oriente è cambiato e con l’intervento diretto della Russia in Siria ha mutato direzione anche alle soglie della Nato e dell’Europa, come è apparso ancora più evidente dopo il fallito golpe in Turchia. La Russia e l’Iran – alleati non solo di comodo – stanno manovrando sui punti deboli occidentali, Erdogan compreso e lo fanno con le intese diplomatiche e militari: ad Aleppo – come a Mosul e Raqqa – si sta combattendo una fase decisiva della spartizione del Medio Oriente ma anche dei futuri equilibri internazionali. La Siria è una sorta di Jugoslavia araba ma il suo destino, a differenza di quella fondata da Tito, non sarà deciso solo a Ovest. Per cinque anni l’Occidente con i suoi alleati arabi del Golfo e la Turchia ha continuato a puntare sulla rimozione di Bashar Assad senza riuscirci, utilizzando tutti i mezzi a disposizione, anche i gruppi islamici più radicali che poi sono sfuggiti a ogni controllo con i risultati ferali che sappiamo. Il fronte sunnita intendeva prendersi una rivincita sugli sciiti che dopo la caduta di Saddam avevano preso il potere in Iraq, la Turchia puntava a una clamorosa espansione in Iraq e in Siria, anche i jihadisti servivano allo scopo. Questo piano è fallito nel momento in cui nel 2013 gli Stati Uniti e la Francia rinunciarono a bombardare Damasco. Fu allora che cominciò l’ascesa del Califfato arrivato all’apice della sua cavalcata a 50 km da Baghdad e alle porte di Damasco. Ma per quanto tempo abbiamo visto sventolare la bandiera nera dell’Isis senza un efficace intervento occidentale? C’è voluto il terrorismo nel cuore dell’Europa per smuovere gli Usa e i loro alleati. L’alleanza anti-Califfato a guida americana può essere efficace in Iraq in coordinamento con il governo di Baghdad, per altro appoggiato dalle milizie sciite, ma è assai ambigua in Siria perché gli obiettivi dei suoi componenti sono assai diversi. Il turco Erdogan, che voleva essere il portabandiera del fronte sunnita con i finanziamenti ai jihadisti dei sauditi e del Qatar, ora rischia di vedere l’embrione di uno stato curdo ai suoi confini al punto che si è rivolto a Putin e ha già chiesto ai curdi siriani di ritirarsi dalla roccaforte di Manjib appena conquistata. Persino la Germania di fronte a questi naufragi e alle tensioni con Ankara prende coraggio e accusa la Turchia di essere un “hub” dei jihadisti. Ma nessuno se ne era accorto prima? Il Califfato adesso è in arretramento ma a combatterlo non sono state le forze sunnite e neppure un Occidente esitante e avviluppato nelle sue contraddizioni bensì i curdi, gli sciiti, gli alauiti e infine la stessa Russia per difendere lo storico alleato di Damasco, espressione di un regime brutale. Ma questi sono conti che si pagano, e il conto è arrivato. Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 17/8/2016 *** UGO TRAMBALLI, IL SOLE 18/8 – «Secondo me qualsiasi futuro segretario alla Difesa che consigliasse al presidente di mandare un grande contingente di forze terrestri in Asia, in Medio Oriente o in Africa, dovrebbe farsi esaminare la testa». La considerazione di Bob Gates, responsabile al Pentagono per conto di due presidenti (Bush e Obama), è ormai considerato più un imperativo che un prezioso consiglio. Non solo per gli americani ma per tutti: anche per i russi, ora così visibilmente protagonisti sulla scena mediorientale. È dunque un precedente così importante avere usato le basi iraniane per bombardare la Siria? È certamente un segnale agli Stati Uniti e all’alleanza sunnita anti-Bashar Assad. Ma strategicamente, a medio e lungo termine, è irrilevante. Perché se non o fosse, la Russia commetterebbe con imperdonabile miopia lo stesso errore già fatto dagli americani: farsi risucchiare nella più intrattabile delle regioni, finire nelle paludi del secolare scontro fra sciiti e sunniti, arabi e persiani, regimi fallimentari e milizie sanguinarie. Vladimir Putin ha mostrato evidenti segni di grandeur ma è tutt’altro che un leader privo di un orizzonte: lo sta provando da tempo. È tornato a essere un protagonista in una regione strategica per la Russia, ai suoi immediati confini geografici ed energeticamente così importante per una potenza che produce gas e petrolio. Ma non si farà mai coinvolgere completamente, decidendo come gli americani di aderire a un fronte, opposto a un altro. Tanto più ora che nelle dichiarazioni e nei fatti, Barack Obama sta disimpegnando l’America dalla regione: le decisioni del presidente degli Stati Uniti hanno aperto spazi importanti a Putin, ma prendere il posto dell’America è un’altra cosa. Se non bastasse come promemoria il gigantesco fallimento dell’invasione americana dell’Iraq e le sue conseguenze, tutti i comandanti delle forze armate russe hanno combattuto in Afghanistan quando erano giovani ufficiali di