Massimo Calandri, il venerdì 19/8/2016, 19 agosto 2016
IL FANTINO DI SUA MAEST
[Lanfranco Dettori]
NEWMARKET. La giornata di Frankie comincia alle cinque, che fuori è ancora buio e di solito piove. Il gorgoglìo di una moka, nel silenzio un po’ triste dei prati del Suffolk. Sono passati trent’anni, sembra ieri. Quando arrivò si chiamava Lanfranco: un adolescente spaventato, solo, che inseguiva il sogno di diventare come papà. Uomo, campione. Oggi è l’italiano più famoso e amato del Regno Unito, ricco e celebrato persino dalla Regina Elisabetta: eroe di uno sport antico – le corse dei cavalli – che da queste parti non è una tradizione, no. È una religione. Oggi Lanfranco è Frankie Dettori: il fantino di Dio, appunto. L’altra settimana ha festeggiato il successo numero 2.998 di una carriera impossibile: una media di cento corse vinte ogni anno, mai nessuno così. «Non è finita. Non ancora», promette. Intanto dalla moka esce un buon profumo di caffè. Un sorso. E mezza scodella di yogurt con tre gherigli di noce sbriciolati, un cucchiaino di miele. Basta cosi, è tempo di cavalcare. «Fortuna che siamo ad agosto». Sì, che fortuna: non pioverà.
Newmarket, un villaggio a un’ora e mezza d’auto da Londra, è il centro di gravità dell’ippica mondiale. Con uno storico ippodromo, scuderie che ospitano i migliori esemplari, un ospedale equino. E un terreno sterminato di erba grassa messo a disposizione dal prestigioso Jockey Club per i galoppi d’allenamento: 2.500 acri, l’equivalente di mille campi da calcio. Frankie monta un purosangue: prima gli parla, lo accarezza. Quei due sembrano una cosa sola. Corrono per un miglio circa. «Bravo, good boy». Domani toccherà a un altro cavallo, e a un altro ancora. Sorride. «Hanno un sesto senso: se gli trasmetti delle emozioni positive, possono darti molto di più. Io ho una bella famiglia, sono sereno, i cavalli lo sentono: forse è questo, il mio segreto».
Sono passate da poco le sette del mattino, quando torna a casa. Vive in affitto in un bel cottage del centro del paese, in attesa che sia pronta la nuova villa che sta facendo costruire poco lontano. Un sonnellino. «Da ragazzo mi bastava dormire tre ore, adesso mai meno di otto: ho 45 anni, sono un vecchietto». Un secondo caffè, quindi palestra: 9 chilometri di tapis roulant con indosso una tuta della Juventus e sopra giacca e altri pantaloni di nylon, un berretto. «Di solito perdo un chilo e mezzo o due». Il peso, la condanna dei fantini. «Devo restare intorno ai 55, sono alto 1,63». Un’ossessione. «Prendevo diuretici, lassativi, vomitavo. Sciocchezze. Col tempo ho imparato a mangiare poco: pollo, pesce, insalata». È dura, Frankie. «Saranno 15 anni che non tocco un hamburger. E quando penso al porceddu, alla pasta che cucina mio padre...».
Gianfranco Dettori, 75 anni. Figlio di un minatore di Serramanna, 40 chilometri da Cagliari. Lui da adolescente non è mica andato a Londra. Lavapiatti a Roma, poi inserviente all’ippodromo delle Capannelle: c’era un cavallo che nessuno riusciva a domare, ci saltò sopra per scommessa ed orgoglio – non aveva mai montato in vita sua – e cominciò questa saga familiare. Per 13 volte campione italiano. Un piccolo uomo di granito. Lo chiamavano Il Mostro. «La mamma, Ines Maria, era una nomade circense: contorsionista. Ho preso qualcosa da entrambi». Frankie è nato a Milano, ha frequentato le scuderie che era ancora in culla. «Un giorno papà mi dice: “Vai in Inghilterra, ti insegneranno il mestiere”».Newmarket. Pioggia, freddo, nevischio. «Avevo 15 anni, non parlavo la lingua, il cibo mi faceva schifo». In Italia lo tenevano chiuso in casa per paura dei rapimenti. «Quassù invece ho scoperto che ero libero, per la prima volta. E piacevo alle ragazzine».
