Maria Leonarda Leone, Focus 9/2016, 17 agosto 2016
TOMBE MALEDETTE
Tutto cominciò con il canarino di Howard Carter, inghiottito da un cobra reale il 26 novembre 1922. “Un cattivo presagio”, sostennero alcuni giornalisti, commentando la sensazionale scoperta del proprietario del pennuto, un archeologo inglese che quello stesso giorno aveva messo piede nell’anticamera della più famosa tomba egizia mai rinvenuta: la tomba di Tutankhamon. Quando il 16 febbraio 1923 Carter aprì ufficialmente la porta di accesso alla camera funebre del faraone bambino, gli operai lo misero in guardia: “La morte scenderà su agili ali per colui che profanerà la tomba del faraone”, era scritto all’interno della tomba. Ma il lavoro di documentazione e recupero dei reperti non si fermò.
Meno di due mesi dopo, il finanziatore della spedizione, il nobile inglese George Molyneux Herbert, quinto conte di Carnarvon, morì. Per i sostenitori della leggenda, fu la prima vittima (umana) della maledizione di Tutankhamon: una magia tanto potente da spedire tra le braccia di Osiride altre venti persone (l’ultima nel 1935) che più o meno direttamente avevano avuto a che fare con la scoperta.
UNA NUOVA TEORIA. La storia è nota e trova ancora oggi sostenitori, pronti a credere alla vendetta del faraone, e scettici, che si danno da fare per trovare una spiegazione scientifica alla singolare catena di morti. Agli ultimi appartiene I. L. Cohen, un ingegnere americano appassionato di archeologia e misteri: nel suo Tutankhamun’s curse. Solved (pubblicato lo scorso aprile), l’autore costruisce una teoria audace, che legherebbe le presunte vittime del faraone ad altre morti misteriose avvenute in Egitto. Febbre altissima, brividi e tremori, stanchezza e consunzione: di questi sintomi, scrive Cohen dopo aver analizzato diari e cronache dell’epoca, soffrirono sicuramente cinque archeologi operanti in Egitto agli inizi del Novecento: Lord Carnarvon (1866-1923), l’assistente di Carter Arthur Mace (1874-1928) e l’egittologo James Breasted (1865-1935), che erano entrati nella tomba di Tutankhamon; Urbain Bouriant (1849-1903) e Bernard Grdseloff (1915-1950), archeologi con anni di scavi all’attivo nelle tombe egizie. A cui andrebbero aggiunte almeno altre 16 presunte vittime della stessa “maledizione”, sulla cui morte però le informazioni sono meno precise. Che cosa li avrebbe uccisi? Sostanze radioattive. “I loro sintomi sono gli stessi di chi è stato esposto ad alte dosi di radiazioni. Ma i medici del tempo non potevano saperlo, perché gli effetti sull’uomo divennero noti solo dopo lo scoppio della bomba atomica, nel 1945”, scrive Cohen. Secondo l’ingegnere, queste radiazioni, presenti nella maggior parte delle tombe egizie, sarebbero state in grado di uccidere chi aveva lavorato a lungo al loro interno. Anche a distanza di molto tempo, in base alle condizioni di salute di ciascuno, alla quantità di radiazioni assorbite, al numero di esposizioni.
Prendiamo ad esempio Carter. Da sempre considerato la prova evidente dell’inesistenza della maledizione (che avrebbe colpito lui per primo), secondo Cohen sarebbe stato una vittima a lungo termine della radioattività: morì infatti di cancro (un linfoadenoma), dopo aver manifestato per anni sintomi simili a quelli dei suoi compagni di avventura. E dove altro avrebbero potuto assorbire, studiosi e egittologi, massicce dosi di radiazioni, se non a contatto con tombe e reperti? Secondo Cohen, è innegabile che Tutankhamon e altri faraoni, come Seti I, oltre a migliaia di animali sepolti vicino ai templi delle loro divinità, sarebbero stati irradiati prima di morire.
BRUCIATURE. Lo dimostrerebbero, nel caso del faraone bambino, alcune bruciature e annerimenti sul viso e sulla mano sinistra, i capelli caduti e “una specie di combustione spontanea che ha carbonizzato le bende”. «Pur non avendo mai studiato questo caso e quindi non potendo essere preciso, mi sembra debole come teoria: i capelli potrebbero essersi staccati durante il processo di essiccazione, cosa documentata in altri casi, mentre l’annerimento potrebbe essere determinato da resine o da altri fattori invece che dalle radiazioni. La stessa fragilità delle bende non mi sembra un fenomeno inusuale in reperti vecchi migliaia di anni», spiega Dario Piombino Mascali, antropologo dell’Università di Messina specializzato in mummiologia. In realtà, già nel 2013 scienziati britannici ipotizzarono che il corpo del faraone si fosse “cotto” dopo la mummificazione: la loro idea, però, era che ciò fosse avvenuto in seguito a una reazione chimica tra gli oli usati per la preparazione della mummia, l’ossigeno e il lino delle bende.