prima linea, 25 anni fa. Quel ricordo non è solo nelle menti ma anche nei piani degli strateghi. Per questo avere utilizzato basi iraniane è irrilevante: è solo parte di un gioco sottile attorno alla Siria, il cui futuro oggi non conosce nessuno. Russia e Iran hanno interessi comuni ma non uguali agende nella regione: incominciando dal riavvicinamento alla Turchia sunnita, proseguendo per il nucleare iraniano al quale anche Mosca si è sempre opposta, e finendo con Israele che se non un alleato, è sempre di più un partner strategico della Russia. È infatti questo che Putin perderebbe se decidesse di far parte in pianta stabile del fronte sciita e decidesse di impegnarsi nella regione in un gioco imperiale a somma zero contro gli Stati Uniti: il vantaggio diplomatico di essere l’interlocutore di tutti, anche di alcuni nemici sul campo di battaglia siriano. Nella regione gli Stati Uniti sono pieni di tabù, antitesi di una saggia politica estera: non trattano con l’Iran perché sono alleati dell’Arabia Saudita; vogliono la testa di Bashar Assad per non inimicarsi il fronte dei Paesi del Golfo. Un segretario di Stato americano perderebbe il posto se dialogasse con Hezbollah o Hamas: i russi lo fanno e Bibi Netanyahu non si sogna di obiettare. Nuove relazioni con la Turchia, collaborazione militare con l’Iran, armi all’Arabia Saudita. Nemmeno il sostegno non così granitico a Bashar Assad impedisce alla Russia di trattare con gli Stati Uniti il futuro del dittatore e quello del regime di Damasco. È impensabile che gli americani possano scalzare la Russia dal Medio Oriente: posto che qualcuno a Washington pensi di volerlo fare. A suo modo Putin ha fatto un capolavoro che solo lui potrebbe rovinare. Ugo Tramballi, Il Sole 24 Ore 18/8/2016 *** ALBERTO NEGRI, IL SOLE 24 ORE 19/8 – Davanti al suo drappo nero si sono sciolti come neve al sole interi eserciti come quello iracheno, e la sua barbarie aveva spinto alla fuga o sottomesso milioni di arabi, curdi, cristiani, sciiti, yezidi. Questo è davvero l’inizio della fine dell’Isis e quale sarà la strategia del Califfato per sopravvivere? Era il 2 giugno del 2014 quando venne avvistata per la prima volta la bandiera nera sulla via di Damasco. Qualche settimana dopo, il 29 giugno, il suo capo Abu Baqr al-Baghdadi avrebbe proclamato il Califfato da Mosul, seconda città irachena. Fu una delle rare apparizioni pubbliche di questo ex prigioniero del carcere di Camp Bucca, inspiegabilmente liberato dagli americani nel 2009. «Quello è Daesh, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, che voi chiamate Isis», disse il generale siriano Suhayl puntando il binocolo verso l’estrema periferia di Douma, una delle roccaforti dei ribelli anti-Assad. Spazientito e nervoso il generale aggiunse che l’Isis aveva appena sloggiato al-Nusra, gruppo jihadista affiliato ad al-Qaeda con il quale i siriani del regime stavano trattando. Due anni dopo il destino traccia scenari assai curiosi per uno Stato islamico in forte arretramento territoriale che ha il suo cuore pulsante nel Siraq, alcune roccaforti in Libia (non più la Sirte) ma che si estende con i gruppi affiliati dall’Afghanistan all’Africa occidentale. Ricordiamo che la guerra in Afghanistan nel 2001 non fu la fine di al-Qaeda di Osama Bin Laden, che si ricostituì in Yemen con colonne agguerrite dal Medio Oriente all’Africa. L’incrocio tra l’Isis e al-Qaeda, da cui in Iraq tutto è nato, propone nuovi sviluppi in una regione dove i jihadisti sono il simbolo ma anche l’espressione del fanatismo religioso e del declino culturale di Stati in disgregazione. Il Fronte al-Nusra, impegnato nella battaglia di Aleppo, ha appena cambiato nome staccandosi proprio da al-Qaeda e forse verrà cancellato dalla lista nera dei gruppi terroristi per entrare a far parte dell’opposizione “rispettabile” contro Assad: nelle sue file torneranno i transfughi che avevano giurato fedeltà al Califfato. Ecco che cosa può accadere a una parte dell’Isis dopo un’eventuale sconfitta: i miliziani più “ragionevoli” verranno riciclati tra i jihadisti “buoni”, quelli sostenuti dalla Turchia e finanziati da sauditi e qatarini. Può apparire scandaloso ma questa è una mossa tattica, ispirata dagli americani, per usare i jihadisti anti-Assad anche in chiave anti-iraniana e tenere sotto pressione la Russia. In Medio Oriente i mostri generano altri mostri: noi la chiamiamo Realpolitik. Ma questa è solo una parte della storia. L’Isis continuerà a operare magari in maniera diversa con il piano B del suo portavoce al-Adnani. Abu Mohamed al-Adnani è una sorta di “ministro” degli attentati, supervisore del fronte esterno coordina i combattenti in Occidente ma finora non ha neppure dovuto preoccuparsi della segretezza. Anzi, all’opposto. Più è trasparente e più è facile