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 2016  agosto 15 Lunedì calendario

USA, IL VERO VOTO SARÀ SULLA GLOBALIZZAZIONE

Dicevano che il discorso più importante della carriera di Donald Trump sarebbe stato quello di accettazione della nomination a candidato del partito Repubblicano, al termine della convention di Cleveland, Ohio. Invece, almeno per ora, l’intervento che conta “The Donald” lo ha letto l’8 di agosto all’Economic club di Detroit: 21 pagine, ogni dato ha una nota e una fonte. Non più un discorso da candidato, ma un programma da presidente. “L’Americanismo, e non il globalismo, sarà il nostro credo”, aveva promesso. E con la sua abilità di dare l’agenda a tutti, Trump ha imposto il tema del voto di novembre: non si sceglierà soltanto tra lui e Hillary Clinton per la Casa Bianca, ma tra “Americanismo” e “globalismo”. Si vota sulla globalizzazione.
CANDIDATI OPPOSTI, LO STESSO PROGRAMMA
“Hillary Clinton ha sostenuto gli accordi commerciali che hanno sottratto a questa città lavoro e benessere. Ha sostenuto il Nafta di Bill Clinton, l’ingresso della Cina nel Wto, l’accordo con la Corea del Sud e sostiene il Partenariato Trans-pacifico, il Tpp”, ha detto Trump a Detroit. Niente come gli accordi commerciali internazionali attira ostilità verso la globalizzazione: anche se l’economia nel complesso ci guadagna, e ogni tanto succede, c’è sempre qualcuno che vede le proprie condizioni di vita peggiorare e protesta.
Non è vero, però, che Hillary Clinton sostenga il Tpp: pur essendo sempre stata schierata a favore dell’apertura e del commercio internazionale, Hillary oggi è contro il Tpp: “Dire ‘no’ a nuovi accordi commerciali che non rispondono ai suoi elevati standard, incluso il Tpp”, si legge su hillaryclinton.com. La candidata democratica cita come punto di merito aver provato a introdurre dazi contro la Cina nello Stato di New York, di cui era senatrice, e promette la creazione di un trade prosecutor, un “pubblico ministero del commercio” che indaghi sugli abusi, come la manipolazione del tasso di cambio. Trump però assicura ai suoi: “Hillary Clinton applicherà il Tpp, garantito, i suoi sostenitori non le lasceranno scelta”. Sul commercio proprio non ci sono differenze: entrambi promettono di rivedere anche gli accordi già in vigore, come il Nafta, pilastro della globalizzazione anni Novanta targata Bill Clinton. È la prima volta che nessuno dei due principali partiti sostiene l’apertura internazionale e promette agli americani più tariffe, meno scambi, difesa dei posti di lavoro che ci sono invece che sviluppo in nuovi settori.
IL LASCITO DI BARACK
Hillary Clinton non è mai stata isolazionista. Lo è diventata per inseguire Trump e il suo sfidante, sconfitto ma non domo, nel partito, il “socialista” Bernie Sanders. E così il presidente ancora in carica, Barack Obama, è rimasto solo a difendere una linea che in passato era stata condivisa anche dai Repubblicani: “Non solo il Tpp porterà benefici ai lavoratori americani e alle imprese, ma manderà un segnale chiaro e vitale che l’America continuerà a essere al comando nel Pacifico”. Perché il commercio è politica: il Tpp lega gli Usa, gli ex nemici Giappone e Vietnam, oltre al Cile e al Canada. Undici Stati alleati che Washington cerca di sottrarre alla sfera di influenza della Cina.
Dalla prospettiva di Detroit è facile cedere alla prospettiva di Trump e dei “blue collar worker” (operai o ex operai) che lo votano. Oggi Detroit ha un reddito pro capite di 15.000 dollari, circa la metà della media nazionale, il 40 per cento dei residenti vive in povertà”, snocciola Trump, come se fosse tutta colpa dei trattati commerciali e della globalizzazione e non della crisi – in gran parte soltanto americana – della General Motors e del resto del settore auto, salvato con soldi pubblici da Obama in un’operazione di grande successo oggi dimenticata in campagna elettorale.
A Detroit non arrivano i ragionamenti geopolitici che si fanno sulla costa Est. A Boston, per esempio, il professor Joel P. Trachtman della Fletcher School of Government spiega al Fatto che la strategia commerciale degli Usa in questi anni è di ottenere il cosiddetto “effetto California”: “Qui negli Usa ogni Stato può darsi le proprie regole e fissare i suoi standard tecnici e di sicurezza. Ma la California è un mercato così grande e decisivo per ogni impresa che tutte tendono a uniformarsi alle sue esigenze, anche senza che ci sia una legge federale che lo imponga”.
