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 2016  agosto 17 Mercoledì calendario

CARLETTO ALLA QUINTA

Le etichette esistono soltanto per essere cancellate e riscritte, e questa storia ne è la dimostrazione: il destino non è qualcosa che si appiccica addosso all’alba di una vita o di una carriera, ma lo si costruisce giorno dopo giorno, anno dopo anno. Proprio come ha fatto Carlo Ancelotti che, prima della notte del 28 maggio 2003, era «un perdente di successo» oppure «un eterno secondo». Poi Shevchenko è andato sul dischetto e ha spiazzato Buffon, il Milan ha alzato la Champions League nel teatro dei sogni di Old Trafford, e lui è diventato un simbolo di successo. Se in Italia è sempre stato soltanto Carletto, a Londra lo hanno ribattezzato King Charles, a Parigi addirittura Carlo Magno e a Madrid lo hanno definito Il Pacificatore, paragonando la sua gestione tranquilla a quella piuttosto turbolenta di Josè Mourinho. In tredici anni, con la tenacia e la furbizia di un contadino, lui che della campagna è figlio, ha raccolto più di chiunque altro: vittorie in Italia, in Inghilterra, in Francia, in Spagna e, adesso, pure in Germania. Cioè nelle nazioni più calciofile d’Europa. Si discute tanto di guardiolismo, di mourinhismo, di cholismo: forse sarebbe il caso, albo d’oro alla mano, di parlare anche di ancelottismo.

LEZIONE Per spiegare il calcio di Carletto sono sufficienti due parole: buon senso. Recentemente, a un amico che gli chiedeva quale fosse il suo modulo di riferimento, ha risposto con la saggezza che gli deriva dall’esperienza. Per lui il calcio è semplice, anche se qualcuno tende a complicarlo. E vale sempre la regola dell’incudine e del martello: aspettare con pazienza (che non significa rassegnazione) e attaccare con coraggio. Questa lezione se la porta dietro da quando era calciatore e continua a essere la guida del suo pensiero. Due i maestri che gliel’hanno inculcata: Nils Liedholm e Arrigo Sacchi. Dal Barone ha appreso l’importanza del dialogo con i giocatori, oltre che la capacità di sdrammatizzare anche i momenti più delicati: un sorriso a volte (quasi sempre) vale più di una sgridata. Da Sacchi, invece, ha imparato la cultura del lavoro e la cura maniacale dei particolari: nessun dettaglio gli sfugge. E adesso, al Bayern, a dargli una mano se per caso qualcosa gli scappasse, c’è pure suo figlio Davide, promosso «assistente allenatore».

RAPPORTI Quando decise di lasciare l’Italia, nella primavera del 2009, e di accettare le sterline di Abramovich per sedersi sulla panchina del Chelsea, pochi avrebbero giurato sulla riuscita dell’avventura. Ma lui, testardo, si è messo al lavoro, ha imparato una lingua nuova e, in breve, è diventato un perfetto englishman. La conquista della Premier e il giro sul bus scoperto per le strade di Londra restano attimi indimenticabili. Così come dalla sua memoria non si cancellerà facilmente il rapporto che aveva costruito con i giocatori, da Terry a Lampard, da Drogba a Essien. Meno semplice il dialogo con Abramovich, ma i padroni, si sa, in qualunque nazione, quando non vincono praticano il gioco più facile del mondo: lo scaricabarile. Ancelotti ne è consapevole fin da quando si è accomodato per la prima volta su una panchina: il suo carattere, morbido e severo allo stesso tempo, gli ha consentito di navigare, senza naufragare, in mari tempestosi. Da Tanzi ad Agnelli, da Berlusconi ad Abramovich, dagli sceicchi del Psg a Florentino Perez non è stata una crociera riposante. In Baviera dice di trovarsi come in famiglia, e questo lo tranquillizza, ma sa bene che solo i risultati decideranno il suo futuro. L’obiettivo dichiarato è la Champions League. Lo stesso che gli chiesero quando sbarcò a Madrid, dove la Decima che non arrivava era diventata un’ossessione. Lui, saggiamente, spense l’ambiente dagli incendi dell’era Mourinho, assecondò gli acquisti di Florentino (anche se, magari, non tutti gli piacevano) e, partita dopo partita, arrivò al traguardo. Un’altra Champions League, come le due conquistate sulla panchina del Milan. A conferma del fatto che il titolo della sua autobiografia, «Preferisco la coppa», era davvero azzeccato. Poi anche Florentino, come prima Abramovich, non ebbe pazienza e, al primo temporale, salutò Il Pacificatore. Il quale, da sempre bollato come «aziendalista», mai ha detto una parola contro i sui ex datori di lavoro. Ma non è per timidezza o per piaggeria: semplicemente per rispetto.

CURIOSITA’ Il periodo più complicato del suo lungo girovagare è stato quello francese. Arrivato in corsa, in una società che non era ancora strutturata, patì parecchio. Poi, a sostenerlo, vennero due amici: Thiago Silva e Ibrahimovic. E anche in quel caso fu un trionfo. Ma Parigi, per lui, non valeva... una messa. Non che non gli piacesse, non che non fosse entrato in sintonia con l’ambiente: il fatto è che la Francia era troppo piccola per uno come lui, il campionato non gli dava quell’adrenalina di cui aveva bisogno. Questa è stata la ragione dell’addio al Psg: lo cercava il Real Madrid, poteva entrare nel tempio del Santiago Bernabeu da prim’attore, volete mettere? Ora il giramondo Carletto ha deciso di misurarsi con la Bundesliga e, soprattutto, con una realtà completamente diversa da quelle che ha conosciuto finora. A spingerlo è quello che lui, e non soltanto lui, considera il motore del mondo: la curiosità. Ancelotti è affamato di novità, gli piace scoprire, conoscere, farsi spiegare. E gli piace, soprattutto, ascoltare. E il suo calcio, semplice e pulito, è figlio dell’ascolto e del costante dialogo con giocatori e dirigenti. Così da «perdente di successo» è diventato il più titolato d’Europa.