per chi ascolta mettere in pratica le sue direttive. Dagli attacchi in Germania a un camion-ariete come a Nizza. Ma bisogna guardare oltre. Secondo alcune ricostruzioni al-Adnani inizia a pensare a quando l’Isis potrebbe essere sconfitto, ovvero studia come creare una quinta colonna in Europa. E i jihadisti potrebbero usare il nord-est della Siria come area di addestramento, un “ponte” sul confine turco. Del resto da cinque anni è la meta agognata dei foreign fighters: è il “nostro” Afghanistan da monitorare. Per questo è importante la conquista della roccaforte di Manbij da parte della coalizione curdo-araba appoggiata dagli Usa: taglia la strada verso Raqqa, capitale del Califfato, ma anche la via di fuga dei jihadisti in direzione della Turchia. È scattato così il Gran Premio per Raqqa: una corsa a due tra la coalizione capeggiata dagli Stati Uniti e quella a guida russa con Assad, iraniani ed Hezbollah. Ma la sua caduta non sarà la fine della storia. Nella battaglia contro l’Isis la chiave politica della vicenda è importante quanto quella militare. Anzi senza la prima non si riesce a comprendere neppure la seconda. Il Califfato di al-Baghdadi potrà essere anche effimero ma la barbarie, l’ingiustizia, la violazione continua dei diritti umani sono da queste parti moneta corrente e tollerata nel grande gioco delle alleanze e degli interessi mondiali. Anche questa è stata una delle cause che hanno portato in Medio Oriente all’ascesa del jihadismo e al successo della sua propaganda. La storia cominciata nel 2003 con la caduta di Saddam non termina adesso. Lo Stato Islamico non ha fatto tutto da solo ma si è alleato con le tribù sunnite e i gruppi baathisti di Saddam che avevano con i jihadisti un obiettivo in comune: rimuovere dal potere gli sciiti. Al-Baghdadi, militante di Al-Qaeda e seguace del giordano Abu Musab Zarqawi, ha sfruttato il caos saldando guerra siriana e irachena. Ma le vere e profonde cause della rivolta sono state la corruzione e le politiche discriminatorie di Baghdad, una formidabile propaganda per l’Isis nelle province sunnite così come è avvenuto in Siria, Paese a maggioranza sunnita dominato con pugno di ferro dalla minoranza alauita degli Assad. L’irredentismo sunnita, sostenuto da potenze esterne come Arabia saudita e Turchia, non finirà con la sconfitta del Califfato e forse neppure con una nuova mappa del Medio Oriente. Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 19/8/2016 *** ROBERTO TOSCANO, LA REPUBBLICA 20/8 – L’attivismo russo in Medio Oriente (ma forse sarebbe più corretto dire nel mondo arabo-islamico) suscita in questi giorni l’attenzione degli organi di informazione — e la preoccupazione di europei e americani. Non sembra infatti più possibile dare alle iniziative di Putin un’interpretazione limitata al solo conflitto siriano, e meno ancora alla solidarietà con Assad. Anzi, alcune iniziative russe appaiono contraddittorie rispetto a quell’ipotesi. Che dire infatti del sorprendente miglioramento dei rapporti con Erdogan, la cui totale ostilità nei confronti del regime siriano lo ha portato a sostenere, facilitando il passaggio di combattenti e armi, le correnti più radicali della ribellione? Il groviglio medio-orientale di alleanze e ostilità si arricchisce così di un ulteriore elemento in una caotica miscela di opportunismi, nemici principali e nemici secondari, falsi alleati e impegni militari poco credibili — come quello dei 66 paesi che da anni stanno in teoria cercando di sconfiggere lo Stato Islamico. Putin però sembra avere molto chiaro quello che vuole, e se è vero che coglie ogni occasione che gli viene offerta dalle incertezze e dalle contraddizioni altrui, a questo punto risulta possibile ritenere che dietro questa spregiudicata strategia di movimento ci sia un disegno complessivo. L’alleanza con la Siria rimane certamente importante, non tanto per la base navale russa di Tartus, più simbolica che strategicamente importante, ma per affermare che la Russia non può essere esclusa dal Mediterraneo, per rivendicare il diritto di esserci e di contare: con i bombardieri se c’è la guerra, e domani magari con la diplomazia. Il fatto che Mosca stia portando avanti in questo stesso momento contatti con gli americani su una possibile formula di soluzione del conflitto siriano fa pensare che Putin non avrebbe alcuna difficoltà ad accettare un “dopo Assad”, ovviamente a patto che gli fosse concesso di salvaguardare i propri interessi nella regione. Si tratta di interessi — di sicurezza, di influenza geopolitica, economici — che vengono perseguiti con tutta la spregiudicatezza di chi non si lascia certo intralciare da limiti di natura etico-politica (diritti umani, democrazia, laicità, rispetto delle minoranze). Putin incontra Erdogan per qualcosa di più