Riccardo Staglianò, il venerdì 19/8/2016, 19 agosto 2016
CHI RESTA IN EUROPA NON PIGLIA PESCI
GRIMSBY. Alla fine il sessantenne Andrew, tuta arancione con bande catarifrangenti e capelli biondi spettinati alla moda di Trump, snocciola la sua ricetta dalla bagnarola all’ormeggio: «Una volta, alle elementari, chiacchieravo con un compagno. La maestra se ne accorse e ci fece mettere in ginocchio, uno davanti all’altro. Poi ci disse: ora abbaiate! Tutto intorno gli amici ridevano. Imparammo la lezione. Oggi non sarebbe più possibile, in compenso viviamo nell’anarchia». Si stava meglio quando si stava peggio. E, che sia troppo lasca o eccessivamente severa, la colpa è sempre di Bruxelles. Perché una volta qui c’erano seicento pescherecci e oggi ne sono rimasti sei. Nel mezzo c’è stata l’Europa e le sue regole che hanno stabilito dove, come e quanto gettare le reti. Però Brexit, sperano, – cambierà tutto di nuovo. «Dopo la Prima guerra mondiale ci siamo ricompattati, abbiamo ricostruito il Paese tra l’invidia di tante nazioni. All’indomani della Seconda guerra mondiale ci siamo arrotolati le maniche e abbiamo reso
la Gran Bretagna ancora più grande, tra l’invidia del mondo. Adesso è arrivato il momento di rifarlo, lasciando da parte le divisioni e le pugnalate alla schiena, perché se è davvero unito il nostro Regno non lo ferma nessuno». Così parlò mister Nostalgia Canaglia.
Il declino dell’industria ittica di Grimsby, tre ore d’auto a nord est di Londra, sembra un classico caso di fallacia post hoc, propter hoc. Ma non basta che una cosa succeda dopo un’altra perché la prima ne sia la causa. Prato, con il tessile, insegna. Prima era la quinta provincia più ricca d’Italia, poi sono arrivati i cinesi e le fabbriche hanno cominciato a chiudere. Il problema però non sono gli orientali immigrati in Toscana, che si occupano solo di confezioni, ma le esportazioni di filati dalla Cina che hanno tramortito il business locale. Analogamente i pescatori inglesi ricordano le ricche battute di un tempo, vedono quelle magrissime di oggi e puntano il dito contro gli euroburocrati. «Le statistiche non fanno un pranzo nutriente per una famiglia affamata» spiega bene James Meek sulla London Review of Books, «ma la verità è che il crollo più drastico nel numero di pescatori è avvenuto tra il ’48 e il ’60, quando passarono da 26 a 13 mila». Dieci anni prima dell’inizio della cosiddetta «guerra del merluzzo» e addirittura ventitré dalla Common fisheries policy imposta dall’Unione europea. Se però ti fai un giro al Fishing Heritage Center, il museo della tradizione marinara, con le prime pagine dei giornali degli anni 50 che titolavano con orgoglio sul «porto ittico più grande del mondo», con tanto di foto di montagne di eglefino sulle banchine e poi fai un salto tra i docks il confronto stringe il cuore. «Un tempo, non troppo tempo fa» mi dice Andrew Allard indicando dalla finestra della sua Jubilee Fishing che possiede l’ultima piccola flotta rimasta «si poteva camminare da una parte all’altra degli attracchi passando di nave in nave». Adesso si vede solo uno specchio d’acqua. Il mercato del pesce è rimasto al suo posto, un enorme stanzone con tante entrate laterali da dove ieri conferivano i pescherecci locali e oggi i container refrigerati che vengono dalla Norvegia o dall’Islanda. È sempre Allard a parlare: «Non peschiamo più, ma lavoriamo ancora il pescato altrui. Un’industria dimezzata. Mentre, ogni anno, i 28 rappresentanti dei Paesi Ue vanno in visita a Oslo per rinegoziare i loro diritti di pesca. Tutta un’altra cosa, no?». Alla fine il discorso casca sempre lì: essere (o meno) padroni in casa propria.
