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 2016  agosto 17 Mercoledì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - LO SCANDALO DEL BURKINI REPUBBLICA.IT PARIGI - Lungi dall’essere "solo" un costume da bagno, il burkini è "espressione di un’ideologia basata sull’asservimento della donna", quindi è "incompatibile con i valori della Francia e della Repubblica"

APPUNTI PER GAZZETTA - LO SCANDALO DEL BURKINI REPUBBLICA.IT PARIGI - Lungi dall’essere "solo" un costume da bagno, il burkini è "espressione di un’ideologia basata sull’asservimento della donna", quindi è "incompatibile con i valori della Francia e della Repubblica". E’ la presa di posizione del premier francese Manuel Valls che esprime così il suo sostegno al bando emesso da alcuni comuni francesi contro il costume per donne musulmane che copre l’intero corpo (il nome burkini dalla contrazione tra burqa e bikini). Il governo socialista entra così nel dibattito che investe la Francia dopo che alcune municipalità, dalla Corsica al Pas-de-Calais, hanno emesso ordinanze per vietare il burkini, in alcuni casi a titolo "preventivo", e hanno iniziato a elevare le prime multe a chi non rispetta tale misura. A Cannes, in particolare, tre donne sono state sanzionate nel weekend per 38 euro. Ieri il primo esponente del governo francese a esprimersi in materia era stata la ministra per i Diritti delle donne Laurence Rossignol, dicendosi d’accordo con la necessità di "combattere il burkini". "Capisco i sindaci - le parole di Valls - che in questo momento di tensione hanno il riflesso di cercare soluzioni, evitare problemi di ordine pubblico. Sostengo dunque coloro che hanno preso provvedimenti, se motivati dalla volontà di incoraggiare il vivere insieme, senza secondi fini politici". "Le spiagge - aggiunge il premier -, così come ogni altro spazio pubblico, devono essere preservate dalle rivendicazioni religiose. Il burkini non è una nuova linea di costumi da bagno, una moda. E’ la traduzione di un progetto politico, di contro-società, fondato tra l’altro sull’asservimento della donna. Dietro il burkini - prosegue Valls - c’è l’idea che per natura le donne sarebbero impudiche, impure, che dovrebbero dunque essere completamente coperte. Questo non è compatibile con i valori della Francia e della Repubblica. Di fronte alle provocazioni, la Repubblica deve difendersi". Dopo il sostegno alle amministrazioni locali, in un’intervista pubblicata oggi dal quotidiano La Provence, Valls afferma però di non volere intervenire con una nuova legge in materia. "Prima di pensare a legiferare, faremo applicare la legge che vieta portare il velo integrale negli spazi pubblici, lo ricorderemo con il ministro dell’Interno ai prefetti e alle forze di sicurezza. Anche le autorità musulmane devono condannare il velo integrale e gli atti di provocazione che creano le condizioni di un confronto". La presa di posizione di Manuel Valls contro il burkini raccoglie l’approvazione del centrodestra francese, mentre è apertamente criticata da alcuni esponenti della dissidenza interna al partito socialista. "L’argomento dell’ordine pubblico è un buon argomento" per imporre il divieto al costume integrale, afferma alla radio Rtl il deputato di centrodestra Henri Guaino, ex stretto consigliere di Nicolas Sarkozy, secondo cui "nella situazione attuale è il momento di mettere fine a certi comportamenti". Si "rallegra" delle parole di Valls anche Thierry Solère, parlamentare dei Republicains eletto nella banlieue di Parigi, che argomenta: "In Arabia Saudita, una donna non fa il bagno in topless o in tanga. In Francia, non si fa il bagno in burqa". Parla invece di dichiarazioni "assolutamente incredibili" l’ex ministro socialista Benoit Hamon, esponente tra i più a sinistra del partito e candidato alle primarie per le presidenziali 2017. "E’ il simbolo di questo fallimento della classe politica francese", commenta su France Inter, aggiungendo ironico: "Che cosa impedirà che domani le djellaba e le barbe siano vietate?". Critica anche la Lega dei Diritti dell’Uomo, associazione fondata alla fine del 19mo secolo nel pieno della battaglia in difesa della laicità. "Valls - si spiega in un comunicato - partecipa