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 2016  agosto 19 Venerdì calendario

WILMA, LIVIO, ABEBE E I PIEDI CHE HANNO RISCRITTO LA STORIA

Francesco Pinto ricorda le imprese impossibili della XVII Olimpiade. Nel suo libro I giorni dell’oro ci sono le medaglie di Livio Berruti nell’atletica, di Sante Gaiardoni, Luigi Arienti, Franco Testa, Mario Vallotto, Marino Vigna, Antonio Bailetti, Ottavio Cogliati, Giacomo Fornoni, Livio Trapè, Giuseppe Beghetto e Sergio Bianchetto nel ciclismo (Beghetto e Bianchetto nel tandem), di Amedeo Ambron, Danio Bardi, Giuseppe D’Altrui, Salvatore Gionta, Giancarlo Guerrini, Franco Lavoratori, Gianni Lonzi, Luigi Mannelli, Rosario Parmegiani, Eraldo Pizzo, Dante Rossi, Brunello Spinelli nella pallanuoto, di Francesco Musso, Giovanni Benvenuti (detto Nino), Franco De Piccoli nel pugilato, di Giuseppe Delfino, Edoardo Mangiarotti, Fiorenzo Marini, Carlo Pavesi, Alberto Pellegrino, Gian Luigi Saccaro nella scherma, di Raimondo D’Inzeo nell’equitazione. Il medagliere è d’eccezione: finiamo terzi dietro l’Unione Sovietica (inarrivabile) e gli Stati Uniti d’America. Trentasei medaglie in tutto, delle quali tredici d’oro, dieci d’argento, tredici di bronzo. Un trionfo. Sul Radiocorriere del 4 ottobre 1959 leggiamo: «Lunedì 5 ottobre andrà in onda alle ore 14.45, sul secondo programma il primo numero di Radio Olimpia, una trasmissione settimanale che segna l’ingresso ufficiale della Rai nel mondo dell’Olimpiade di Roma 1960. 15 minuti di trasmissione per illustrare lo spirito e il significato delle Olimpiadi, quasi un manuale di istruzioni per comprendere la tecnica delle gare e soprattutto un’opportunità di conoscere i suoi protagonisti. Ai microfoni di radio Olimpia, Nando Martellini e Paolo Valenti raccontano aneddoti, storie antiche, curiosità e consigli pratici. Dalla radio arrivano le radiocronache di Roberto Bortoluzzi, Sergio Zavoli, Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Andrea Boscione. Il numero degli inviati è elevatissimo e per questo viene creato a Roma il Centro Olimpiade 1960. Allo stesso scopo viene costruito un centro Radio e un centro TV al Foro Italico. 58 studi di registrazione solo per la radio». In buona sostanza, con quella esperienza nascerà un linguaggio radiofonico nuovo: meno ingessato, meno paludato, più diretto a raccontare i fatti mentre accadono. Radio Olimpia sarà l’antefatto dello sport visto alla radio in Tutto il calcio minuto per minuto. Ripassando i nomi di quei radiocronisti ci si rende conto del livello raggiunto. La radio ripropone così la nascita del mito raccontato con la cultura orale e tiene incollati milioni di ascoltatori davanti agli altoparlanti. In aiuto della radio arrivano televisione e cinema: soprattutto il cinema con La Grande Olimpiade, un capolavoro firmato da Romolo Marcellini. Tutto a colori, è in sé un documento storico. Le voci narranti di Sergio Zavoli e Riccardo Cucciolla, il cromatismo irreale per chi ha vissuto la XVII Olimpiade alla radio e alla televisione, La Grande Olimpiade non ci parla solo di sport, ma fa respirare le atmosfere di quei giorni e di quegli anni. È essenziale per chi si voglia fare un’idea di quel tempo, il tempo delle imprese impossibili.