di un’attenuazione della precedente ostilità, ma nella ricerca di elementi di convergenza e comune interesse e nello stesso tempo gli offre una sponda, contro le critiche americane e europee nei confronti della sua accelerata deriva autoritaria. Nello stesso tempo porta avanti una linea di dialogo con l’Egitto del generale/presidente Sisi: solidale con Erdogan che ha sconfitto un tentativo di colpo di Stato, non ha problemi ad avere buoni rapporti con il Presidente egiziano che con un colpo di Stato ha conquistato il potere. Negli ultimi giorni ci sono segnali non equivocabili che Putin sta coltivando i rapporti con un altro generale, Haftar, che in Libia contesta il governo di Serraj, appoggiato da americani e europei. Se ci fossero dubbi sulla totale spregiudicatezza che sta sotto la politica estera di Vladimir Putin basterebbe aggiungere che tra gli interlocutori con cui il Presidente russo sta portando avanti una politica di dialogo c’è persino Bibi Netanyahu. Ormai anche la Russia sta prendendo le distanze da un’Autorità Palestinese sempre meno credibile e preferisce trattare, senza lasciarsi intralciare da questioni di principio, con chiunque detenga un potere reale. La Russia intende tornare in Medio Oriente come protagonista. Lo fa per una serie di interessi molto concreti (fra cui non va sottovalutata l’intenzione di bloccare un possibile contagio islamista verso il suo fianco sud e la sua popolazione musulmana), ma ancora di più perché vede nel Medio Oriente un terreno favorevole per riaffermarsi come Grande Potenza invertendo la storica umiliazione, l’emarginazione dalla “Serie A” delle relazioni internazionali prodotta dalla fine dell’Unione Sovietica. Un disegno — sarebbe bene non dimenticarlo — che trova consenziente la grande maggioranza del popolo russo. Il vero rivale, il vero punto di riferimento in questo revanscismo rimangono gli Stati Uniti. La Russia di Putin tende oggi a rivendicare una parità con gli Stati Uniti che né il dato militare né quello economico sembrerebbero oggettivamente giustificare. Con la fredda arroganza che lo caratterizza, in Medio Oriente, terreno particolarmente favorevole a questo attivismo politico- militare, Putin sembra affermare: anche noi, come gli americani, possiamo usare ovunque la forza militare, e meglio di loro potremmo anche facilitare il passaggio dalla guerra alla diplomazia. Ma solo se ci verrà riconosciuto un ruolo e soprattutto un rango non secondario, e se non si pretenderà di contestare la nostra egemonia nelle zone confinanti alla Russia. Anche senza voler dare per scontato che la simpatia di Trump per Putin sia reciproca, è un fatto che l’attuale fase della politica americana, con una campagna elettorale che esaspera divisioni e disorientamento, risulta particolarmente propizia per Putin. Ma la sfida russa va al di là della mai abbandonata competizione con gli Stati Uniti. Le sue implicazioni riguardano certamente anche il continente europeo, dove rimane irrisolta la questione dell’integrità territoriale dell’Ucraina e più in generale il rapporto fra la Russia e i propri vicini. Agli americani e agli europei serve urgentemente una “politica russa” che tenga conto di questa sfida, e che tenga ben conto del fatto che se è stato un errore storico umiliare la Russia alla fine della Guerra Fredda trattandola da paese sconfitto senza tener conto dei suoi interessi anche legittimi, oggi sarebbe assurdo pensare di poter correggere questo errore con una politica di acquiescenza alla spregiudicata politica estera di Putin. Non sarà facile. *** ALESSANDRO ORSINI, IL MESSAGGERO 20/8 – L’Onu rinuncia a creare un corridoio umanitario in Siria. La guerra prosegue e i volontari non sarebbero al sicuro. È una notizia drammatica. Equivale a una sentenza di condanna a morte per migliaia di siriani. Per cercare di uscire da questa situazione, abbiamo bisogno di fare tre cose. In primo luogo, abbiamo bisogno di chiamare per nome i paesi coinvolti nella guerra che, come vedremo, non è alimentata soltanto dalla sete di potere del presidente della Siria, Bassar al Assad. In secondo luogo, dobbiamo svelare gli interessi che spingono questi paesi a proseguire la guerra. Infine, abbiamo bisogno di proporre, ai paesi in lotta, di abbracciare l’unica soluzione possibile. Perché di soluzioni né è rimasta soltanto una. Iniziamo dai responsabili. La guerra civile in Siria è alimentata da due blocchi di paesi. Il primo blocco, filo-americano, si compone di Usa, Turchia, Arabia Saudita e Qatar. Il secondo blocco, filo-russo, è composto da Russia e Iran, più le milizie sciite di Hezbollah, che hanno la loro base in Libano. Il blocco filo-americano vende grandi quantità di armi ad alcune formazioni siriane, con il fine di abbattere Bassar al Assad e sostituirlo con