Raffaella Silipo, La Stampa 15/8/2016, 15 agosto 2016
IL LATIN LOVER CREATO DAI SOGNI DELLE DONNE
«Io sono solo la tela su cui le donne dipingono i loro sogni», diceva. Chissà se si sentiva in gabbia, Rodolfo Valentino, primo divo della storia del cinema, se gli stava stretto l’abito da sex symbol indossato nei 15 film girati a ripetizione dal 1921 al ’26 che lo hanno cristallizzato nell’archetipo del «latin lover». Sceicco e matador, ufficiale russo e cavaliere senza paura, il suo destino è stato quello di incarnare il sogno dell’amante esotico per milioni di donne: un sogno mai invecchiato, dato che il divo moriva a soli 31 anni il 3 agosto 1926. Il giorno del suo funerale trenta donne si suicidarono e lui entrò nella leggenda.
Sono trascorsi 90 anni da quel giorno e Castellaneta, la sua città natale in provincia di Taranto, gli dedica (dal 21 agosto al 31 dicembre) la mostra Rodolfo Valentino: la seduzione del mito al Museo Valentino nell’ex convento di Santa Chiara, con i materiali il Museo Nazionale del Cinema di Torino arricchiti dal Fondo David Robinson di recente acquisizione che, a sua volta, aveva raccolto e custodito i materiali della Valentino Association, un club di ammiratori fondato in Inghilterra negli Anni Venti. In mostra le più belle foto dell’attore fuori dal set, in una sorta di viaggio-racconto che ne ripercorre la carriera dagli esordi alla consacrazione. E poi riviste, album di ritagli di giornali, libri, manifesti, materiali pubblicitari, cineromanzi, spartiti musicali: tutta la stoffa con cui si costruisce il mito. Verranno anche proiettati tre film: Lo sceicco (1921), Sangue e arena (1922) e Aquila nera (1925).
LA STORIA
La famiglia d’origine di Rodolfo Valentino non era povera: il padre era un proprietario terriero benestante, la madre, mezza francese, dama di compagnia della Marchesa di Castellaneta. Rodolfo non era sempre stato bello, era troppo magro, tanto che non riuscì a entrare in aeronautica come avrebbe voluto. E soffriva di un lieve strabismo, quello che poi al cinema si trasformerà nella sua arma di seduzione più sicura, lo sguardo magnetico, obliquo, che nasconde i suoi segreti ma riesce a leggere dentro le anime degli altri.
Giunto in America in cerca di fortuna nel 1913, il giovane Rodolfo diventa ballerino, probabilmente gigolò, e interpreta particine nel ruolo di vilain latino. Il successo arriva quasi per caso quando la potente sceneggiatrice della Metro Goldwin Mayer June Mathis, lo impone nel personaggio di Julio de I quattro cavalieri dell’Apocalisse (1921). Da lì in poi, la carriera va a rotta di collo: dal 1921 al 1926 gira 14 film tra cui i due straordinari successi Lo sceicco e Sangue e arena. Nel primo è un affascinante principe arabo che rapisce, salva e infine conquista una riluttante nobildonna inglese e con lei le spettatrici di mezzo mondo. Con il secondo la storia si ripete: il matador fiero e appassionato travolge gli animi femminili con la forza del fascino mediterraneo, salvo soccombere al suo tragico destino.
IL MITO
Anche la moda si lascia sedurre dai suoi personaggi: vengono lanciate la bandana e lo scialle di foggia spagnola, lo stile arabeggiante entra nelle case americane sulla scia del «buen retiro» del divo sulla collina di Beverly Hills ribattezzato «Nido del falco». Dopo alcune peripezie contrattuali, «Rudy» firma un favoloso contratto con la United Artists e trionfa ne L’aquila, dove appare nel triplice ruolo di ufficiale russo, bandito mascherato e gentile precettore e ne Il figlio dello sceicco. Di quest’ultimo non conoscerà mai il successo: muore a New York subito dopo la prima del film, per un’appendicite fulminante degenerata in peritonite. Uno choc collettivo. Lo scrittore americano John Dos Passos descrive così il suo funerale: «Mentre egli giaceva solennemente in una bara coperto di un drappo d’oro, decine di migliaia di uomini, di donne e di bambini gremivano le vie all’esterno..., uomini e donne lottavano per un fiore, un brano di tappezzeria, un frammento del vetro rotto della finestra».
L’UOMO
Valentino era colto, raffinato, elegantissimo, gran divoratore di libri, ammirava profondamente Gabriele D’Annunzio. Era un «metrosexual» ante litteram: portava braccialetti a forma di serpente, si truccava gli occhi, usava l’orologio da polso e non nel panciotto, si impomatava i capelli, si dava la cipria. Chi lo disprezzava lo chiamava «Vaselinos», come i mafiosi o i chicanos: eppure per seguire le sue regole i bagni pubblici maschili furono costretti ad aggiungere al sapone per le mani un piumino per incipriare la faccia.
Sulla sua sessualità si sono fatte infinite speculazioni. Sicuramente piaceva sia agli uomini che alle donne e nel 1977 Ken Russell lo ha trasformato in un’icona gay con il film interpretato da Rudolf Nureyev. Certo ha amato molte donne e quasi sempre dal carattere forte. Soprattutto la seconda moglie, Natacha Rambova, una americana che si fingeva russa, autoritaria e prepotente. E poi la sceneggiatrice June Mathis, che per prima credette in lui. Non è un caso che, nonostante la sua amante del momento fosse Pola Negri, sia stato sepolto nella tomba della Mathis al Memorial Park Cemetry di Los Angeles dove lei lo raggiunse solo un anno dopo.
La verità è che il fascino di Valentino ha attraversato i decenni imperturbato senza svelare i suoi segreti: lo ha cantato Marcello Mastroianni nella commedia musicale Ciao Rudy scritta nel 1966 da Garinei e Giovannini su musiche di Trovajoli e David Bowie in Don’t look down: «Tracce di rossetto sul suo nome». A lungo una Dama in Nero ha portato fiori sulla sua tomba, anonima vestale di una stagione perduta dell’immaginazione romantica, irraggiungibile come i sogni.
Raffaella Silipo, La Stampa 15/8/2016