Paolo Conti e Aldo Grasso, Corriere della Sera 15/8/2016, 15 agosto 2016
IN MORTE DI BERNABEI – «Davvero si può dire che con Ettore Bernabei scompare uno dei padri dell’Italia repubblicana», ha commentato ieri il ministro per i Beni e le attività culturali Dario Franceschini
IN MORTE DI BERNABEI – «Davvero si può dire che con Ettore Bernabei scompare uno dei padri dell’Italia repubblicana», ha commentato ieri il ministro per i Beni e le attività culturali Dario Franceschini. Un omaggio al protagonista di «un lavoro di costruzione della Rai come autentico servizio pubblico, di missione educativa e di costruzione di una unità nazionale meno fragile attraverso la diffusione della lingua, della conoscenza e di valori comuni». E sono in tanti a rendere omaggio all’uomo che, nella direzione generale tra il 1961 e il 1974, ha fatto della Rai uno strumento contemporaneo (i funerali si celebreranno domani a Roma alle 11, a sant’Eugenio alle Belle Arti). L’attuale direttore generale della Rai, Antonio Campo dall’Orto, riconosce a Bernabei l’intuizione di una Rai come «rappresentazione dell’identità collettiva, luogo inclusivo in grado di raccogliere tutti». Analisi condivisa da un altro grande protagonista della tv pubblica, Pippo Baudo, 80 anni, in queste ore impegnato a mettere a fuoco il suo ritorno a «Domenica in» su Rai1 come conduttore e direttore artistico: «Condivido la definizione del ministro Franceschini, Bernabei è stato un padre dell’Italia repubblicana. Senza di lui non avremmo avuto il servizio pubblico così come lo conosciamo. E vorrei soprattutto sottolineare un aspetto del suo lavoro: sarebbe ingeneroso, direi offensivo, relegarlo in un ruolo di moralizzatore. Bernabei era esattamente l’opposto: un grande modernizzatore, un uomo del suo tempo, capace di sottrarre la Rai alla chiusura un po’ pretaiola che, senza offesa e col massimo rispetto, l’aveva collocata Filiberto Guala, che poi infatti prese i voti… una Rai molto ligia alla severità vaticana del tempo». Invece, ricorda Baudo, Bernabei fu il protagonista di una indelebile pagina della Rai: «È bene ricordare che nel 1961, quando nacque il secondo canale, Bernabei decise di affidarlo ad Angelo Romanò, un personaggio della sinistra cattolica. Era una scelta molto precisa». Basta rileggere qualsiasi storia della Rai per ritrovare il ruolo di Romanò, che le avvicinò Federico Fellini, i fratelli Taviani, Roberto Rossellini: sempre in accordo con Bernabei. Baudo poi ricorda «la stagione d’oro dei grandi sceneggiati televisivi. Fu uno dei grandi meriti di Bernabei: proporre al vastissimo pubblico popolare non solo I promessi sposi di Manzoni ma anche Tolstoj, Dostoevskij, i classici americani. Una tv capace di avvicinare le masse ma anche di proporre un messaggio culturale di eccellente qualità, basterebbe riguardare i cast degli attori, erano i migliori del tempo». E poi c’era un’altra abilità dell’uomo, quella di circondarsi di ottimi collaboratori. Spiega il conduttore: «Bernabei fu un acuto cacciatore di intelligenze. Accanto a lui lavoravano persone del livello di Pier Emilio Gennarini, un autentico intellettuale, così come lo erano anche Emanuele Milano, Fabiano Fabiani, Leone Piccioni. Tutti personaggi capaci di una profonda visione etica e culturale ma non codina né confessionale. Altrimenti non avremmo avuto la Rai che abbiamo visto, dal grande intrattenimento di qualità agli appuntamenti di approfondimento». Baudo, ha un ricordo particolare e personale di Bernabei? «Ricordo di averlo conosciuto quando la Rai era ancora in via del Babuino, perché occorre riconoscere che se la struttura di viale Mazzini esiste, parliamo di un’altra fetta della tv pubblica moderna, lo si deve a lui. Bernabei era sempre presente negli ambienti di lavoro, anche quando non appariva fisicamente. Era un uomo molto discreto ma dotato di una forza intellettuale unica. E poi rammento che quando introdussi gli operai dell’Italsider sul palco di Sanremo, nel 1984, non era più direttore generale della Rai ma chiese di vedermi e mi disse: “Baudo, da oggi lei ha un compito molto importante, ha assunto un impegno morale nella gestione della sua professione…”. Questo era Bernabei, e non lo dimenticherò mai». Paolo Conti LA CRESCITA CULTURALE (E INDUSTRIALE) DELLA RAI DEL «SOVRANO» BERNABEI – L’avventura tv di Ettore Bernabei può essere riassunta in due frasi. La prima è di Enzo Biagi: «Il più grosso torto di Bernabei è stato quello di non dire mai di no e accontentare il più largo numero di questuanti». La seconda è di Andrea Barbato, sotto forma di lettera aperta: «Un po’ a dispetto, siamo stati da lei addestrati alla libertà». Queste frasi spiegano bene le molte sfumature di un uomo che è rimasto dietro le quinte del potere per oltre 50 anni. Forse sarebbe più giusto scrivere «dentro il potere» perché non c’è stato avvenimento politico di rilievo che non lo abbia visto protagonista: sempre un po’ defilato ma mediatore instancabile, consigliere ascoltato. Bernabei è stato per molti anni (1961-1974) il padrone assoluto della Rai. Ha dominato l’azienda come un sovrano. Basta ricordare le ormai leggendarie censure a Fo e a Tognazzi o al fatto che nei tg la parola «sciopero» poteva essere usata solo quando l’astensione dal lavoro era terminata. Il suo mandato era quello di spostare l’asse politico della Rai dal centro-destra al centro-sinistra favorendo l’ingresso dei socialisti ma restando molto vicino ai poteri forti della Chiesa (non ha mai fatto mistero della sua appartenenza all’Opus Dei), mettere uomini fedeli nei posti chiave dell’azienda, promuovere con vigoria lo sviluppo dell’azienda portandola al livello delle più forti e blasonate tv europee. È anche vero che allora la tv era nella sua fase esplosiva e ogni programmo veniva visto con curiosità e partecipazione. La sua frase più citata suona: «I telespettatori sono 20 milioni di teste di ca... (espressione in seguito ingentilita con altri eufemismi, ndr ). A noi il compito di educarli». La sua politica è così riassumibile: un autoritarismo illuminato che, in quanto tale, conservava tenacemente il controllo politico dell’azienda ma lasciava anche spazio ai professionisti e si preoccupava della crescita culturale e industriale della Rai. Aldo Grasso