Emiliano Morreale, il venerdì 19/8/2016, 19 agosto 2016
DUE MESI A SELEZIONARE FILM?PARLIAMONE
I pochi turbinosi giorni dei festival del cinema passano in fretta, per chi ci ha lavorato nei mesi precedenti. Nelle lunghe estati calde, i selezionatori di molti festival sono nel picco del lavoro. Venezia chiude i giochi a fine luglio, mentre sono ancora all’opera le selezioni di Roma e di Torino. Ho lavorato a Torino con direttori-registi (Moretti e poi Amelio); e poi, nel 2012, a Venezia con Barbera. E in quel caso la selezione si fa lì, sul posto, ben prima che si comincino a montare le impalcature. Mentre si guardano e si scelgono i film, un buon equilibrio tra i selezionatori è fondamentale. Ma altrettanto importante, tra persone che si ritrovano a lavorare insieme, è l’affinità caratteriale. In una situazione come quella del Lido, poi, questo è essenziale, pena il rischio di trasformarsi in una situazione da reality tipo L’isola dei selezionatori. A Venezia, proprio perché ci si trova lì per due mesi, dalla fine di Cannes all’annuncio ufficiale del programma, c’era a tratti, nonostante i cinque, sei, dieci film al giorno da vedere, un’atmosfera da vitelloni fuori stagione.
Idealmente, tra chi sceglie i film dovrebbe esserci ad esempio il cinefilo rigoroso, quello che non scende di un gradino sotto le cinque ore di Lav Diaz e venera le riprese di panorami di James Benning, o si eccita allo sfrigolare della pellicola maledicendo il digitale. Ma anche quello che ha maggior occhio per il film di genere, o chi apprezza il film da festival mainstream, l’autore europeo o extraeuropeo che non può mancare. Oltre al valore del film, si cerca una certa varietà della programmazione e si tiene in conto la provenienza geografica (non si possono avere, per dire, dieci film francesi in concorso, o trascurare interi continenti).
Dal Lido, poi, si viene a volte spediti per brevi raid nei Paesi principali, a saggiare le ultime novità. Personalmente, mi capitò di vedere a Monaco la semi finale Germania-Italia degli scorsi Europei, quella con la doppietta di Balotelli. In una situazione da Pane e cioccolata, mi ero mimetizzato in una birreria di Monaco (con tutti i pregiudizi novecenteschi su ciò che le birrerie di Monaco possono generare). Per fortuna al primo gol dell’Italia la birreria esplose in un boato: gli avventori erano tutti italiani sotto copertura, come me, e soprattutto decine di greci animati da odio anti-Merkel (era l’anno del default e delle feroci sanzioni europee).
In molti luoghi, però, deve andare per forza il direttore, col risultato che magari il povero selezionatore si trova a non aver visto alcuni dei film più ghiotti, quelli che appunto non vengono inviati, ma mostrati in visione riservatissima, a Los Angeles o Parigi. I film americani li abbiamo visti in sala come tutti: To the Wonder di Malick, The Master di Paul Thomas Anderson, e l’iper-pop Spring Breakers di Harmony Korine, che mentre vedevo in sala pensavo: ci linceranno. Invece riviste prestigiose, tra cui i Cahiers du cinéma, e un numero non indifferente di cinefili lo giudicarono il miglior film di quell’anno.
Quasi tutti i film arrivano all’ultimo momento, e oltre. A volte con dei semilavorati, non perfettamente missati, col colore non corretto. Ricordo un film filippino di Brillante Mendoza, che poi fu preso in concorso, proiettato sullo schermo della Sala Grande in bassa definizione con dei pixel grandi mezzo metro. Eppure, era bello lo stesso. Ci sono poi i film italiani. Tanti, tantissimi. Ma la pressione dell’industria e della politica, per quel che ho visto, è sempre meno forte: il passaggio a Venezia, al di là del prestigio, per un certo tipo di film può rivelarsi simile a una fossa dei leoni: fischi, agguati, con i giornalisti pronti ad amplificare.
L’epoca del manuale Cencelli (un film alla Dc, uno alla Psi, uno al Pci, secondo le reti Rai) è storia di trent’anni fa, così come la spartizione tra Medusa (nel frattempo ritrattasi) e RaiCinema.
Frattanto, i selezionatori chiusi al buio macinano film, tra monitor e proiezioni nella Sala Grande vuota e ricoperta di teli. 1.400 titoli, tutti da visionare, perché chiunque, pagate le poche decine di euro della quota di iscrizione, può sottoporre il proprio lavoro a un festival, e i film vanno comunque visti tutti. Anche il thriller boliviano di serie Z, il saggio di fine anno di un liceo.
Grande è però l’emozione quando, in maniera imprevista, magari da parte di un autore sconosciuto o da cui non ci si aspettava molto, arriva il film che fa innamorare, la sorpresa. Quell’anno, tutti portavamo in palmo di mano il film israeliano di una regista esordiente, La sposa promessa, tirato fuori tra gli altri da una pila di dvd: era il nostro prediletto.
Infine, rinsavito dall’overdose di film, uno torna a controllare in sala i titoli che ha scelto. E ha delle curiose sorprese, dal pubblico e da se stesso. Per una volta, il critico passa dall’altra parte della barricata: parteggia per i film che ha scelto, li difende contro i colleghi.
A volte è stupito dalle reazioni: apprezzamenti per film sui quali temeva la catastrofe, o viceversa. O peggio ancora: si accorge che in pochi mesi il film che gli era così piaciuto è pieno di difetti. Poi finisce tutto, e ci si chiede se davvero è tutto qui, se ne valeva la pena; tanto lavoro, per un evento in fondo così effimero. E col senno di poi, anni dopo, tornando indietro, si vorrebbe magari correggere le scelte fatte, scambiare un film con un altro. Non tanto, magari, ma qualcosina sì: ad esempio, ogni tanto penso che peccato è stato non prendere in concorso il bellissimo film di Leonardo di Costanzo, L’intervallo.