alla stigmatizzazione di una categoria di francesi diventati, per via della loro fede, dei ’sospetti’ a priori. Queste manifestazioni di autoritarismo rafforzano il senso di esclusione e contribuiscono a legittimare quanti guardano ai musulmani francesi come corpi estranei alla nazione". Opinione condivisa dal portavoce del Partito comunista francese, Olivier Dartigolles: "Così facendo, in qualche modo, Valls fa il gioco dei terroristi, poiché è precisamente ciò che essi vogliono: guerra di religione, tensioni permanenti, lo scivolamento verso la guerra civile". REPUBBLICA.IT La consigliera del Pd: "Caccia alle streghe". A favore del burkini si schiera la consigliera comunale Sumaya Abdel Qader, entrata alle ultime elezioni a Palazzo Marino, nelle liste del Pd. Sumaya indossa il velo islamico, ijab, come simbolo di identità religiosa. Ed è autrice di una campagna a favore dei diritti delle donne, contro la discriminazione sessuale e contro i pregiudizi nell’Islam e fuori. "Non è ora - scrive su Facebook - di smetterla di dire alle donne cosa fare o non fare? Non è ora di maturare una forma di rispetto e sensibilità verso le scelte altrui che non danneggiano alcuno? Non è ora di smettere di creare nemici? Stiamo lanciando una caccia alle streghe". Il caso di Lodi. Il burkini, intanto, ha agitato le acque della piscina Belgiardino di Lodi. Una donna, riporta il Cittadino di Lodi, si è parzialmente immersa in una delle vasche per i bambini indossando, secondo il racconto dei testimoni, una tunica e un paio di jeans. I bagnini sono intervenuti per invitare la donna a rispettare il regolamento, che impone l’uso del costume per l’accesso alle vasche, ma si sono fatti avanti tre nordafricani che hanno cominciato a discutere con il personale convincendolo, alla fine, che la donna indossava un burkini, ossia un costume conforme alla visione dell’Islam. "Si trattava di un costume in nylon - spiega Renato La Rana, direttore tecnico di Acquatica, la società di Castelleone che gestisce il parco - e quindi conforme alle regole della piscina. Avevamo già discusso con il Comune riguardo ad evenienze simili e abbiamo seguito le indicazioni che ci sono state date. Mancava la cuffia, ma la donna comunque non ha immerso il capo nella vasca, molto bassa". REPUBBLICA.IT Donne musulmane e burkini, vestite da capo a piedi per un bagno a mare o in piscina. Come si comporta l’Italia? Il tema che infiamma la Francia dopo la netta presa di posizione del premier francese Manuel Valls contro l’indumento da bagno delle musulmane che copre l’intero corpo e il capo "incompatibile con i valori della Francia e della Repubblica" perchè è "l’espressione di un’ideologia basata sull’asservimento della donna" ha avuto alcuni precedenti anche in Italia, con polemiche e prese di posizioni tra pro e contro, ma finora non ha mai lacerato l’opinione pubblica. Con pochi casi, poi naufragati, di espliciti divieti di utilizzo di quel "costume ascellare" come invece hanno stabilito alcuni comuni costieri francesi, come Cannes. E con altrettanti residuali casi rimbalzati sulle cronache di esplicite e pubbliche proteste dei vicini di ombrellone per le donne col corpo tutto coperto apparse su lidi, spiagge e scogli: per via del minor numero di donne musulmane presenti in Italia rispetto alla Francia, ma anche per una certa noncurante tolleranza tipica, si direbbe, degli italiani in vacanza. Piuttosto, i casi che più sono rimbalzati sulla cronaca in Italia riguardano soprattutto l’uso del burkini in piscina, con donne musulmane tutte coperte nelle piscine pubbliche viste più volte, raramente allontanate, quasi sempre contornate da sguardi perplessi, talvolta invitate a non presentarsi più con tutto quel tessuto sul corpo, rivendicando non questioni a sfondo religioso, queste sì assai incendiarie e controverse, piuttosto regolamenti Asl su norme igienico-sanitarie. Aboudrar: "Ma vietare il burkini rischia di aumentare l’islamofobia" Uno dei primi casi di donna in burkini che si è presentata a bordo piscina si verificò a Verona nel 2009. La scena sollevò soprattutto curiosità, ma anche qualche protesta di mamme con bambini impauriti, ma il direttore dell’impianto, subito interpellato, se