Correndo verso l’università. Stadio Olimpico, pomeriggio del 3 settembre 1960. Ottantamila persone guardano dall’alto i finalisti dei 200 metri. E sono Lester Carney (Usa), Abdoulaye Seye (Francia), Marian Foik (Polonia), Stone Johnson (Usa), Ray Norton (Usa), più un italiano ventunenne, vincitore della semifinale con un tempo di 20”5. Si chiama Livio Berruti. Nell’intervallo di tempo tra la semifinale e la finale, Berruti non si è tolto più i calzoni lunghi e ha assistito al riscaldamento degli avversari sfogliando il libro del suo prossimo esame universitario. L’oralità della radio trasforma la gara in epica con la voce di Paolo Valenti. «Via sono partiti…Avvio bellissimo di Berruti e urlo unico del pubblico…all’interno di Berruti si lancia Johnson, Seye leggermente staccato…sono in piena curva con Berruti che conduce e all’esterno…lo attaccca Norton…Berruti attacca è in testa gli ultimi sessanta metri...Berruti avanza irresistibile verso la vittoria…a dieci metri…a cinque…Ha vinto Berruti…ha vinto Berruti…Secondo Carney…Livio Berruti ha conquistato la medaglia d’oro per l’Italia. L’atleta italiano si abbatte sulla pista stroncato dall’enorme sforzo ma si rialza subito e corre festante ad abbracciare i suoi avversari». Mentre Berruti vince, si levano in volo alcune colombe: va tutto a posto e tutto sembra essere simbolico in quell’estate 1960. L’estate di Scandalo al sole. E, nella leggenda, non può mancare la storia d’amore, leggenda anch’essa. Livio e la gazzella nera: Wilma Rudolph. Si parla di loro delicatamente, con una discrezione del periodo. Di lei, gazzella nera, malata da piccola di poliomielite, la ragazza più veloce del mondo. E di lui laureando, intelligente, apparentemente distaccato dal mondo dello sport e più legato ai libri di testo. Lui, Livio, ventun anni. Lei, Wilma, un anno di meno. Loro due, per mano, in quella Roma dolce della XVII Olimpiade. Parola di Livio Berruti: «Mi chiamò e mi chiese se volevo fare uno scambio di tuta con lei. Ci furono i soliti convenevoli che cercai di affrontare nel mio stentato inglese. Poi lei mi prese per mano e andammo in giro per il villaggio olimpico come due fidanzatini. Ci siamo poi incontrati in qualche meeting di atletica, ma Wilma aveva un brutto vizio, ogni tanto si sposava». È mito fin da subito. Per cui ci si avvicina al Villaggio Olimpico sperando di incontrare qualcuno di loro, gli atleti. Gli uomini da una parte le donne tenute severamente separate dagli uomini, in quell’Italia bifronte, formalmente moralista e sostanzialmente trasgressiva. Dove le cose sarebbero anche potute accadere, purché non si sapesse troppo in giro. E loro due vanno in giro: lui, lo studente ventunenne con gli occhiali neri come la pelle di lei, la ventenne nera, veloce come il vento. In una Roma con il sapore del suo passato, ma colorata di futuro. Piena di ragazzi di tutto il mondo, guardata da tutto il mondo. Ancora parola di Berruti: «Con Wilma muore una parte di me. Muore lo sport come gioia». Con queste parole lui saluta lei, nel 1994, quando a cinquantaquattro anni la gazzella nera se ne era andata veloce verso il più inevitabile dei traguardi. È una serata fresca, la sera di sabato 10 settembre 1960. Nando Martellini fa la radiocronaca della maratona, con i maratoneti di corsa fra le quinte del paesaggio storico: i monumenti, la via Appia antica, l’arrivo praticamente sotto l’Arco di Costantino, nel cuore del cuore della città. Passando di là, oggi c’è una lapide a ricordare un arrivo storico e, fermandosi a leggerne il testo moderno, sembra di riascoltare la parole di Nando, alla radio, quella sera di sabato 10 settembre 1960: «Ecco il concorrente che vince le Olimpiadi è a non più di cento metri dall’arrivo ha la maglia verde è il numero undici ed è l’etiope Abebe…è a cinquanta metri dal traguardo…lo taglia…Giochi della diciassettesima Olimpiade…prova di maratona...Primo Abebe!». È l’arrivo di Abebe Bikila in una scenografia perfetta. La via Appia antica illuminata da centinaia di torce e i corridori fra la folla assiepata tra tombe antiche, iscrizioni romane, ruderi, ville, casali. L’arrivo di Abebe, a piedi nudi, sulla strada moderna è forse una delle immagini più forti di tutto il Novecento. Abebe – a piedi nudi – stabilisce il primato olimpico, dopo aver staccato tutti al ventesimo chilometro. La fatica, per lui, sembra non esistere. Non lo conosce nessuno e nessun africano ha mai vinto una gara olimpica. Abebe è un etiope. E corre. Corre a piedi nudi, mentre i giornali e l’opinione pubblica usano ancora la locuzione “negro”. Corre, quel negro. Sembra l’antitesi della cultura classica, abituata agli atleti statuari e bianchi: eppure riproduce perfettamente l’esempio della maratona di Fidippide, il primo maratoneta della storia. Colui il quale corse per portare una notizia all’esercito greco. Corse Fidippide. Corre Abebe. A piedi nudi l’uno, a piedi nudi l’altro. Muore Fidippide, dopo aver corso per la patria. Abebe corre scalzo e richiama l’attenzione di tutti sulla sua patria, l’Etiopia, dove l’esser scalzi è una consuetudine. Corre Abebe e diventa immortale: tutti si ricorderanno di lui, di quell’arrivo a piedi scalzi, in una notte romana illuminata dai fuochi delle torce, tremolanti per il ponentino e rallegrate dalle falene. Tutti si ricorderanno di lui e se ne ricordano ancora. Anche quando quei piedi si saranno fermati per sempre: prima per un incidente di auto, poi per una malattia. Lo aspettavano altrove, a piedi scalzi con il rispetto dovuto a chi conosce la sofferenza. Roma, così bella per così poco tempo: da giovedì 25 agosto a domenica 11 settembre 1960. Tre settimane di sogni olimpici in quella Roma da cartolina. «Erano giorni felici» e si chiude così I giorni dell’oro, il romanzo di Francesco Pinto.