«È come se volessero insegnarvi come fare il gelato!» si inalbera John Pett, pescatore di granchi teoricamente in pensione, che non ha mai lasciato l’Inghilterra e ha un’idea un po’ stilizzata del Made in Italy. Ha affittato la sua barchetta a due ragazzi della zona perché dopo un infarto non dovrebbe fare sforzi, però alla fine gliela pulisce e fa il rifornimento di gasolio perché è ciò che ha sempre fatto. Continua a ripetere come un mantra che la situazione è «oltre la pazzia» e indica, come fosse maledetto, il palazzo dell’autorità portuale che deve far rispettare tra l’altro la grandezza delle trappole per acchiappare aragoste e granchi. Ha una pensione ridicola perché, nei giorni belli, è stato anche lui un three days millionaire, milionario giusto per i tre giorni di pausa a terra ogni tre settimane in mare che festeggiavano su Freeman Street, tra bevute e donnine ugualmente leggendarie. Quei bagordi se li ricorda bene anche il settantaduenne Billy Hardie, che allora era uno skipper specializzato in pesca d’altura. Tra gli ultimi, nel ’75, a sfidare il divieto islandese di pescare entro 200 miglia dalla sua costa, come aveva sempre fatto quando erano acque internazionali. La Cod War fu quella cosa lì. Per un po’ la marina di Sua Maestà scortò Hardie e gli altri, mentre i guardiacoste vichinghi gli tagliavano le reti. Poi, nel ’76, Reykjavik spiegò agli Stati Uniti che se volevano continuare a usare una base militare strategica in chiave anti-russa dovevano convincere Londra a rispettare i confini. Fine della guerra e prima brutta botta per Billy and friends. «Per fortuna i tre quarti di quel che pescavamo era in acque britanniche» dice offrendomi un tè nel salottino della sua bella casa di mattoni, comprata quando gli affari giravano. Nell’83 cade la seconda tegola. Bruxelles introduce le quote. Il pescoso mare del Nord adesso se lo dovranno dividere, oltre agli inglesi, i danesi, i portoghesi e gli spagnoli («Che non le hanno mai rispettate!»). «Siamo passati in media da 160 tonnellate per imbarcazione a 23, che bastano si e no a mangiarci due mesi!» tuona, e siccome su questo omicidio merceologico secondo lui ci sono le impronte del Labor «che se ne è fregato di noi, convinto che fossimo un puzzolente passato», dopo decenni di voto a sinistra si è convertito all’Ukip, alfiere della secessione da Bruxelles. Che qui è passata con circa il 70 per cento: «Ora, se ce la giochiamo bene, potremmo ricominciare a pescare come vogliamo e l’industria ripartirà. Più in generale credo che, fra tre-quattro anni, ci ringrazierete per aver dimostrato che uscire dall’Europa e prosperare è possibile». In bocca al lupo.
Al fatto che riconquisteranno pieni diritti di pesca e magari le 200 miglia esclusive come l’Islanda ci credono in pochi. Non il titolare di Excel Seafoods John Nicholson che ha una sua affezionata clientela tra i sopravvissuti dei docks, che però non teme neppure che gli si restringa il mercato («Il grosso già oggi lo vendiamo in Russia»). Né Allard che infatti sta cercando di vendere la ditta. Meno che meno Steve Elliott, uomo chiave del Labor locale, che ha prima aiutato Austin Mitchell, per vent’anni il parlamentare espresso da questo distretto, e poi Melanie Onn, la donna che da poco ha preso il suo posto: «I marinai qui soffrono di amnesie selettive. Per esempio dimenticano sempre di citare il ruolo che ha avuto la nuova generazione di una dozzina di super-pescherecci nel far fuori centina di pescherecci normali. Il fatto che ormai basta un quinto della forza lavoro per trattare il triplo del pesce. E sottovalutano dolosamente di menzionare l’alternativa all’orizzonte: l’eolico offshore che sta rivitalizzando i docks morenti». Parla delle duemila turbine già installate a poche miglia da qui e delle migliaia di posti di lavoro per la loro manutenzione che dovrebbero andare alla manodopera locale.
Tuttavia non sfugge all’autocritica: «Il fronte del Leave è stato bravo nel cavalcare il risentimento. Hanno ripetuto ad nauseam la mezza verità dei 350 milioni di sterline versati ogni settimana a Bruxelles (l’altra metà erano i soldi che invece tornavano indietro, come finanziamenti vari). E noi laburisti siamo stati visti come distanti, gente in giacca e cravatta non più in sintonia con i pescatori che prima rappresentavamo». Uno scollamento paneuropeo, che non fatichiamo a visualizzare.
E dunque? La verità scomoda è che, se il declino ha molti padri, anche la salvezza ha una genealogia articolata. La mitica Islanda, che qui gli scontenti della globalizzazione dipingono come l’Eden della pesca, in realtà perde colpi. Negli anni 80 impiegava 60 mila persone contro le ottomila odierne. Dopo la Cod War, di cui la vulgata vuole vincitrice, in proporzione ha perso più pescatori della Gran Bretagna. E anche il Canada, spesso citato a esempio di autodeterminazione marittima, non sembra un gran testimonial. Nelle loro 200 miglia esclusive a Newfoundland hanno pescato in maniera così sconsiderata da quasi estinguere il merluzzo, facendo fuori 45 mila posti di lavoro praticamente da un giorno a un altro. Esattamente quello, con buona pace degli arrabbiati di qui, che le quote servirebbero a evitare. Si può discutere se sono calcolate bene o male, ma scambiarle per la prova ontologica dell’eurosadismo è sbagliato. Ovviamente qui l’argomento non attecchisce. La disoccupazione è il doppio del 5 per cento nazionale e quella giovanile tocca un quarto dei ragazzi. Andar per mare era un lavoro duro, ma anche eroico. David Ornsby, il trentenne direttore del museo della pesca, fa un fermo immagine su un video di mezzo secolo fa: «Quello al timone è mio nonno!». Fisher pride. Se anche rimpiazzeranno parte dei posti di lavoro persi, le turbine tedesche di proprietà danese difficilmente conferiranno lo stesso status. Gli umiliati e offesi di Grimsby sanno, nel profondo, che non torneranno più quelli di prima. Dare la colpa a come gira il mondo è un pensiero astratto che ai pescatori repelle. Sono più bravi, al limite, con i serpenti di mare. Ne hanno trovato uno in Belgio e non hanno chiesto di meglio.
Riccardo Staglianò