la cavò in qualche modo: non ha invitato la giovane a lasciare la piscina, piuttosto le ha chiesto la composizione del tessuto del "burkini" per verificare se fosse a norma per poter essere usato in una piscina pubblica. Quasi in contemporanea, a Varallo, comune in provincia di Vercelli, scoppiò una pesante polemica, stesso tema ma affrontato muscolarmente. L’allora sindaco Gianluca Buonanno, il parlamentare leghista scomparso di recente, decise tout court di vietare il burkini in tutte le piscine e lungo i fiumi e i torrenti nel territorio di Varallo Sesia, con annesse pesanti ammende, 500 euro, a chi non avesse rispettato il diniego. Finì poi che cinque anni dopo lo stesso Buonanno fu condannato da un tribunale a pagare lui stesso una multa, ma per discriminazione razziale. Più di recente, nel 2015, la piscina comunale di Bolzano è stata tra le prime a autorizzarlo esplicitamente nel suo impianto, che d’estate arriva ad ospitare contemporaneamente anche tremila frequentatori. "ll regolamento del Lido era stato scritto parecchi anni fa quando in Alto Adige non vivevano ancora donna musulmane, oppure se erano qui non frequentavano la piscina pubblica. Oggi la realtà è un’altra e anche noi siamo stati chiamati - giustamente - ad adattarci ai tempi", così aveva spiegato Gianni Felicetti, responsabile dell’impianto per il Comune. E, sempre lo scorso anno, Ferrara organizzò un corso di nuoto per sole donne musulmane, con implicita la possibilità di presentarsi in burkini. Qui però, almeno stando al racconto del responsabile del corso, tra la trentina di donne che parteciparono all’iniziativa, in pochissime si presentarono coperte da capo a piedi, la gran parte indossavano un casto costume intero e, insieme, un paio di pantaloncini corti. ILPOST IL BURQINI «Non è compatibile con i valori della Francia e della Repubblica» Il primo ministro francese Manuel Valls ha dato un’intervista a La Provence, un quotidiano francese regionale pubblicato a Marsiglia, nella quale ha parlato tra le altre cose della polemica degli ultimi giorni sul cosiddetto “burqini” (o burkini). Del burqini – un tipo di costume da bagno pensato per le donne di religione musulmana che vogliono tenere il proprio corpo coperto – se n’è riparlato di recente per la decisione del sindaco di Cannes di proibire gli abiti di connotazione religiosa sulle spiagge della città (la decisione risale a fine luglio ma è stata confermata da un tribunale francese solo il 13 agosto). Il divieto del burquini è stato poi adottato anche nella città di Villeneuve-Loubet, vicino a Nizza, e dal piccolo comune Sisco, in Corsica, con motivazioni simili: ragioni di ordine pubblico e rispetto delle “buone maniere” e della laicità dello stato francese. Valls si è detto d’accordo con la decisioni di questi comuni e ha aggiunto che il burquini «non è compatibile con i valori della Francia e della Repubblica». Le spiagge, come tutti gli spazi pubblici, devono essere protette dalle rivendicazioni religiose. Il burquini non è un nuovo modello di costume da bagno, una moda, è la traduzione di un progetto politico, di una contro-società fondata notoriamente sulla sottomissione della donna. Alcuni cercano di presentare le donne che portano il burqini come delle vittime, come se noi mettessimo in discussione una libertà.. Ma non si sta parlando di una vera libertà, ma della libertà di sottomettere le donne. È per questo che nel 2004 votai a favore della legge sul divieto di esporre simboli religiosi a scuola, e nel 2010 a favore di quella sul divieto di portare il velo integrale negli spazi pubblici. Non accetto questa visione arcaica. C’è l’idea che per natura le donne siano impudiche, impure, e che per questo debbano essere completamente coperte. Ma non è compatibile con i valori della Francia e della Repubblica. Di fronte alle provocazioni, la Repubblica si deve difendere. Oggi i musulmani francesi sono presi in ostaggi da gruppi, associazioni e individui che sostengono il burqini e che vorrebbero far credere che la Repubblica e l’Islam siano due cose inconciliabili. Il burqini copre tutto il corpo, tranne viso, mani e piedi, ma è fatto con un tessuto leggero in modo da risultare comodo quando si nuota