Fine di un mondo. È strana la storia. Dodici anni dopo, nello stesso giorno (l’11 settembre) finisce l’ Olimpiade di Monaco. E siamo all’inizio dei Settanta. Anni forti, crudi, di contrapposizione politica, di schieramenti ideologici. Si apre quel periodo in cui poteva essere un problema vestirsi: indossando un cappotto di Loden si corre il rischio di essere presi a bastonate sinistre, perché fascisti. Se si indossa un Eskimo si rischia di essere presi a bastonate destre, perché comunisti. Circolare con un quotidiano indipendente (ma stimato di destra) sotto il braccio, viene immediatamente notato e, se necessario, sottolineato con provocazioni. E così per un quotidiano analogo di sinistra. E le città sono divise in zone di influenza, come nel Medioevo. Nel Medioevo i quartieri cadevano sotto la giurisdizione ora di questo, ora di quel signorotto; negli Anni 70 gli stessi quartieri rientrano sotto l’influenza ora di questa, ora di quell’altra sezione di partito contrapposto. I colori di Roma, di Milano, di Palermo, come di ogni altra città italiana degli Anni 60, si sono stemperati, e dal benessere si passa ad un malessere diffuso. Un’aria grave e la gente, in quell’inizio dei Settanta, cammina veloce, per strada. Quasi ad evitare la possibilità dell’arrivo di un problema, prima o poi. Finiscono le Olimpiadi del 1960 e finisce anche il modo di salutarsi per strada, con un sorriso, mettendo mano al cappello di fronte ad una signora. L’11 settembre 1972 si chiudono i Giochi olimpici di Monaco. Un attentato terroristico sigilla la manifestazione e trasforma tutto in violenza. Iniziano i Settanta. È un simbolo: l’ Olimpiade di Roma si chiude fra colombi, passeracci in volo e le note dell’Inno al Sole di Mascagni. Quella di Monaco, con gli elicotteri dell’antiterrorismo e le sirene spiegate di ambulanze e forze dell’ordine. 11 settembre 1972: è finito un mondo, per lasciare posto ad un altro. E quel mondo ha perso il sorriso.

2 - fine