Tutta colpa, quindi, non di improbabili bruciature da radiazioni, ma di una imbalsamazione frettolosa. «E anche dei metodi poco ortodossi con cui Carter cercò di staccare il corpo del faraone dal fondo del sarcofago, sottoponendolo a fonti di calore quali il sole, lampade e addirittura il fuoco diretto», aggiunge Mattia Mancini, egittologo e curatore di un blog sull’antico Egitto (https://djedmedu.wordpress.com). «In ogni caso, dagli studi effettuati sulle mummie conservate presso il Museo Egizio del Cairo, non sono state rilevate anomalie nel livello di radiazioni nei loro corpi», conclude.
Eppure, obietta Cohen, molte tombe e sarcofagi egizi portano i segni di quello che sembrerebbe un fuoco o un incendio divampato al loro interno. “L’emissione di calore molto intenso fa parte del processo di decadimento nucleare, un aspetto che può continuare per decenni”, scrive l’ingegnere, secondo cui gli Egizi conoscevano e maneggiavano sostanze radioattive, le stoccavano in contenitori di pietra o terracotta che piazzavano dentro le sepolture. A volte tornavano persino a recuperarli. Con quale scopo? Un mistero. Ma i contenitori vuoti o rotti, “aperti con la forza”, ritrovati nella tomba di Tutankhamon sono prove troppo labili per gli esperti. Altro che ingegneri nucleari: «Gli antichi Egizi, come noi del resto, erano sottoposti a una normale quantità di radiazioni di origine naturale, ma non ne erano consci», nota Mancini. «Le radiazioni misurate nelle tombe della Valle dei Re dipendono semplicemente dal gas radon presente in natura, che, per risultare minimamente nocivo, richiederebbe esposizioni molto prolungate».
Insomma, la teoria delle radiazioni pare destinata a seguire la fine di altre ipotesi più o meno fantasiose: tra le più gettonate, quella che giustificava le morti sospette con l’istoplasmosi, un’infezione polmonare provocata dall’inalazione delle spore di un fungo contenute nel guano dei pipistrelli. Una teoria che non teneva conto del fatto che nella tomba, sigillata, non c’erano tracce di volatili. «Esiste una sola spiegazione alla maledizione di Tutankhamon: puro marketing editoriale. Subito dopo la scoperta della tomba, Lord Carnarvon cedette l’esclusiva al Times per 5.000 sterline e il 75% dei profitti derivanti dalla vendita degli articoli all’estero. Gli altri giornali, costretti a lavorare con notizie limitate e di seconda mano, fecero di tutto per soddisfare la curiosità del pubblico, inventando di sana pianta scoop su misteriosi avvenimenti mai accaduti: come la storia della “tragica fine” del canarino di Carter», sostiene Mancini.
E le morti inspiegabili? Un calcolo statistico, opera di un ricercatore australiano, ha dimostrato che tutte le persone venute in contatto con la tomba o la mummia di Tutankhamon sono morte a un’età media di 70 anni, contro i 75 dei loro colleghi, in media a 20 anni dalla scoperta: una differenza statisticamente poco significativa. Anche il ritrovamento dell’iscrizione maledetta, che non compare in alcuna foto scattata dagli archeologi, era una bufala, anche se a volte gli antichi lanciavano davvero cruente minacce contro i profanatori di sepolcri. «In generale si trattava di formule presenti soprattutto in tombe private risalenti all’Antico Regno, che invocavano un cattivo giudizio nell’Aldilà per chiunque osasse danneggiare la sepoltura o le offerte fatte al morto», spiega Mancini.
COLLI TORTI. Nella tomba di Serenput I (1962-1919 a.C.), governatore di Elefantina, si auguravano ai trasgressori braccia tagliate, collo torto, perdita delle cariche terrene, della casa e, cosa più terribile, l’incinerazione senza sepoltura. “Chiunque commetterà malvagità su questa tomba, possa Hemen [una divinità locale] non accettare i beni che offre e il suo erede non ereditarli”, ammoniva il governatore egizio Ankhtifi (XXII secolo a.C.) dal suo sepolcro.
Si capisce allora perché siano fiorite tante leggende maledette sui reperti d’Egitto: come quella della Unlucky mummy (mummia sfortunata), il coperchio di un sarcofago appartenuto a una donna sconosciuta della XXI dinastia (950 a.C. circa): secondo una veggente, celava al suo interno una oscura presenza e addirittura fu incolpata del naufragio del Titanic, su cui si diceva stesse viaggiando.
Non crediate, però, che Greci e Romani fossero da meno: loro le maledizioni non le destinavano solo ai profanatori, ma anche ai nemici personali, affidandole ai morti perché le recapitassero al dio dell’Oltretomba. Una recitava: “Annienta, uccidi il senatore Fistus. Possa Fistus diluirsi, languire, affondare e possano tutte le sue membra dissolversi”. Chissà se funzionavano davvero.
Maria Leonarda Leone