di Marco Palombi, il Fatto Quotidiano 19/8/2016, 19 agosto 2016
I MILIARDI FALSI DELLA MANOVRA D’AUTUNNO: UNA GUIDA PRATICA
Si ricomincia. Dopo Ferragosto, come ogni anno, in tv e sui giornali torna la manovra economica. Una breve guida per spiegare da dove nasce il mare di miliardi di cui il governo ha bisogno per accontentare l’Ue e rispettare le sue promesse. Dove e se li troverà è un’altra faccenda: questo esecutivo è incartato, per colpe anche non sue, e non può andare oltre il piccolo cabotaggio.
Flessibilità. Con l’avvicinarsi della sessione di bilancio autunnale riparte la tarantella sulla flessibilità. Ci si riferisce a quella riguardante la riduzione del rapporto tra deficit e Pil verso il pareggio tra entrate e uscite dello Stato compresi gli interessi sul debito. L’idea è balzana, ma gli ultimi governi italiani si sono impegnati in questo senso con l’Ue, per cui il pareggio di bilancio è una sorta di religione: anche l’esecutivo Renzi ha contrattato il percorso, che prevede il pareggio al 2019. Veniamo a oggi: dopo aver ottenuto uno sconto dell’1% del Pil per quest’anno (16 miliardi circa), ora il governo ne vorrebbe uno da 10 miliardi anche nel 2017. Problema: per l’anno prossimo abbiamo già ottenuto “flessibilità”. Sui nostri documenti di bilancio, infatti, si prevede ancora un deficit-Pil all’1,1%, mentre la Commissione Ue – in una lettera del 16 maggio – ci ha concesso di spostare l’obiettivo all’1,8% (un risparmio di circa 11 miliardi), vincolandoci a una correzione del deficit dello 0,6% (quasi 10 miliardi).
Clausole Le famose “clausole di salvaguardia” ce le portiamo dietro dai tempi di Tremonti e servono ad assicurare a Bruxelles sul raggiungimento degli obiettivi di bilancio. Attualmente valgono 15,1 miliardi di aumenti automatici dell’Iva l’anno prossimo e 19,5 miliardi dal 2018 (compreso l’aumento delle accise sulla benzina). Il governo s’è impegnato a “sterilizzarle”, cioè a trovare i soldi da un’altra parte per evitare che salgano le tasse: siccome la correzione nel rapporto deficit-Pil richiesta per il 2017 è di circa 10 miliardi, una parte delle clausole (5 miliardi) può essere aggirata senza problemi. Il resto dei soldi devono arrivare da tagli di spesa o maggiori entrate.
Crescita. In realtà per risolvere il problema dei conti pubblici la via maestra sarebbe la crescita, ma non pare aria: variazione nulla nel secondo trimestre, previsioni per l’intero anno che parlano di un +0,8% di aumento del Pil contro il +1,2% previsto dal governo. Non solo, nel cosiddetto Pil nominale, quello su cui si calcola il rapporto col debito, si tiene conto anche dell’aumento dell’inflazione: anche qui stime ottimistiche (+1% a fine anno, ma a luglio eravamo ancora sotto lo zero). Questo ha un effetto trascinamento anche sui conti pubblici, il cui metro di misura è appunto il Pil: a spanne il governo potrebbe trovarsi nel 2017 con un buco di 3-5 miliardi.
Irpef Agli impegni di bilancio vanno aggiunte le promesse di Renzi, anch’esse da finanziare. Il taglio dell’Irpef è una delle più antiche. Le ipotesi sono varie: ridurre da 5 a 3 gli scaglioni di reddito costerebbe circa 9 miliardi; abbassare di un punto le aliquote del 27% e 38% (15-28 e 28-55mila euro di reddito) costa 3-4 miliardi.
Ires La tassa sugli utili delle aziende, l’Ires, dovrebbe essere tagliata dal 27,5% al 24%: il costo, secondo il bilancio 2016, è circa 3,3 miliardi.
Imprese Oltre al taglio dell’Ires, di cui beneficia solo chi fa utili, il governo pensa pure a una riduzione del cuneo fiscale sul lavoro da 7 punti. Costo: tra i 5 e i 7 miliardi. La proroga delle decontribuzione al 40% per le assunzioni stabili costa invece un altro miliardo per il 2017, la stessa cifra che serve per la conferma dell’ammortamento al 140% sugli investimenti delle imprese.
Pensioni In questo ambito il conto è difficilissimo. Dipende da cosa si deciderà di fare tra le mille cose dette e smentite. Per capirci, la proposta di flessibilità in uscita (permettere alla gente di andare in pensione prima) di Cesare Damiano, deputato Pd, costa 3 miliardi nel 2017 e 8 a regime: l’idea è non penalizzare troppo chi lascia il lavoro. La via tracciata dal presidente Inps, Tito Boeri, è più moderata e vale 650 milioni nel 2017 e circa 3 miliardi a regime. Nell’ipotesi migliore, invece, il governo vuole impegnare circa 2,5 miliardi per fare una serie di operazioni sulle pensioni, tra cui il famigerato Ape (per lasciare il lavoro in anticipo si chiede un prestito bancario, garantito dallo Stato, che poi si ripaga con la pensione).
Statali Hanno il contratto bloccato dal 2009 con una perdita di solo potere d’acquisto quantificabile in 130 euro netto al mese e un risparmio per lo Stato che il Tesoro ha calcolato nel 2015 in 35 miliardi. La Corte costituzionale ha sentenziato un anno fa che prolungare il blocco dei salari è illegale, il governo ha reagito stanziando 300 milioni (un aumento di meno di 8 euro lordi al mese medi per 3,3 milioni di persone). Ora, però, Renzi ha promesso “più soldi” e allora i sindacati hanno sparato: servono tra i 7 e gli 11 miliardi lordi in tre anni, cioè tra i 5 e gli 8 detratte le maggiori tasse in entrata.
Frattaglie. Promesse e impegni più piccoli, che insieme però costano miliardi. Ci sono le spese obbligatorie (tipo le missioni militari) per cui se ne vanno sempre un paio di miliardi; o gli impegni politici come la proroga del bonus bebè e un pacchetto di sgravi per le famiglie con figli (qualche centinaio di milioni l’anno); poi l’ecobonus, la detrazione per chi compra mobili, la proroga del bonus cultura ai diciottenni (500 milioni) e le boutade tipo l’eliminazione del bollo auto: contarle è impossibile.
di Marco Palombi, il Fatto Quotidiano 19/8/2016