Alessandra Viola, Focus 9/2016, 17 agosto 2016
DOVE NASCONO LE NUVOLE
A volte le ammiriamo muoversi in cielo, a volte le desideriamo, a volte ci fanno paura. E tutti vorremmo poterle prevedere con precisione, per sapere quando prendere l’ombrello e dove andare in vacanza. Ma le nuvole sfuggono a ogni previsione deterministica, anzi sono uno degli elementi più difficili da valutare del meteo e del clima. Oggi, però, sappiamo qualcosa di più su come si formano e su come contribuiscono al bilancio del riscaldamento globale, grazie a un esperimento che si è svolto al Cern di Ginevra, il laboratorio dove si trova l’acceleratore di particelle Lhc. Mentre altri ricercatori si sforzano di “controllarle”, per ridurre grandine, bombe d’acqua, uragani. O per alleviare la siccità nelle zone più aride del pianeta.
DALLO SPAZIO. Che le novità più importanti arrivino dal celebre laboratorio svizzero non deve sorprendere: qui, infatti, si svolge l’esperimento Cloud (“nuvola” in inglese, e acronimo di Cosmics Leaving Outdoor Droplets), che studia l’interazione tra le particelle in sospensione nell’aria (gli aerosol) e le radiazioni energetiche che provengono dallo spazio, i cosiddetti “raggi cosmici”. Sugli effetti di questi raggi che in ogni istante colpiscono la Terra rimane ancora molto da capire, ma intanto i ricercatori hanno scoperto qualcosa di inaspettato: le nuvole si formano in grande quantità a partire da microparticelle organiche, prodotte principalmente dagli alberi.
L’esperimento Cloud funziona così: in una camera d’acciaio riempita di aria ultrapurificata, i ricercatori ricostruiscono le condizioni di specifiche parti dell’atmosfera miscelando i vapori delle sostanze che le compongono, per osservare il loro comportamento. «Qualche tempo fa abbiamo provato per la prima volta a usare un composto organico chiamato alfa-pinene, prodotto dagli alberi delle foreste boreali, che è molto abbondante in natura», spiega Jasper Kirkby, direttore dell’esperimento Cloud. «In pochi minuti i vapori si sono convertiti in molecole molto appiccicose della dimensione di circa un nanometro, che poi incontrandosi si sono incollate formando molecole più grandi: un processo molto efficiente che ha dato origine ai cosiddetti “semi di nuvola”, cioè dei nuclei di condensazione su cui si addensano le goccioline d’acqua dalle quali poi prendono forma le nubi, appunto. In seguito abbiamo verificato l’esperimento nell’atmosfera reale e i risultati sono stati confermati». Più in generale, le molecole come l’alfa-pinene appartengono alla classe dei terpeni, e sono quelle che conferiscono ai boschi di conifere il loro odore caratteristico.
POLVERI DI ZOLFO. Oltre a queste, a costituire i nuclei di condensazione che producono le nuvole sono anche altre sostanze, come i più minuti granelli di sabbia, le particelle di salsedine del mare, la fuliggine prodotta dai processi di combustione. «Fino a pochi mesi fa, credevamo che l’ingrediente principale fossero le particelle di acido solforico», continua Kirkby, «una sostanza immessa nell’atmosfera in grandi quantità dall’uomo a partire dal 1750, ma che prima della Rivoluzione industriale praticamente non esisteva perché deriva dall’anidride solforosa che si libera nei processi di combustione. La scoperta che anche le piante producono nuclei di condensazione emettendo terpeni ha cambiato tutto». Oggi sappiamo, infatti, che una parte significativa di nuvole può avere anche origine biologica.
BILANCIO ENERGETICO. Questa scoperta può avere un forte impatto sugli studi sul clima. Infatti le previsioni dell’Ipcc, il panel intergovernativo per i cambiamenti climatici, parlano per il prossimo secolo di aumenti della temperatura media compresi tra 1,5 e 4,5 °C, un’oscillazione che spazia dalla possibilità che l’uomo si adatti in modo relativamente “indolore” (1,5 °C) fino alla catastrofe globale, con estinzione di massa di decine di migliaia di specie (4,5 °C). Il grado di incertezza è considerevole e dipende dalla scarsa disponibilità di informazioni su alcuni parametri chiave su cui si basano i modelli matematici, tra cui appunto le nuvole. Se alcune infatti possono avere un effetto riscaldante (i cirri, nubi fini di alta quota che lasciano passare la radiazione solare diretta verso la Terra ma intrappolano quella che proviene dal nostro pianeta), altre ne hanno uno di raffreddamento (gli strati che a bassa quota riflettono la radiazione solare) e la loro maggiore o minore presenza nei cieli può causare aumenti o diminuzioni di temperatura anche di diversi gradi. «Fino a pochi mesi fa i nostri modelli tenevano conto di due effetti concomitanti dell’uomo sul clima», spiega Federico Bianchi, ricercatore all’Università di Helsinki e coautore degli articoli scientifici che hanno portato alla ribalta i risultati di Cloud, «uno di riscaldamento, dovuto alla massiccia emissione di gas serra tra cui l’anidride carbonica, e uno di raffreddamento, per la formazione di nuvole dovuta all’emissione di polveri sottili e anidride solforosa. Credevamo che i cieli prima della Rivoluzione industriale fossero più sereni, ma adesso sappiamo che non è così: la quantità di nuvole è variata di pochissimo». E questo cambia le stime che gli scienziati usano nei loro modelli.