Negli ultimi 15 anni l’organismo che doveva mettere ordine nella globalizzazione, cioè l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) ha smesso di funzionare. Non è mai andato oltre il round negoziale di Doha nel 2001, invece che varare ambiziosi accordi multilaterali che abbassassero tariffe per tutti e favorissero gli scambi si è atrofizzato fino a diventare un semplice foro di risoluzione delle controversie. Insieme all’unipolarismo americano in campo militare e geopolitico, è finito anche il multilateralismo economico. Gli Usa si stanno quindi sforzando di impostare un nuovo ordine che si regge sull’ “effetto California”: fare accordi con quanti più Paesi amici in modo da forzare anche quelli che non aderiscono a uniformarsi alle stesse regole, dal mercato del lavoro all’inquinamento alla finanza. E in questa strategia ha un ruolo anche l’Europa.
IL MERCATO UNICO DELL’OCCIDENTE
Dal 2013 Unione europea e Stati Uniti stanno discutendo del Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, Ttip, che è diventato argomento incandescente in Europa mentre è del tutto fuori dal dibattito pubblico in Europa. L’accordo ha soprattutto l’obiettivo di ridurre tariffe nell’agricoltura e di uniformare standard e controlli in molti settori, dai test ai medicinali da immettere sul mercato alla qualità alimentare.
In Europa Ong e movimenti in questi anni hanno contestato prima la segretezza dei documenti (adesso sono pubbliche le proposte europee e i parlamentari possono vedere anche i progressi nel testo di compromesso) e i contenuti: alcune accuse non hanno mai trovato riscontri – gli Ogm sono fuori dal negoziato, così come la carne agli ormoni o il pollo lavato con il cloro – mentre altri punti sono davvero delicati. Gli Usa, per esempio, non hanno alcuna intenzione di riconoscere le indicazioni geografiche all’europea, per loro “Parmigiano reggiano” è un marchio come “Coca Cola”, che non implica alcun legame con i territori di Parma e Reggio o precisi standard di prodotto. E gli Stati Uniti – come hanno raccontato al Fatto diversi negoziatori e lobbisti delle imprese americane – sono decisamente contrari alla proposta europea in materia di tutela degli investimenti: vogliono difendere l’attuale meccanismo Isds, in base al quale se una multinazionale contesta a uno Stato la violazione del trattato, ciascuna parte nomina due arbitri che poi ne scelgono, di comune accordo, un terzo. La Commissione europea vorrebbe invece una corte arbitrale permanente, con giudici indipendenti e un grado di appello. Ma gli Stati Uniti sono sempre stati riottosi a sottomettersi a giurisdizioni sovranazionali.
Oggi il Ttip sembra più morto che vivo: a parte Matteo Renzi, nessun leader europeo lo difende più apertamente, perché sa di perdere consensi. Neppure Angela Merkel, che era stata tra i più accesi sostenitori. Anche se tutti i negoziatori, guidati dallo spagnolo Ignacio Garcia Bercero, promettono che si chiuderà l’accordo politico entro il 2016, non ci crede davvero nessuno: bisogna aspettare almeno le elezioni presidenziali in Francia del 2017 e le legislative in Germania.
Negli Usa è completamente fuori dall’agenda: ne discutono solo gruppi di attivisti che temono, in modo speculare ai loro omologhi europei, che riduca standard di qualità e salute, oltre agli esponenti dei settori più coinvolti (i produttori di vino della California, per esempio, sono parecchio ostili a concedere altro spazio ai concorrenti italiani o francesi). Hillary Clinton, che aveva definito il Ttip una “Nato economica” ha smesso di parlarne. E non ha mai spiegato cosa significasse quell’espressione: uno strumento di difesa collettiva dalla Cina? Il pilastro di un nuovo ordine post-Guerra fredda? Trump non lo nomina mai, anche se a Cleveland uno degli eventi collaterali alla convention Repubblicana era dedicato proprio a Tpp e Ttip.
Per trovare un politico che dica in modo chiaro quali sono le aspettative degli Stati Uniti dal Ttip bisogna andare a Washington, quartiere di Foggy Bottom, direttamente nell’edificio che ospita il dipartimento di Stato oggi retto da John Kerry. In una stanza della enorme biblioteca, il sottosegretario a Crescita, Energia e Ambiente Cathy Novelli spiega al Fatto e a una rappresentanza di giornali europei: “Le nostre economie, Usa e Ue, sono già intrecciate, con tre miliardi di dollari di scambi ogni giorno”. Ma adesso “è importante trovare il modo di farle progredire, non siamo identici ma possiamo crescere insieme, è importante che troviamo un modo per andare avanti, il Ttip è più importante del Wto, è un simbolo del fatto che possiamo stare insieme”. Parole dietro cui si intravede il primo, piccolo, passo per la creazione di un mercato unico occidentale non troppo diverso da quello che è alla base del progetto dell’Unione europea. Non se ne discute nella campagna elettorale americana, tutta concentrata sul Tpp e la concorrenza asiatica. Ma il voto di novembre contribuirà a stabilire in quale direzione si evolverà la globalizzazione. Anche per l’Europa.
di Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 15/8/2016