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 2016  agosto 18 Giovedì calendario

LA TERZA VITA DI NONNO BILL

«Nella primavera del 1971 incontrai una ragazza». Bill Clinton ha iniziato con una nota lirica e un po’ nostalgica il discorso di presentazione della moglie Hillary alla convention del Partito democratico di Philadelphia. La folla ha accolto con un’ovazione l’incipit del racconto dell’eroe della sinistra globale. I più accorti però hanno afferrato immediatamente un dato: l’ex presidente stava parlando di un incontro che risale a 45 anni fa, un evento collocato in un’altra America e in un altro mondo, da coniugare ormai rigorosamente al passato remoto. I meno accorti hanno realizzato la lunghezza della parabola clintoniana quando Bill ha preso a raccontare, con impeccabile rigore cronologico, tutti gli avvenimenti che hanno segnato la vita della famiglia.
A quel punto uno sbadiglio è scappato anche al più fervente dei clintoniani, che si è visto snocciolare un’epopea interminabile, peraltro depurata dagli episodi meno onorevoli (il 1998 del Sexgate è stato saltato a piè pari) e d’improvviso è stato colto da una verità ineluttabile: Clinton è sulla soglia dei 70 anni. Il 19 agosto spegne 70 candeline, e molto probabilmente il desiderio espresso in silenzio sarà di rientrare alla Casa Bianca a novembre, stavolta al seguito di Hillary, in una carica tanto inedita da non avere ancora un nome definito. «First gentleman» è l’ipotesi più gettonata, ma si vedrà.
Da anni fra gli imbonitori della destra radiofonica e televisiva, quei rappresentanti della pancia repubblicana cresciuta a rabbia e anticlintonismo, gira la leggenda che Clinton abbia l’Aids, una forma di punizione per la sue scorribande sotto le lenzuola. Ma in questa campagna elettorale folle e senza precedenti riconoscibili i complotti sono stati affiancati da osservazioni più serie. Negli ultimi mesi, Bill ha dovuto cancellare alcuni appuntamenti per non meglio specificati problemi di salute, e sul palco di Philadelphia è apparso particolarmente fragile, affaticato e magro. Qualcuno ha anche notato un sospetto tremolio della mano.
Clinton negli ultimi anni ha subito diversi interventi, ma in larga parte non sono che acciacchi causati dall’età. Nell’immaginario collettivo, però, Clinton è il presidente eternamente giovane e vitale, il «comeback kid» che suona il sax e affascina il popolo democratico con l’accento del Sud, l’aitante combinatore di intrighi a sfondo sessuale.
Che lo si consideri un eroe oppure una canaglia, Clinton è la forza della politica giovane, l’opposto anagrafico del conservatorismo del vecchio Ronald Reagan, che ironizzava sulla sua età, dicendo che si ricordava bene di quella volta in cui gli uomini avevano inventato la ruota. Eletto alla Casa Bianca a 46 anni, è stato il terzo presidente più giovane degli Stati Uniti, superato da un emblema della giovinezza come John Fitzgerald Kennedy (la morte prematura l’ha consegnato alla storia così: un ragazzino sognante con i capelli scompigliati dal vento) e da Teddy Roosevelt, avventuriero di una grande casata americana rimasto nella memoria grazie ai libri di storia, non per esperienza diretta.
Clinton è stato il primo baby boomer a diventare presidente, e più che il simbolo di una generazione è stato un ponte fra mondi all’apparenza inconciliabili, il traghettatore dell’America nell’assetto post Guerra fredda. Con la sua «terza via» ha dato nuova linfa e visione a un’idea democratica e progressista che doveva ridefinirsi in base alle mutate circostanze storiche. Per questo è rimasto scolpito come un visionario e un innovatore, sostenuto da un’instancabile energia che la sua silhouette filiforme era in grado di rappresentare anche fisicamente.
La capacità di arringare e affabulare, affiancando la forza alle arti della persuasione ha fatto di Clinton la personificazione di una politica aperta e sorridente, guidata da un uomo furbo e bonario venuto dall’Arkansas e finito nei circoli dell’élite del nordest attraverso gli studi a Georgetown e Yale. Era il contrario esatto dell’establishment polveroso e usurato che la tradizione aveva consegnato al partito democratico, e la sinistra americana oggi guarda agli anni Novanta come a un rinascimento fatto di prosperità e progresso, con Bill nel ruolo di Lorenzo il Magnifico in salsa barbecue. Ora che la moglie Hillary corre, una volta ancora, per la Casa Bianca, quella visione sembra per certi versi un amarcord consumato, un tuffo in un passato mitico in cui la famiglia Clinton era un ricettacolo per outsider che si erano fatti strada da soli e avevano cambiato il mondo.
Ventiquattro anni dopo l’elezione di Bill, il nome Clinton è sinonimo di quell’establishment che l’eroe democratico aveva sconvolto con la sua carica di adrenalina e un physique du rôle adeguato. Già un altro semisconosciuto innovatore del vocabolario democratico, Barack Obama, ha disarcionato una corsa di famiglia a colpi di «hope» e «change», la speranza e il cambiamento che mancavano all’avversaria. Non è peregrino sottolineare quanto l’irresistibile corsa di Obama nel 2008 avesse in comune con l’ascesa di Bubba nel 1992: entrambi candidati del cambiamento e della rottamazione, giovani leader che volevano sconvolgere il panorama politico. I 70 anni di Bill assumono così il valore simbolico della fine di una stagione democratica. La convention che ha incoronato Hillary è stata a tratti un sequel di Ritorno al futuro in versione politica, con i protagonisti del clintonismo, da John Podesta a Terry McAuliffe fino al sondaggista Stan Greenberg, a calcare per l’ennesima volta il palco con più di un acciacco e la voce affievolita.
Sono i protagonisti di una stagione politica ambiziosa e spavalda che improvvisamente si sono trovati nel ruolo dei grandi vecchi dell’establishment democratico, a trascinare la corsa di quella che Obama ha definito «la candidata più qualificata della storia politica americana». L’esperienza, però, può tramutarsi repentinamente da asset strategico a fardello. La ragazza che Bill ha incontrato a un corso sul diritti civili a Yale è stata avvocato, attivista per la riforma del sistema educativo e della sanità, madre, first lady, senatrice, candidata sconfitta da un collega più giovane e molto meno noto, segretario di Stato, filantropa, eminenza grigia e kingmaker della politica di Washington. Infine è diventata nonna di due nipotini che ai suoi occhi, come a quelli di tutte le nonne del mondo, scavalcano per importanza qualunque leader politico, qualunque carica, qualunque agitazione geostrategica e calcolo diplomatico.
Le enormi difficoltà a fare breccia nell’elettorato più giovane, rimasto affascinato dal verbo socialisteggiante di un altro vecchio progressista, Bernie Sanders, testimoniano le strutturali difficoltà generazionali della famiglia un tempo simbolo dell’avvenire, oggi ricordo di un passato a tinte pastello che è in procinto di scolorire nella leggenda. A compiere 70 anni è nonno Bill, un infuso di saggezza solcato dai segni del tempo e rallentato dall’estenuante girare per il globo nel ruolo di padre nobile del partito democratico e portavoce umanitarista per conto della Clinton Foundation. Il grande giovane della politica americana oggi ha l’età che aveva Reagan quando, nel 1981, si insediò alla Casa Bianca. Ma la leggenda repubblicana non aveva mai fatto della giovinezza una bandiera. Bill era l’emblema del vigore giovanile e ora che la Casa Bianca è ancora una volta a un passo, subisce l’inesorabile avanzare del tempo.