Annalisa Chirico, Panorama 18/8/2016, 18 agosto 2016
QUANDO LA LEGGE NON SA LEGGERE
Se nei quasi cinque mesi di detenzione non avesse trascorso il tempo studiandosi le 32 mila pagine dell’inchiesta, riga per riga, Luigi Pelaggi forse non si sarebbe salvato. Invece alla fine è stato prosciolto, perché i suoi accusatori si sbagliavano: insieme a certe intercettazioni palesemente fraintese, avevano tralasciato nel fascicolo il documento che in modo inoppugnabile scagionava l’indagato. Per questo, oggi, la Procura generale della corte di Cassazione indaga sui magistrati che hanno gestito l’inchiesta. Pelaggi, il sopravvissuto, si limita a un lapidario commento: «Se la giustizia italiana funziona così, puoi davvero farti il segno della croce».
Calabrese, studi in legge, dopo una carriera in Assicredit e poi in Confindustria, nel 2008 Pelaggi accetta l’incarico di capo della segreteria tecnica del ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo. Nel 2010 la presidenza del Consiglio lo nomina commissario alla bonifica del sito una volta occupato dalla Sisas, industria chimica fallita, tra Pioltello e Rodano (Milano). La Procura di Milano avvia l’inchiesta nella primavera dell’anno successivo. «Per me, cresciuto in una famiglia di avvocati da quattro generazioni, l’avviso di garanzia fu una doccia fredda» racconta Pelaggi a Panorama. «Per cinque volte chiesi agli inquirenti di essere interrogato; presentai varie memorie scritte. I magistrati, però, non mi hanno mai convocato. E col passare dei mesi non capivo come mi sarei potuto difendere. Se uno non ti ascolta, come fai?»
Il 22 gennaio 2014, intorno alle 6 del mattino, i carabinieri bussano alla porta della casa romana di Pelaggi che, davanti allo sguardo attonito di moglie e figlio undicenne, viene arrestato e portato a Regina Coeli. «Ricordare quel momento è molto doloroso» dice lui, e la voce gli s’incrina. Per l’ex procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo, nei lavori di bonifica Pelaggi avrebbe intascato una tangente da 700 mila euro da una società che si era aggiudicata l’appalto. L’accusa più grave, corruzione, lo tiene in carcere per quasi cinque mesi, gli ultimi 15 giorni li passa ai domiciliari. Poi tutto cambia: in settembre il processo viene trasferito a Roma per competenza, il pm Paolo Ielo chiede il proscioglimento di Pelaggi e il gip lo accoglie nel maggio 2015.
La prova della sua innocenza risiede in due note della Guardia di finanza datate 8 settembre 2011 e 10 ottobre dello stesso anno: in quelle carte si capisce che i 700 mila euro non sono mai finiti nella disponibilità di Pelaggi. Entrambe le note, inserite nel fascicolo di 32 mila pagine, sono già a disposizione ben prima che i magistrati milanesi dispongano l’arresto di un uomo innocente. «Perché tutto questo, allora?» prosegue Pelaggi. « Me lo sono domandato spesso nelle interminabili giornate in carcere. Per tutti i detenuti, io ero lo “scrivano”: mi avevano allestito una specie di ufficio in una vecchia doccia, ed essendo io avvocato mi chiedevano pratiche e consulenze per i loro problemi legali. In cambio mi preparavano da mangiare. È stata un’esperienza umana sconvolgente».
Difficile, oggi, non provare sentimenti forti. «La rabbia c’è, ma io sono un combattente e non mi darò pace fin quando chi ha sbagliato non pagherà. Mi domando: perché nove magistrati hanno dato retta alle ricostruzioni del Nucleo ecologico della Guardia di finanza, ignorando le informative della stessa Gdf comprese nel fascicolo? Perché il pm di Milano non vede quella prova, mentre il suo collega di Roma la legge e chiede il mio proscioglimento? Prima di mettere in carcere una persona, bisognerebbe leggere le carte due volte. Nel mio caso non le hanno lette nemmeno una. Per fortuna l’ho fatto almeno io...».
A dire il vero, un po’ di confusione la si percepisce già nei tempi processuali. La richiesta d’arresto avanzata dalla Procura milanese nel gennaio 2013 ottiene l’autorizzazione del giudice solo il 19 dicembre di quell’anno. «E l’ordinanza fu firmata da un magistrato che di lì a poco sarebbe andato a svolgere un altro incarico alla terza sezione penale del Tribunale. Quando hanno eseguito il mio arresto, quel gip non era più in servizio. Mi hanno descritto come un uomo pericoloso a causa della “fitta rete di relazioni” che coltivavo nel mondo imprenditoriale e politico. Come se tutti gli imprenditori o i politici fossero malfattori».
Il carcere preventivo, almeno, potevano risparmiarglielo. «Perché non mi hanno messo ai domiciliari? Forse per indurmi ad accusare non so chi? Stare in cella è una tortura. Se ce l’ho fatta, devo ringraziare la mia famiglia e gli avvocati, Antonio Bana e Valerio Spigarelli». Sono loro a difenderlo dalle accuse rimaste in piedi, dal reato ambientale (per la medesima bonifica) alla truffa. «Io voglio il processo e in tempi rapidi. Mi accusano di truffa, ma dimenticano che grazie a me lo Stato italiano non ha dovuto pagare una multa europea di 670 milioni, già comminata».
Adesso Pelaggi si è messo a fare l’avvocato, deve pagarsi le spese processuali e aiutare la famiglia del fratello Antonio che, pochi giorni prima del suo ritorno in libertà, è finito in coma in seguito a un brutto incidente stradale. «Durante la prigionia, mio fratello è stato il mio terzo avvocato. Non ha mai dubitato della mia innocenza. Adesso tocca a me occuparmi di lui».