e ha un cappuccio che serve per coprire i capelli in alternativa a uno hijab. La parola “burqini” è un’unione di “burqa” e “bikini” ed è un marchio registrato dall’azienda australiana Ahiida, la prima a produrre questo tipo di capo di abbigliamento. In Francia c’è una legge, approvata nel 2010, che vieta l’uso in pubblico dei veli che coprono il viso, come ad esempio il niqab che lascia scoperti solo gli occhi. Quindi l’uso del burqini, che lascia il viso completamente scoperto, non è proibito. La legge non vieta nemmeno di portare simboli religiosi, come una croce al collo o una kippah, il copricapo usato da alcuni ebrei anche fuori dalle sinagoghe. FORMICHE.NET MARCO TARADASH L’obbligo di indossare burka, burkini e velo è segno di una cultura che esercita violenza sulle donne? Non c’è dubbio. Il divieto di indossare questi indumenti è la risposta giusta? Non credo proprio. Ma non è soltanto questione di prudenza. Certo occorre evitare il rischio di esacerbare l’animo di chi, maschio islamico fondamentalista, vivrebbe questo divieto come una provocazione e si incamminerebbe sul sentiero della radicalizzazione violenta, come sottolinea con buone ragioni il ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ma il punto è che una società liberale non è di per sé una società libera. Ne è il presupposto, ma solo in quanto limita il potere repressivo dello Stato e consente lo sviluppo di scelte individuali e di costumi sociali all’interno di un sistema definito e limitato di leggi. In uno stato di diritto le imposizioni di un uomo su un altro, o di un uomo su una donna e viceversa, sono punite dalla legge solo se si accompagnano a minacce e se queste minacce vengono denunciate da chi le subisce essendo in grado di denunciarle. Le violenze sui minori, sui malati, sugli incapaci non richiedono denunce di parte. Quelle fra adulti capaci di intendere e di volere sì, tranne nei casi più gravi. Le leggi che introducono l’azione automatica della magistratura nelle violenze fra adulti sono leggi emergenziali, che si situano sul crinale fra lo stato di diritto e lo stato paternalista, ed è bene valutarne con attenzione le conseguenze. Spesso spingono nella clandestinità e rendono irrimediabili situazioni che potrebbero risolversi nel tempo. Imporre la libertà non fa parte dei compiti, e tantomeno dei doveri, di uno Stato liberale. Ciò che importa è che vi sia un ordinamento giuridico che consenta a chi si ribella alla limitazione della propria libertà di denunciarla e di sottrarsi alla violenza fisica o morale grazie alla forza della legge. Sfuggire a questo genere di imposizione è difficile, comporta sofferenze, emarginazione, rotture dolorose con l’ambiente in cui si è cresciuti. Ma produce responsabilizzazione, che è il presupposto della liberazione. Libertà senza liberazione non è una conquista durevole, non promuove mutamenti culturali, non frena la violenza implicita in comportamenti che derivano in qualche misura dalla convinzione di essere dalla parte del giusto, della fede e della tradizione. Occorre una rottura nella trama della civilizzazione per compiere il passaggio dalla sottomissione all’uguaglianza, e questo vale per le persone come per i popoli (il fallimento della strategia di “esportazione della democrazia” c’è l’ha amaramente provato). Uno Stato liberale offre tutti gli strumenti per realizzare questa rottura nel modo meno traumatico possibile (che non significa non traumatico). Uno Stato moralista che vuole imporre a una minoranza il comportamento della maggioranza in nome del buon costume del tempo rischia di risolversi, nel volgere del tempo, nel suo opposto. È un rischio che gli italiani, ad esempio, hanno conosciuto in varie forme, più o meno violente, più o meno ridicole, in passato. Superate le leggi illiberali reazionarie, evitiamo ora di introdurre leggi illiberali progressiste. FORMICHE.NET ROSSANA MIRANDA Il ministro italiano dell’Istruzione, Stefania Giannini, ha indossato il hijab, il velo islamico, quando era in visita a Teheran per accompagnare il premier Matteo Renzi. In territorio persiano, anche lei si è piegata alle indicazioni dettate dal Corano in tema di abbigliamento femminile. COSA DICE IL CORANO