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 2016  agosto 17 Mercoledì calendario

L’UNIVERSO DI LESKOV GALOPPA

Il viaggiatore incantato , che Nikolaj Leskov compose nel 1873, è il più bel racconto dell’Ottocento russo (mirabile la traduzione di Tommaso Landolfi): la Russia è viaggio, avventura, steppa, fede religiosa ed eroica, infinita latitudine e profumo, né città né cultura. Sulla nave che attraversa il lago Ladoga, ecco un uomo di enorme statura, con un viso abbronzato ed aperto, e folti capelli ondulati di un colore di piombo. Porta la zimarra da novizio, con un largo cordone monastico alla cintura, e un’alta berretta nera da monaco.

È un uomo «vissuto», ardito e sicuro di sé, che parla con una gradevole e manierata voce di basso, lasciando andare pigramente e mollemente parole su parole, sotto i folti baffi canuti. Sembra un paladino antico: un semplice paladino russo, che rammenta il vecchio Il’ja Muromec. In primo luogo, è un narratore: tutta la sua immensa esperienza è divenuta racconto. Racconta e poi racconta: noi non leggiamo ma ascoltiamo la voce, come se tutta la realtà fosse voce.

Il monaco–paladino — si chiama Ivan Sever’jaync, ma in convento padre Ismail — è un intenditore e domatore di cavalli. «Migliaia di cavalli, dice, ho scelto ed ammansito». Questi cavalli sono quasi delle belve: domarli rivela, in lui, la passione e la vocazione di Ercole. «Appena montato, non lascio rinvenire il cavallo: colla sinistra lo afferro a tutta forza e lo tiro da parte, e colla destra, col pugno, gli do tra gli orecchi sulla zucca, e comincio ad arrotare terribilmente i denti, così che perfino gli viene, a qualcuno, il cervello dalla fronte nelle narici insieme al sangue, e lui si sottomette. Poi scendo, lo accarezzo, lascio che mi contempli negli occhi, perché gli rimanga una bella immagine nella memoria».

Se prima il cavallo cerca di mordere Ivan alle ginocchia, come se fosse posseduto da un demone, ora gli si affeziona. «Lo montai, quel mangiatore di uomini, senza camicia, scalzo, soltanto colle brache e col berretto, portando sul corpo nudo un cinturino di fettuccia del santo principe Vsevolod Gavriil di Novogorod, al quale ero molto devoto». Ivan confuse la vista al cavallo, gli diede collo scudiscio, non lo lasciò rifiatare: lo fece tremare collo stridore dei denti; finché si stancò e gli cadde davanti in ginocchio. Gli zingari mettono in giro la voce che lui è uno stregone. In realtà capisce i cavalli, li vede, come dice, attraverso: un dono di natura che non può trasmettere a nessun altro.

Quanti cavalli percorrono queste pagine meravigliose, finché diventiamo, noi lettori, cavalli e cavalcatori! Cavalli chirghisi, veri selvaggi, belve terribili, che non si assoggettano, amano la libertà della steppa, torcono gli occhi al cielo come gli uccelli: fiere, basilischi, con occhi digrignanti come pugnali. Non conoscono stanchezza.

Quando Ivan li lascia, sta attento a che non spicchino il volo. Alcuni cavalli li chiama astronomi: appena li tira, essi subito rizzano il capo, e chissà cosa contemplano in cielo. Non appena vede che salgono troppo, dà loro sul muso. C’è la bellissima giumenta bianca, che drizza gli orecchi, sbuffa e scalpita: ha la testa piccola, l’occhio colmo, orecchi sensibili, fianchi snelli e sonori, gambe leggere e affilate. Un sudicio ragazzo le balza in groppa, cavalcando al modo tartaro, serrandola con i ginocchi: quella mette le ali volando come un uccello, e quando il ragazzo le si piega sulla groppa, lanciandole grida d’incitamento, lei s’alza in turbine.

Ivan attraversa il fiume, percorre la steppa, dove rimane per dieci anni. Una vista torrida, atroce: spazio senza confine: un subisso d’erba; la stipa bianca, piumosa, come un mare d’argento, ondeggia, e colla brezza viene odor di pecora. Il sole picchia su tutto, e arde. Ivan non scorge da nessuna parte una fine, e in lui nasce una malinconia senza fondo. Nelle saline sul mar Caspio, il sole brucia, e il sale e il mare brillano. Il suo stordimento è terribile. Non sa più dove, in quale parte del mondo sia: se è vivo, oppure morto e sta soffrendo in un inferno senza speranza per i suoi peccati. Dove c’è più stipa, la steppa è più allegra: per le prode di tratto in tratto Ivan vede, grigiazzurri, la salvia o l’assenzio, e la santoreggia screzia il bianco; mentre nella salina c’è sempre e solo quel ribrillio. Non c’è nessun animale: soltanto, come per scherzo, un piccolo uccelletto, un beccorossino, simile alla nostra rondine, ma con un orlo rosso ai labbri. «Tu sei sempre lì, quasi senza vita; e se muori, ti mettono nel sale, e resti lì; come un pezzo di carne salata, sino alla fine del mondo».