un alleato fedele. Questo blocco, essendo ricchissimo, potrebbe alimentare la guerra per decenni, senza inviare soldati sul campo. Il blocco filo-russo bombarda i ribelli fedeli al blocco filo-americano, e la popolazione civile, per mantenere al potere Bassar al Assad, che è legato, mani e piedi, a Putin e all’Iran. Chiariti i nomi dei responsabili, veniamo ai loro interessi. Il blocco filo-americano vorrebbe sottrarre la Siria al controllo della Russia e diventare più potente di prima. La Russia ha due interessi preminenti. Il primo riguarda la base militare russa di Tartus che, trovandosi sulla fascia costiera siriana, non può cadere in mani filo-americane. I russi tengono alla base di Tartus in Siria, come gli americani tengono alla base di Sigonella in Sicilia. Entrambi combatterebbero qualunque tipo di guerra, pur di custodirle. Il secondo interesse russo in Siria riguarda la grande strategia di Putin, che abbiamo descritto, il 17 agosto, su queste pagine. In sintesi, Putin sta cercando di costruire un nuovo blocco politico-militare che faccia arretrare gli Usa in Medio Oriente e nel Pacifico. Se perde la Siria, la sua strategia è finita. Gli interessi dell’Iran sono facili da svelare. Gli iraniani lottano per mantenere al potere Bassar al Assad, anche per i loro pessimi rapporti con gli israeliani. Israele ha una tecnologia militare in grado di bombardare l’Iran, mentre l’Iran non dispone di missili capaci di arrivare fino in Israele. Ne consegue che l’Iran, per poter minacciare Israele, deve aprirsi un corridoio strategico, dalla Siria verso il Libano, dove si trovano le milizie filo-iraniane di Hezbollah. È semplice: l’Iran ambisce a posizionare alcuni missili in Libano per essere nella condizione di colpire Israele. Bassar al Assad non è nella condizione di discutere, dal momento che la sua vita è nelle mani degli iraniani. Un tempo, le soluzioni ipotizzabili erano numerose. Oggi, ne rimane soltanto una. Il blocco filo-americano può prolungare la guerra in Siria, ma non potrà mai vincerla. Per sperare di far arretrare Bassar al Assad, gli Usa dovrebbero bombardare Damasco, la capitale della Siria. Un tempo potevano farlo. Oggi, non più. La Russia ha installato, sul territorio siriano, il sistema missilistico S-400, in grado di abbattere gli aerei americani. Se Putin abbattesse un caccia americano, si correrebbe verso la terza guerra mondiale. L’Italia, che è uno dei paesi più pacifici del mondo, può avere un ruolo, proponendo l’unico accordo possibile. L’accordo è questo. Bassar al Assad resta al potere, ma accetta i soldati di pace dell’Onu per proteggere la vita dei suoi oppositori politici. Tutti coloro che hanno a cuore i diritti umani vorrebbero assistere alla caduta di Bassar al Assad. Anche chi scrive. Tuttavia, è un fatto inoppugnabile che quest’uomo, con l’aiuto di Russia, Iran e Hezbollah, ha vinto la guerra. E può addirittura contare sul sostegno della Cina, che si è schierata. Chiunque conosca la situazione siriana sa bene che questa è la realtà. Il mondo si fida dell’Italia, i cui rapporti con gli Usa sono eccellenti. Quelli con la Russia sono splendidi. Quelli con l’Iran sono ottimi. Bassar al Assad non ha motivi di risentimento verso l’Italia, visto che il governo italiano ha sempre rifiutato di farsi coinvolgere in Siria. Altrettanto buoni sono i rapporti con la Turchia, l’Arabia Saudita e il Qatar. Persino Hezbollah ci guarda con favore, dal momento che l’Italia, a differenza di altri paesi, non la considera un’organizzazione terroristica. L’Italia è anche il paese di Machiavelli, il grande teorico del realismo politico, che può essere posto al servizio della guerra o della pace. In alcuni momenti storici, ciò che può apparire cinico, come accettare che Bassar al Assad resti al potere, può essere un atto di umanità, se diventa l’unico modo per arrestare una guerra. Il cinismo politico, posto al servizio della vita umana, è la forma più alta di altruismo. *** DAVIDE FRATTINI, CORRIERE DELLA SERA 20/8 – Autostoppisti della vigliaccheria i miliziani dello Stato Islamico sono saliti sulle macchine con i civili. Perché potevano offrire la protezione che gli uomini in nero hanno negato nei due anni e mezzo in cui hanno spadroneggiato a Manbij. A città liberata l’ultimo sfregio per gli abitanti: sono stati usati come scudi umani, il lasciapassare per la fuga verso nord. Le truppe del Califfo sapevano che le forze curde e arabe sostenute dagli Stati Uniti non avrebbero corso il rischio di colpire anche chi era già sottoposto al dominio dell’orrore. Bombardare il convoglio è stato escluso. «Li abbiamo trattati tutti come non combattenti, abbiamo monitorato lo spostamento, senza sparare», spiega il colonnello Chris Garver, portavoce della coalizione americana di stanza a Bagdad. Tra