PER LE OLIMPIADI. Con questi nuovi dati sembrerebbe che il riscaldamento indotto dall’uomo sia inferiore a quanto stimato prima, e quindi l’aumento delle temperature future potrebbe risultare più contenuto. Ma questo non ci deve indurre ad abbassare la guardia. Di certo gli eventi estremi e la desertificazione continueranno ad aumentare, e in molti sperano che la tecnologia possa venire in nostro soccorso per il controllo del clima o almeno del meteo. A cominciare dalle precipitazioni.
Il primo Paese a tentare di indurre la pioggia in modo artificiale fu Israele, negli anni ’50, mentre l’ultima città a essersi cimentata nell’impresa è stata Los Angeles pochi mesi fa. «Alcune di queste tecnologie hanno una seria base scientifica, altre no», osserva Bianchi. «È noto, per esempio, che lo ioduro d’argento è efficace per indurre la pioggia, ma solo se è iniettato nelle nuvole sparandolo dall’alto con degli aerei, mentre diffondendolo da terra non funziona, perché è disperso dal vento prima di arrivare in quota. Quando è sparso nelle nubi, una parte dell’acqua che si trova al loro interno si trasferisce sui nuclei di ioduro d’argento, e se i calcoli sono stati fatti bene dovrebbe piovere nel luogo desiderato. In teoria questa tecnica è efficace, ma nella realtà è impossibile dire se una nuvola ha generato pioggia perché le è stato imposto o se avrebbe piovuto comunque».
Gli Usa si cimentano da decenni nel tentativo di far piovere sulle zone più aride dell’Ovest e in quello di deviare uragani e tornado, senza peraltro avere ottenuto risultati confermabili. E anche russi e cinesi vantano numerosi successi: pare che Pechino abbia usato un’intera flotta aerea per evitare la pioggia durante le Olimpiadi, facendo scaricare le nuvole nelle aree circostanti, mentre i russi avrebbero usato i sali d’argento in occasione dell’incidente di Chernobyl, per limitare la diffusione delle nuvole radioattive. «Questi presunti successi non sono però verificati», chiarisce Luca Mercalli, presidente della Società meteorologica italiana, «e non a caso gli annunci provengono da Paesi in cui la trasparenza, anche nelle dichiarazioni ufficiali, non è cristallina. Non ci sono programmi misurabili che diano effetti provati, anche perché non esistono due nubi uguali su cui fare un test: ogni nube è unica, un momento preciso di una situazione locale. L’epoca d’oro per questo tipo di esperimenti sono stati gli anni ’60-’70, in cui sull’onda dei progressi tecnologici si sono sperimentate varie tecniche. Poi si è lasciato perdere». In Italia gli esperimenti più significativi, poi interrotti per mancanza di risultati, hanno riguardato la grandine, flagello dell’agricoltura e della viticoltura che ogni anno causa milioni di euro di danni.
UN “BUM” INUTILE. Oggi nelle colline del Prosecco e in altre campagne del Nord si tenta di esorcizzarla con cannoni antigrandine, macchine che “sparano” onde sonore con la pretesa di spaccare i chicchi di ghiaccio. Ma sono del tutto inefficaci. «La grandine si forma a 10mila metri di altezza: se si potessero rompere i chicchi con un’onda sonora, prima di riuscirci avremmo rotto tutti i vetri delle case», spiega Mercalli. «Poteva aver senso sperimentare questi attrezzi nel 1896, quando sono stati inventati, ma già ai primi del ’900 era chiaro che non funzionavano. Poi, naturalmente, se a qualcuno piace un totem nel vigneto che faccia “Bum!” è libero di mettercelo».
Alessandra Viola