Un’ora di palestra quotidiana, niente pesi: «Perderei in agilità». Un lungo massaggio. Sulla spalla destra ha tatuate le teste dei quattro mori. «Mi sento sardo fin nel midollo». Sulla spalla sinistra, la scritta «Italia» e 5 stelle. Una per ogni figlio: Leo, Ella, Mia, Tallula e Rocco. La moglie Catherine è bionda, dolce, innamorata: «Ma si lamenta per come dormo: stanza buia, mascherina sugli occhi, braccia incrociate sul petto. Dice che le sembro dentro una bara». Il padre di Catherine è un professore universitario della vicina Cambridge: William «Twink» Allen, forse il più famoso veterinario di cavalli del mondo. Esponente di Ukip, il partito di Nigel Farage: quelli della Brexit. «Sono italiano, non ho votato. William è uno scienziato, parla difficile: diciamo che a volte non lo capisco, ecco. La Gran Bretagna esce dall’Europa?». Ride. «Speriamo non mi caccino».
Frankie ha trionfato in tutte le gare più importanti del mondo, in 24 nazioni diverse. Vent’anni fa ad Ascot ha vinto 7 corse in una sola giornata: «La più grande impresa della mia vita». Il Tempio dell’ippica gli ha dedicato una statua, la famiglia reale gli ha conferito l’Ordine dell’Impero Britannico. «Ma le cose non sono sempre andate bene». Col dito indica un terrapieno alle spalle della linea di partenza dell’ippodromo di Newmarket. «La gente lo chiama il Canale del Diavolo. Nel Duemila ero su un piccolo aereo che s’è schiantato proprio lì. Il pilota è morto. Mi hanno tirato fuori un secondo prima che esplodesse tutto». Quando cadi da cavallo, metaforicamente o no, devi subito risalire in sella. «L’ho fatto. Sono tornato a correre, a vincere. Il mio destino».
Fino al novembre del 2012: positivo ad un controllo anti-doping. Cocaina. Sei mesi di squalifica. Addio al contratto che lo legava al team Godolphin dello sceicco di Dubai. «La cosa più difficile è stato dirlo a mio padre: che vergogna». E quattro mesi dopo il nuovo rientro, caviglia fratturata. «Finito? Neanche per idea. Quando cadi da cavallo...». Ora corre per la scuderia dello sceicco del Qatar, Al Thani. In ascensore soffre di claustrofobia. «Non mi siedo mai dietro, in auto. Preferisco guidare io. E ho imparato a dare il giusto peso alle cose».
Pomeriggio all’ippodromo, 4 giorni alla settimana: Regno Unito, oppure in giro per il mondo. D’estate, che al nord il sole cala più tardi, si comincia alle due e si finisce alle otto. Anche oggi, e domani. La Jockey Room di Newmarket, lo spogliatoio, è uno stanzone col vecchio tetto coperto di paglia. Odore di cuoio, legno. Frankie abbraccia Andrea Atzeni, un altro fantino sardo: «Il mio erede» garantisce. Fuori, una folla di appassionati vestiti elegantemente – uomini in giacca e panama, donne con cappelli strampalati – aspetta entusiasta il passaggio del proprio eroe. C’mon, Frankie. Dopo la gara, il solito gioioso rituale: autografi, selfie, interviste. C’è pure una riffa, una dozzina di signore eccitatissime vince un bacio dal campione italiano. Foto di gruppo.
«Almeno stasera non porto fuori i cani per la passeggiata» sorride sfinito, rientrando al cottage. «Sono stato anche troppo all’aperto, in questi anni. Fosse per me, vivrei chiuso in una stanza con un maxi-televisore: mai senza telegiornale, e poi sport». Tifa Arsenal, Juve, un po’ di Nazionale e gli altri campioni azzurri: Valentino Rossi, che gli assomiglia parecchio per talento e longevità. «Quando smetto? Di sicuro arrivo ai 50. Poi, vedremo a ogni stagione».
Paolo Benedetti, mediatore internazionale di cavali, amico e agente italiano di Dettori, uno dei più grandi esperti del settore, scommette su di lui per altri dieci anni: «Frankie lascerà il giorno prima di accorgersi di non essere più al suo livello». Il fantino ci sta. «Ho già guadagnato abbastanza, non è una questione di soldi» confessa. «È l’entusiasmo intorno, la gente che ti riconosce e urla il tuo nome. È la passione per la corsa, per la sfida. Per la rimonta. È il piacere di cadere, e ogni volta tornare in sella. Il mio destino».Trent’anni di corse, tremila le ha vinte. Sembra ieri. C’mon, Lanfranco, domattina un’altra sveglia alle cinque. Che fortuna, non pioverà. «E non è finita. Non ancora».
Massimo Calandri