i non combattenti ci sono anche i famigliari dei miliziani, le donne che hanno deciso di seguirli nella cavalcata del terrore. Le immagini diffuse dalle Forze Siriane Democratiche mostrano i fondamentalisti sulle moto, si mischiano e nascondono nella fila di cinquecento tra auto e camioncini con i materassi o qualche pezzo di arredamento sul tetto. Manbij è stata liberata venerdì scorso dopo 73 giorni di battaglia, alla fine gli estremisti erano asserragliati nel centro, ancora tenevano duemila ostaggi: tra cento e duecento sono stati costretti a seguirli — poi lasciati andare — verso il confine con la Turchia. Il modello tattico usato per la vittoria dovrebbe essere riprodotto per la conquista di Raqqa, quella che Abu Bakr Al Baghdadi considera la sua capitale in Siria dal maggio del 2014 e che i generali americani vogliono toglierli. La motivazione a combattere dei curdi appoggiata dai bombardamenti e dalle forze speciali straniere potrebbe riuscire a cacciare i soldati irregolari del Califfo. A Raqqa però non vive una maggioranza curda e i peshmerga hanno altri obiettivi: Al Bab e Jarabulus sono le due ultime città controllare dallo Stato Islamico sulla frontiera turca, da lì sono passati in questi anni uomini e armi. Con queste conquiste i curdi riuscirebbero a unire due zone della Rojava, la regione autonoma che si stanno ricavando dentro al caos siriano. Davide Frattini *** FRANCESCA CAFERRI, LA REPUBBLICA 19/8 – Nelle immagini siede da solo, quasi immobile, sullo sfondo della sedia arancione dell’ambulanza. Ha i capelli spettinati, i piedi che sporgono senza raggiungere terra e non parla. Guarda in silenzio il caos di fronte a sé, come se non capisse dove si trova e cosa sta accadendo. La metà del viso è coperta di sangue, il corpo di polvere bianca. Omran Daqneesh ha 5 anni e dalla notte di mercoledì è l’ultimo volto della tragedia della Siria. Il bambino si trovava nel suo appartamento nella zona di Qaterji, quartiere di Aleppo in mano alle forze ribelli, quando un bombardamento, forse russo, forse dell’aviazione siriana, ha colpito la casa. Nel raid sono morte 8 persone, tra cui 5 bambini, ma probabilmente sarebbe stato solo un’altra nota a margine della giornata se le foto del salvataggio di Omran, riprese dagli attivisti dell’Aleppo media center, non avessero fatto il giro del mondo. Nel filmato si vede il bimbo trasportato nell’ambulanza. Un uomo lo adagia sul sedile arancione e immediatamente torna indietro, verso il cumulo di macerie da cui lo ha estratto. Omran resta solo. Non piange, non parla. Si passa la mano sul viso, come fanno i bambini appena svegli. Ma capisce che c’è qualcosa di strano: è il sangue che gli scende dalla testa. Lo guarda, ma neanche allora piange. Rimane in silenzio, smarrito, fino a quando nell’ambulanza arrivano altri due bambini e un uomo in barella. Da mercoledì notte queste immagini sono state viste da migliaia di persone. Come Alan Kurdi un anno fa, Omran Daqneesh sembra aver risvegliato oggi la coscienza del mondo. Come per Alan un anno fa, c’è già chi teme che dopo questa ondata di emotività la storia verrà dimenticata. E Aleppo con essa. Ha fraccontato all’Ap Mahmoud Raslan, un fotografo che si trovava sulla scena, che insieme a Omran sono stati estratti dalle macerie i suoi fratelli di uno e 3 anni e sua sorella di 11. Poi la mamma e il papà. Tutti feriti, ma nessuno è in gravi condizioni. Poche ore dopo la prima, una seconda foto di Omran è stata diffusa in Rete. Il bimbo ha la testa fasciata e lo sguardo ancora smarrito. A salvargli la vita sono stati un gruppo di uomini con l’elmetto bianco. Si chiamano The White Helmets e sono volontari che negli ultimi anni hanno salvato migliaia di persone dalle macerie. Pochi giorni fa sono stati nominati per il Premio Nobel per la Pace. Il simbolo di una Siria che, nonostante tutto, non si arrende. *** DAVIDE FRATTINI, CORRIERE DELLA SERA 19/8 – Hanno estratto il piccolo Omran ed è stato come trovare un regalo inaspettato. I Caschi Bianchi hanno scavato per ore con le mani, spostato i blocchi di cemento, i gesti estenuanti che ripetono ogni giorno da tre anni, da quando Aleppo è diventata la prima linea della guerra siriana. Gesti ancora più frenetici nelle ultime settimane, i jet del regime affiancati da quelli russi hanno intensificato i bombardamenti sulla parte orientale della città sotto il controllo dei ribelli. Omran Daqnish è stato raccolto tra le braccia da un volontario della Syria Civil Defense, la protezione civile per un luogo da dove la civiltà se n’è andata. Il bambino tocca la ferita sulla testa, viene adagiato nell’ambulanza, le gambe troppo corte per toccare terra, i piedi nudi ciondolano ingrigiti dalla polvere. Con una mano accarezza il fresco del sedile, è pulito e sicuro. Il fermo