Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 19/8/2016, 19 agosto 2016
FALLISCE ANCHE LA COALIZIONE SOCIALE. STORIA DI UNA CRISI
C’è il caso del referendum sulle trivelle di aprile che non ha raggiunto il quorum, pur portando alle urne 16 milioni di votanti. E c’è il caso del referendum sull’acqua, tradito con un disegno di legge – che dovrà essere discusso in Senato – che non contiene le indicazioni date dagli italiani con la consultazione del 2011. Le conseguenze di questi due “tradimenti” le abbiamo raccontate ieri, vanno dai nuovi favori del governo ai petrolieri all’ingerenza della finanza nella gestione del sistema idrico del sud pontino. Ma c’è un altro tipo di fallimento, quello di chi non è riuscito a raccogliere neanche le 500mila firme necessarie per indire un referendum , sconfitte che testimoniano anche della difficoltà di rapporto tra l’associazionismo o più genericamente la società civile che s’impegna in politica e la generalità dei cittadini. Non una buona notizia per lo stato della nostra democrazia.
Il primo caso è quello del comitato per i Referendum Sociali, l’organizzazione che promuoveva i quesiti su Trivelle Zero (stop a tutte le richieste, anche oltre le 12 miglia), contro gli inceneritori e la Buona Scuola. Un’organizzazione che sembrava unita e omogenea a inizio campagna: ad aprile il Manifesto parlava di “movimenti, sindacati e associazioni che già rilanciano la battaglia a tutto campo contro Renzi e il Pd”, di una “stagione referendaria” che portava la firma anche del segretario della Fiom Maurizio Landini, dell’appoggio unitario della Flc – Cgil (ramo che si occupa dei lavoratori in ambito culturale), dei Cobas e della Usb. Centinaia di partecipanti all’assemblea nazionale del 13 marzo a Roma, impegno sdoganato a tutti i livelli, dalle associazioni territoriali ai sindacati. E l’idea di creare un’ “alleanza sociale” dal basso. Così il 9 aprile inizia la raccolta firme. Insieme ai quesiti c’è una petizione promossa dal Forum dei movimenti per l’acqua contro la legge delega sulla riforma della pubblica amministrazione, che rilancia la privatizzazione dei servizi pubblici e delle partecipate. Banchetti, piazze, mobilitazione. Nello stesso periodo, è in corso la propaganda per il referendum sulle trivelle entro le 12 miglia, anche questo nato dai comitati territoriali (anzi da una sorta di scissione dal comitato Trivelle Zero).
Il conteggio delle firme per i quesiti sociali inizia il 29 giugno. E qui, la sorpresa: solo 200mila sottoscrizioni per i quesiti ambientali, ma 510mila per la Buona Scuola. I promotori dei quesiti ambientali accusano i sindacati di essersi sfilati in corsa: prima tra tutti la Flc Cgil, che avrebbe raccolto le firme contro la Buona Scuola ignorando trivelle, inceneritori e acqua. Stessa Cgil che il 2 luglio deposita alla cassazione tre milioni di firme per un referendum contro il Jobs Act.
L’accusa è che pur avendo aderito espressamente e pubblicamente al lancio di una campagna referendaria unitaria, il sindacato abbia poi raccolto solo le firme per la scuola, tema che interessa direttamente i suoi iscritti . Tanto che, qualche settimana fa, il “Comitato referendario per la Scuola” ha diffuso un comunicato autonomo con l’annuncio della raccolta di oltre due milioni di firme (500mila per ognuno dei quattro quesiti) e del loro deposito in Cassazione, senza citare né i Referendum Sociali né l’esito delle altre iniziative.
Il secondo fallimento è quello dei comitati per il No al referendum costituzionale di novembre . Qui la raccolta si è fermata a 300mila (quella contro l’Italicum a 420mila): nessun appoggio politico, la ritrosia dei media nella diffusione delle ragioni del No e l’assenza di una rete di relazioni come quella su cui ha invece potuto contare il Pd (nel caso delle firme per il Sì alla riforma Boschi, l’appoggio della Coldiretti) e ovviamente dei soldi: a spanne, raccogliere le firme per un referendum – soprattutto se non sei un partito – costa tra i 300 e i 500mila euro (per questo, chi ce la fa riceve un rimborso di un euro a firma).
A pesare nelle sconfitte, però, sono state anche le difficoltà pratiche e logistiche nella raccolta delle sottoscrizioni. L’autenticazione, ad esempio, deve essere effettuata da consiglieri provinciali e comunali o da dipendenti della P.a. e cancellieri di Tribunale autorizzati che, però, vanno pagati (20 euro l’ora). Spesso poi ci si mettono pure i sindaci a creare problemi nelle autorizzazioni per i banchetti della raccolta firme. Infine c’è il caos per l’utilizzo della Pec, la posta elettronica certificata, che dovrebbe rendere più veloce e meno dispendioso l’iter di richiesta e rilascio dei certificati: il governo sostiene che la Pec si può usare senza problemi; i Comuni replicano che i certificati via Pec non hanno valore; il governo fa spallucce. Come dire: i movimenti non riescono forse a coinvolgere le masse, ma anche l’amministrazione pubblica ci mette il suo.
di Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 19/8/2016