Cristiana Lodi, Libero 14/8/2016, 14 agosto 2016
COSÌ I TERRORISTI ISLAMICI VIVONO NELLE NOSTRE CARCERI
Fuori tutti. Perquisizione! Uno, due, tre passi e cinque secondi: la guardia ha lavato svelta le mani al lavabo che sta dietro il gabinetto a vista. Adesso l’agente col basco azzurro, può toccare il Corano appoggiato sulla branda. Può ispezionarlo come gli è stato ordinato; con Muhammad K. H. che lo fissa minaccioso e sprezzante, seppur costretto a tacere. Lui, come il compagno di cella Khalil S., è controllato a vista dopo che insieme hanno fatto a brandelli riviste e pagine patinate per ritagliarsi le foto del Califfo e incollarle al muro, allineate a motti e slogan d’orrore jihadista. Bandiere nere appiccicate anche sull’armadietto, accanto a soldati che imbracciano fucili e giurano obbedienza al terrorista iracheno Abù Bakr al Bagdàdi. Santini sinistri del leader religioso di Bengasi, Abu Amer al Jazrawi, fin sopra il soffitto. Basta mettere il naso nelle carceri italiane dove 10.000 detenuti sono di religione islamica (7.500 i praticanti), per constatare che l’armata dei 350 fanatici pericolosi segnalati dal Guardasigilli, Andrea Orlando, è soltanto la punta di un iceberg. E che l’infiltrazione del radicalismo islamico in cella è invece una enorme massa sommersa, impossibile da controllare e pronta a esplodere da un momento all’altro. Lo sanno bene gli operatori e i dirigenti degli istituti penitenziari italiani, i soli a doversi realmente confrontare ogni giorno con le centinaia e centinaia di Atef, Ibraim, Mahmud, Hassam, Khalil o Muhammad. Allora eccolo Khalil S., (così dichiara di chiamarsi il detenuto): ha bruciato la terza pentola in due giorni e adesso pretende di essere trasferito in un altro raggio, dove dice esistono celle con fornelli migliori. Guai a infrangere il suo «umano diritto» a cucinarsi «trota dotata di squame» chè un pasto lecito (halal) e conforme al precetto di Allah. Pena: il reclamo e la segnalazione urgente al magistrato, che sono diventati prassi (come la pretesa del risarcimento in euro) da quando la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia perché (avendo le prigioni sovraffollate) «viola i diritti dei detenuti». E gli arabi reclusi da noi, consapevoli di come funziona il loro sistema carcerario non proprio morbido, sono sempre i primi a denunciare «il trattamento inumano e degradante» riservato nei nostri istituti. «Supponenti e irrispettosi nei confronti degli italiani. Avvezzi a comportarsi come fosse loro tutto dovuto» così li descrive la guardia, che impotente e rassegnata aggiunge « “... Tu razzista!”, è la prima frase che imparano anche quando non conoscono una parola in italiano. E la usano per ricattare e chiedere o lamentare qualsiasi cosa». Atef al J., seduto a un tavolino arancione, setaccia semi di papavero e li trasferisce sopra un foglio di carta. É finito dentro per una sfilza di intercettazioni e chat che lasciavano intravvedere la determinazione a raggiungere la Siria per unirsi all’Isis. Sostiene di essere fuggito da Algeri sotto la minaccia degli attentati, e non ha fatto storie quando il capo dell’ufficio Matricola gli ha preso le impronte. Di colpo, abbandona il papavero e si avvicina alla guardia chiedendo di poter telefonare alla madre moribonda. Allunga un pezzo di carta mezzo unto sul quale ha scarabocchiato il numero di casa, sostiene. Ma per quale motivo se davvero arriva dall’Algeria dove (racconta) i parenti l’aspettano, questo Atef al J., ha segnato sul foglietto il prefisso telefonico di Baghdad? Anche lui, come tanti altri carcerati stranieri ha dato generalità fasulle. E chissà quante sono le volte in cui ha cambiato nome e provenienza da quando è stato arrestato e portato in prigione. Hassan K., fuma e passeggia nel corridoio della sezione, insieme con le decine di altri chiassosissimi reclusi italiani e di etnia simile alla sua. Gli investigatori e i capi dell’istituto, guardando a ritroso certi fotogrammi che riprendono uno degli infiniti barconi approdati a Lampedusa dalla Libia, lo hanno subito riconosciuto nel gruppo dei presunti profughi e dei disperati vaganti. Si distingueva Hassan K., perché anche lui, come tanti altri immigrati destinati a delinquere e a finire in prigione, aveva il cappuccio calato sulla faccia quand’è sceso. Mascherarsi il volto è un esercizio collaudato e che garantisce impunità a chi intende, fin dall’inizio, non farsi identificare. «Certo», ci spiega il direttore di uno degli istituti a maggiore concentrazione straniera, «noi ci proviamo a contattare i loro Consolati o quelli presunti. Ma è un’impresa improba riuscire a dare un’identità a questi individui, perché sono i Consolati stessi a nasconderne i documenti d’identità. A farli sparire». Motivo? I Paesi da cui provengono tanti diperati o molti terroristi nemmeno presunti, sono i primi a non rivolerli indietro. Posto che l’immigrato stesso (profugo o clandestino) è il primo a pretendere di restare. E a fare di tutto per riuscirci. Sappiamo quanti sono gli stranieri nelle nostre carceri e conosciamo i reati che hanno commesso. Ma non abbiamo affatto idea né di chi siano, né quale storia si portino dietro. «Ed è proprio ciò che hanno alle spalle», spiega un funzionario del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria «la vera minaccia». Tradotto: la bomba pronta a esplodere. Hassan K., (dicevamo) come tutti gli altri detenuti della sezione con le celle spalancate, gironzola nel corridoio. Perché il nuovo regime carcerario consente (a chi sta nelle sezioni non sottoposte all’alta sorveglianza) di non rimanere necessariamente in gabbia. Così la maggioranza, se non tutti i reclusi, gironzolano e fumano nei lunghi corridoi che corrono davanti alle inferriate. In mezzo a loro ci sono le guardie, ma nessuno può proibire ai carcerati di parlare. Al tempo stesso, nessun agente è in grado di capire cosa si dicono in arabo gli islamici. «Si fanno intendere solo quando gridano, saltano e esultano in seguito a qualche attentato», commenta sdegnato l’agente girando le mandante del cancellone. I praticanti la religione di Allah eleggono autonomamente il loro imam: si riuniscono in assemblea e scelgono il musulmano che sa scrivere meglio e risulta più istruito. Sarà costui, da quel momento, a «chiamare la preghiera» a ricordare i dettami della Sharia e a radunare i fedeli quand’è necessario. Per tutti vale comunque la regola della preghiera il venerdì. Allora eccoli che, in gruppo, li vedi camminare verso la palestra dell’istituto trasformata in moschea e interdetta agli altri reclusi. Atef al J., come tutti gli altri Muhammad telefona al “suo” paese e a “suoi congiunti”, sostiene. Lo prevede il regolamento carcerario, articolo 28 del codice (“Rapporti con la famiglia”). Ma se anche lui come la maggioranza si nasconde dietro falso nome, com’è possibile stabilire che davvero siano i familiari i destinatari delle chiamate e delle corrispondenze (legittimate dall’articolo 18) e non i complici dei loro reati? Ancora: le conversazioni telefoniche avvengo in arabo. Nessuno le ascolta. Perché nessuno capisce. Chi può escludere facciano proselitismo o ancora peggio preparino attentati? Certo, i nastri registrati vengono archiviati per essere tradotti all’occorrenza. Per esempio dopo l’attentato.