immagine — il video è stato diffuso dall’Aleppo Media Center — lo trova così, lo sguardo ancora intontito, troppo imbambolato per piangere, l’occhio sinistro mezzo chiuso dal sangue, la maglietta stropicciata con stampato sopra CatDog, il personaggio dei cartoni animati. «Ci guardava e non parlava», racconta Mahmoud Rslan che ha girato il filmato. La foto è stata condivisa e trasmessa in tutto il mondo, per i siriani porta la speranza che possa accendere l’attenzione sul conflitto. Come il piccolo cadavere di Aylan Kurdi riverso su una spiaggia turca ha simboleggiato il dramma dei profughi che tentano di scappare dalla guerra attraversando il Mediterraneo. L’opposizione chiede da almeno quattro anni — le prime manifestazioni pacifiche contro Bashar Assad vengono organizzate nel marzo del 2011 — che l’Occidente garantisca una «no-fly zone», una parte di territorio protetta verso il confine con la Turchia dove i jet del governo non possano colpire. A cinque anni Omran con il suo silenzio attonito ripete la richiesta ai leader globali. «Adesso è già con i suoi genitori, non ha riportato trauma cranici», spiega Khaled Khatib della Syria Civil Defense. Nello stesso giorno l’ospedale trasformato in bunker che l’ha accolto ha ricevuto 12 bambini sotto i 15 anni, curati nei sotterranei, i piani superiori sono troppo pericolosi. Nei quartieri orientali della città che una volta era la più grande e ricca del Paese sono rimasti 35 medici per 300 mila abitanti, L’Aleppo Media Center dall’inizio del conflitto dirama i filmati che mostrano la devastazione della metropoli, quella che Khaled Harah aveva definito davanti alle Nazioni Unite «la discarica dell’Apocalisse». Khaled era il più famoso tra i Caschi Bianchi, anche lui era diventato il volto della guerra che non finisce, i morti sono ormai quasi 400 mila, le Nazioni Unite hanno smesso di contarli. Due anni fa la vi-deocamera lo aveva ripreso esausto e sorridente mentre tirava fuori dalle macerie il piccolo Mahmoud, aveva rimosso pietre per 13 ore dopo aver sentito un gemito. Khaled è stato ucciso la settimana scorsa, sopraffatto dalla distruzione portata da un «barile bomba», botti riempite di tritolo e pezzi di metallo per diventare ancora più mortali. Proiettili lasciati cadere sulle case, su tutto quello che c’è sotto all’elicottero o all’aereo, così imprecisi nella loro meticolosa rovina che preoccupano anche i generali dell’esercito siriano, non si sa su quali teste possano piombare. Il clan degli Assad con i suoi consiglieri russi e iraniani considera la conquista di tutta Aleppo la chiave per la vittoria. All’inizio di luglio l’esercito governativo — sostenuto dai miliziani dell’Hezbollah libanese — ha circondato le zone controllate dagli insorti, per un mese il cibo e i medicinali non sono potuti arrivare. Dieci giorni fa i ribelli hanno rotto l’assedio. Il regime ha così deciso di potenziare i raid con i jet e starebbe utilizzando anche bombe incendiarie — contengono fosforo o termite — che sono proibite dalle convenzioni internazionali, a cui i russi hanno aderito. Human Rights Watch sostiene che nelle ultime nove settimane siano state sganciate almeno diciotto volte. La prigione di Seydanya, venticinque chilometri a nord di Damasco, sta nascosta in cima a un colle di pietre rosse, tra le montagne e le grotte dove millesettecento anni fa i monaci cristiani pregavano in aramaico nel silenzio. È il buco nero che inghiotte gli oppositori del regime, «un edificio strutturato come strumento di tortura» lo definiscono gli esperti di architettura forense guidati da Eyal Weizman: hanno ricostruito un modello digitale in 3D del carcere con le testimonianze di chi è potuto riemergerne. L’organizzazione Amnesty International — che ha partecipato al progetto — ha calcolato il numero di persone scomparse nelle celle dei servizi segreti in tutto il Paese dall’inizio della rivolta: 17.723 secondo la contabilità dell’orrore. Davide Frattini *** DOMENICO QUIRICO, LA STAMPA 19/8 – Omran, 5 anni, siede in un’ambulanza, coperto di polvere e sangue. È stato appena estratto dalle macerie di una casa bombardata ad Aleppo. I bambini, parliamone prima che la cosa diventi inutile, dato che in un luogo come la Siria anche gli innocenti sono una preda troppo preziosa per non suscitare la gelosia del destino. Viviamo in un mondo in cui tutto è perpetuamente minacciato da qualcosa. Penso che sia sempre stato così, ma mai come ad Aleppo, città di tribolati, lo è stato in modo così tangibile. Sulla soglia, appena, del nuovo millennio e nella confusione che spesso accompagna i secoli che debuttano, la vita dei più piccoli diviene ciò che si vuole: un’arma, uno strumento di propaganda, un particolare inutile, un bersaglio perfetto, una provocazione, un dettaglio, un peso. Che volete