Nella sura (capitolo) XXIV del Corano – conosciuta come an-Nūr (la Luce) – ayat (versetto) 30, Iddio comanda al Profeta Muhammad di chiedere alle donne di “non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro khumur fin sul petto”. Per “khumur” si intende il hijab. Sempre nella sura XXIV, ayat 31: “E dì alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste […] non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne”. QUESTIONE POLITICA Ma dov’è la sottile linea di confine tra tradizione, cultura e libertà personale? “La libertà delle donne si limita coprendo la pelle”, ha scritto il giornalista Pierluigi Battista sul Corriere della sera il 1° aprile del 2016. Ma la questione è più complessa, perché si estende anche al binomio scelta-imposizione. Negli ultimi mesi si è consumato un acceso dibattito in Francia – dove vivono tra i cinque e i sei milioni di musulmani – dopo che Le Parisien ha pubblicato un servizio sull’apertura dei grandi marchi alla moda islamica, quella che “rispetta” le norme dettate dal Corano in materia di abbigliamento femminile. Il ministro francese delle Famiglie e dei diritti delle donne, Laurence Rossignol, ha criticato alcuni marchi per aver investito su collezioni in linea con i precetti sharaitici. “Certo, ci sono donne che lo fanno, come c’erano dei negri africani a favore dello schiavismo”, ha detto il ministro. LE CIFRE DEL MERCATO Un report di Thomson-Reuters sullo stato dell’economia islamica indica che solo nel 2012 i consumatori musulmani hanno speso 224 miliardi dollari in scarpe e vestiti in Medio Oriente; la cifra aumenta negli Stati Uniti e in Europa. Le Parisien prevede che nel 2019 il mercato musulmano della moda potrebbe arrivare a circa 500 miliardi di dollari, quasi il doppio del 2013. Per questo motivo, i grandi marchi hanno scelto di dedicare alcune collezioni ai clienti musulmani, allestendo le vetrine dei propri showroom nelle principali vie della moda – Champs Elysee, Avenue Montaigne, Faubourg Saint-Honoré, Monte Napoleone e Oxford Street – con hijab e jalabib firmati. COLLEZIONI DI LUSSO Già a luglio 2014 DKNY aveva deciso di cavalcare il boom economico del mercato islamico con la linea Donna Karan New York Ramadan, in cui tutti gli abiti rispettavano i precetti islamici. La linea è stata ideata dall’editor kuwaitiana Yalda Golsharifi e dalla designer di Dubai Tamara al Gabbani. Dolce & Gabbana, invece, ha realizzato Abaya, la prima linea di abiti per donne musulmane. I pezzi forte della collezione sono hijab (il velo per coprirsi il capo) adornati con merletti e fiori e abaya (un vestito, solitamente nero, che copre tutto il corpo tranne il volto, i piedi e le mani). PROPOSTE LOW COST La catena low cost H&M distribuisce da tempo nei negozi parigini molti dei suoi capi “adattati” alle richieste delle donne musulmane. In una delle campagne pubblicitarie dedicate alla moda sostenibile, il marchio svedese ha presentato donne con il velo. In passato, la firma low cost aveva lanciato una campagna pubblicitaria con una modella musulmana di 17 anni, Mariah Idrissi, la prima fedele con hijab a prestare il proprio volto per H&M. Alle polemiche, H&M ha risposto: “Le nostre collezioni permettono ad ognuno di vestire rispettando la propria personalità, ma non incita a scegliere un modo di vita in particolare”. La catena britannica Mark & Spencer ha messo sul mercato, invece, i “burkinis” – costumi da bagno, con tanto di hijab, che coprono completamente il corpo – mentre Ruqsana Begum, campionessa di kickboxing britannica e musulmana, si è inventata una linea di abbigliamento sportivo che prevede anche il hijab. MINIGONNA VS HIJAB Per Battista, la minigonna “non è mai stata solo un capitolo della moda, ma un’idea del mondo […] la minigonna rende democratica, popolare, di massa, la nuova dimensione in cui le ragazze sentono di aver fatto ingresso, per sempre. Spezzando gerarchie […]”. Forse per questo Pierre Beigé, socio e compagno dello stilista Yves Saint Laurent, oggi editore di Le Monde e del Nouvel Observateur, si è detto scandalizzato dal successo della moda per musulmane: “Il ruolo degli stilisti è rendere le donne più libere e non essere complice di chi vuole tenerle nascoste”.