Quando Ivan giunge nella steppa, un tartaro lungo e magro come una pertica sta seduto su un feltro variopinto, con in capo uno zucchetto d’oro. Si chiama Can Džangar: è il più grande allevatore di cavalli di tutta la steppa; le sue mandrie vanno dalla Volga agli Urali; e nella steppa è uno zar. Non siamo più in Russia: ma nella profondissima Asia. Quale terribile, invincibile tedio. Ecco il tartaro Savakirej, piccolo ma robusto, indiavolato, testa rasa e rotonda, come passata al tornio, vigoroso come un giovane galletto, ceffo rosso come una carota. Ivan vuole fuggire: ma i tartari gli tagliano i talloni, gli infilano crine nei piedi, e poi ritirano la pelle e la cuciono con un filo. Così egli deve trascinarsi carponi con un dolore infernale: non solo gli è impossibile fare un passo, ma non può nemmeno reggersi in piedi. Lì, tra i tartari, è divorato dalla nostalgia della Russia: poi diventa una statua insensibile. Quando, come per caso, ritorna in Russia, eccolo attorno al fuoco, bere vodka, e raccontare con un piacere insaziabile la sua vita. Ritorna a capire gli esseri umani. Gli sembra di subire il loro fluido magnetico, come se gli altri gli entrassero dentro il corpo attraverso la nuca.

La Russia è il ritorno e la metamorfosi delle immagini: sempre nuove immagini femminili si alternano e si trasformano l’una nell’altra. Di una zingara, Gruša, Ivan non parla neppure come di una donna: «È una serpe lucente, batte la coda e si piega colla vita, e dagli occhi neri manda un fuoco bruciante».

Batte le ciglia lunghissime, per sé stesse vive, e mobili come uccelli. D’un tratto comincia a smaniare, a sospirare e singhiozzare: una lacrima le corre sul ciglio; e le sue dita strisciano e cantano, come vespe, sulle corde di una chitarra. Intona: «Brava gente, porgete orecchio alla mia amara tristezza». Ma la bellezza di Gruša svanisce: «Carne indosso, come non ne avesse, e solo le ardono gli occhi in mezzo al viso cupo, come al lupo nella notte».

Il viaggiatore incantato si affretta, cercando la propria fine. Non sappiamo bene perché, Ivan entra in convento. «Qui stai tranquillo, giusto come al reggimento, c’è molto di simile, e hai tutto pronto: sei vestito, calzato, nutrito, e i superiori vigilano e chiedono sottomissione». I veloci e tremendi cavalli non lo abbandonano: anche al convento Ivan fa l’indiavolato cocchiere. Pecca. Come l’apostolo Paolo non si salvò dal diavolo, nemmeno lui, carne debole e peccatrice, evita le infestazioni di Satana. Gruša gli appare ogni notte: tutta l’aria è impregnata di lei. «Quando tu senti uno scioglimento di cuore e ti rammenti di lei, dice Ivan, sappi che l’angelo satana si avvicina a te. In primo luogo, mettiti in ginocchio. I ginocchi nell’uomo sono il principale strumento: appena cadi, in questa elevazione d’anima, batti reverenza fino a terra per quanta forza hai, fino a non poterne più, e consumati col digiuno. Quando il diavolo vedrà la tua costanza, subito fuggirà».

Il padre superiore trasferisce Ivan in un’isba vuota nell’orto, e gli pone innanzi l’immagine del Santo Silenzio, dove il Salvatore è rappresentato colle ali ripiegate, con aspetto d’angelo, ma le insegne di Sabaot al posto dell’aureola, e le mani placidamente incrociate sul petto. Ogni giorno Ivan fa riverenze davanti all’immagine, pregando incessantemente il Santo Silenzio.

Mentre finisce di parlare e di incantarci, il viaggiatore incantato è qui, sulle strade di Russia, che Leskov percorre con piacere inesauribile come il suo personaggio. Prenderà le armi e andrà alla guerra, obbedendo alla sua vocazione di antico paladino?

Non lo sappiamo: non lo sa nemmeno Nikolaj Leskov; le predizioni dei paladini e dei narratori «restano pel momento nelle mani di Chi nasconde i propri decreti agli uomini di senno e di ragione; e soltanto li svela talvolta agli infanti».