che siano i bambini quando, come avviene in Siria, i morti si contano a centinaia di migliaia? Eppure ogni bambino è unico. Ognuno di loro che scompare nei quartieri accartocciati di questa città non di pietre e cemento ma di carne e di sangue. Una città di cui, in cinque anni, ho ascoltato, quasi fisicamente, il respiro farsi più flebile, spegnersi, quartiere dopo quartiere, come se la vita a poco a poco cedesse parti del corpo al silenzio della morte. Ognuno di loro si porta via con sé un mondo che non era mai stato visto come l’aveva visto lui in quel suo breve tempo e che come l’aveva visto lui non si ritroverà mai. La foto del bambino di Aleppo ci può aiutare a capire quello che non abbiamo compreso in cinque interminabili anni di guerra? Non lo so. Nell’immagine è lì, solo, che sogna forse una madre o un fratello che l’accarezzi per fugare in lui il timore dell’universo, che gli dia una casa dove nascondersi e dormire. In una città dove non ci sono più case ma solo rovine! Tu, voi siete i bambini di Aleppo, i bambini siriani. Avevano mani piccole come quelle di tutti i bimbi del mondo che cominciavano ad acciuffare le cose, voci che scalfivano simili a schegge di vetro i rumori della casa. Le loro mamme piangevano per un taglio che si erano fatti sulla punta di un dito e i padri li sgridavano fino ad adirarsi. Poi… poi nel 2012 li ho visti in una casa ad Hadariya, quartiere di Aleppo, con una grigia, sporca, torbida luce incominciava l’alba quando le bombe arrivarono. Avevano le gole e il petto squarciati. Non dico i nomi: ho pudore. Ecco: la Siria della guerra. Scompigliata, torbida, strisciante, spietata, miserabile. Dove era il demonio, non dio. Dio era da calpestare. E la Rivoluzione, sogni di gioventù e il cervello disseccato nei sogni! Credevano che fosse un gioco quando per la prima volta li hanno presi nei lettini per fuggire, per metterli in salvo; se non avessero sentito le madri urlare più del giorno in cui li hanno partoriti. Allora si sono messi a piangere ma solo perché lei piangeva e loro erano soliti imitarla spontaneamente in tutto quello che la vedevano fare. Poi hanno capito che si trattava di questo, di morire. La morte è stata per voi come un cuneo di verità nel soffice non sapere dell’infanzia, vi ha strappato l’ingenuità come una benda dagli occhi e avete visto forse in un lampo tutti i dolci anni che la guerra vi toglieva: l’amore delle ragazze sulle colline di Aleppo dolci di ulivi, le feste alla moschea, le notti di luna nella città vecchia il profumo di dolci e di pane. Vogliono trasformarvi in simboli, ora, delle nostre viltà, delle nostre rassegnazioni, delle minacce di naufragio della Storia, dei viandanti sperduti, di coloro che perdono sangue, dei figli senza più madre e delle madri senza più figli, degli uomini senza più casa né pane né dio. Forse ci riusciranno, purtroppo. Ma in realtà il bambino di Aleppo è solo. E guai oggi a chi è solo. I primi che ho incontrato cinque anni fa ad Aleppo erano già moribondi, trasportati in lenzuola e coperte, improvvisate barelle della disperazione, pochi stracci, carne sfortunata, occhi pieni di buio, in un ospedale dove spazzavano il rivolo di sangue dal pronto soccorso nella strada con una scopa: come se fosse acqua sporca. Carni straziate da frammenti di mortaio, da shrapnel, da schegge di edifici crollati su di loro. Dove è il limite? Mi ero chiesto allora davanti a quei corpi. Ora ho la risposta. Non c’è. Da tempo il troppo in là è stato valicato. Allora, come fare oggi per dare scandalo, per richiamare le coscienze alla decenza della pietà che si fa azione, rimedio, scelta? Domanda assurda. La foto del bambino, come quella di Aylan, il piccolo naufrago di Kos, non basterà, non c’è più argomento che sia in grado di farlo ad Aleppo. Quello che ci scandalizzava cinque anni fa è diventato silenziosamente un punto di partenza. Ed è dal punto di orrore in cui si è arrivati ieri che oggi si prende la rincorsa. Quel bambino è solo il termometro della nostra ipocrisia. E poi gli altri, i bambini delle zone tenute dagli assassini di Dio, gli islamisti. Trasformati, diversi. La loro giovane età si era calcificata come un enorme guscio di testuggine e il loro cuore era bello e duro come un corallo. Essi dicevano Allah e il profeta e la guerra santa come citassero articoli del codice penale, per loro Dio era un libro guerriero e l’uomo una cosa a cui non avevano tempo di pensare. Già mummie superstiziose. Impugnavano armi affidate loro dai padri, mostravano scene di massacro del Nemico come fossero sequenze di un gioco, in uno sprizzare di parole dure e inesorabili contro di me, l’infedele, l’impuro, il Nemico. Derubati della ebbrezza dell’infanzia, di quella prima saggezza innocente assassinata dalla bugiarda sapienza di poi.