Marco Imarisio, Corriere della Sera 14/8/2016, 14 agosto 2016
UN FIGLIO D’ORO
Bruno Rossetti ha assistito al duello finale nascosto dietro a una colonna. Stava in piedi, dritto come un fuso, e si mordeva le unghie. Non voleva farsi vedere, esibire una commozione evidente, come se le emozioni potessero interferire con quello che stava accadendo in pedana. Ma un padre lo sa, certe cose le sente. Quel ragazzo ha cominciato a sparare che aveva 7 anni, con lui chino sul fucile che gli insegnava come sentire il grilletto, l’attesa e il momento che tutto è in asse. «Ma è diverso da me, perché a lui piacciono le sfide. Adesso che si è salvato eliminando i miei ragazzi, vedrai che va fino in fondo».
Appena finito di pronunciare queste parole, il suo carissimo nemico Gabriele, che per entrare nella finale dello Skeet era dovuto passare per le forche caudine dello spareggio con i due atleti francesi da lui allenati, eliminandoli entrambi, ha cominciato a sparare. Tornando a essere suo figlio, sangue del suo sangue. «Guarda come aspetta il piattello, come è freddo». Con un gesto ha fatto segno ai giornalisti di allontanarsi, certi momenti devono essere vissuti in solitudine, anche se circondato da una folla. Pochi minuti dopo era tutto finito. Bruno aveva ragione, chi lo ferma più. Gabriele era una macchina, 16 centri sui primi 16 piattelli, la gara perfetta quando più contava. Oro, alla prima Olimpiade, a soli 21 anni appena compiuti.
In questi giorni trascorsi al villaggio olimpico Gabriele sembrava un bambino in una pasticceria. Girava ovunque, fotografava tutto, mostrando stupore a ogni incontro con colleghi di chiara fama. La prima Olimpiade, a quell’età poi, sarebbe stata comunque un ricordo indelebile. «Un evento meraviglioso, te ne rendi conto appena entri dentro l’atmosfera. Ho passato dieci giorni in un villaggio che non dorme mai, dove ho incontrato storie e culture diverse, dall’atleta che fa colazione con la pizza a quello che alle due di notte saluta tutti e va a correre». Il padre gli ha aperto le porte della palazzina francese, facendogli conoscere i suoi idoli, Tony Parker e Boris Diaw, gente di basket.
Oggi Niccolò Campriani disputerà la sua ultima gara olimpica, salvo ripensamenti. Ma l’Italia delle carabine ha già trovato una nuova miniera d’oro, ancora una volta nel nome del padre che trasmette la passione al figlio. «Sono cresciuto in questo ambiente, mi sento come a casa mia. Mi piace tutto. E questo aiuta, mi fa sentire sicuro». Gabriele ha doppio passaporto, ma non si sente un’anima divisa in due. Il padre è nato a Troyes, in Francia. Prima di essere naturalizzato e conquistare per l’Italia un bronzo che ancora oggi sa di rimpianto per l’oro sfumato, aveva gareggiato per il suo Paese natale. «Sono malato di calcio e confesso di tifare per il Paris Saint Germain. Ma il mio cuore è italiano, mi sento italiano al cento per cento. Mi è dispiaciuto battere gli allievi francesi di papà. Ma io non sparavo contro di loro, o contro di lui. Non ho nessun conto da regolare, credetemi. E poi lui guida un’altra Nazionale, ma non importa. Io lo so dov’era, che era con me. Potevo sentirlo».
L’attesa della finale l’ha trascorsa seduto sulle poltroncine di una delle tante sale tiro del poligono. Chiacchierava, mandava messaggi. «Avevo sensazioni positive, perché avrei dovuto prepararmi in modo speciale? Un piattello alla volta. Anche il giorno prima, quando mi sono trovato a metà classifica, sapevo cosa fare, bastava non sbagliare». La prima domanda che gli fanno riguarda Bruno. Dice che questa è la rivincita per il bronzo di Barcellona, quando perse due posizioni all’ultimo tiro. Gabriele scuote la testa. «Ma no, ognuno ha la sua storia. Gli dedico l’oro, ma lui allena i miei rivali più forti. Ci ritroveremo presto». Venerdì era stata una storia di madri, con la finale tutta italiana. L’oro di ieri nasce dal rapporto tra padre e figlio. E quindi ha ragione Gabriele, la vendetta non c’entra nulla con questa storia. Nelle questioni e nei rapporti di famiglia le cose sono sempre più complicate di come appaiono.