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 2016  agosto 14 Domenica calendario

DA “ANTI” A FIGHETTI: MANUALE PER HIPSTER FELICI (E RIDICOLI)

Ne è passato di tempo da quando Allen Ginsberg vedeva “hipsters testadangelo bramare l’antico spaccia paradisiaco che connette alla dinamo stellare nel meccanismo della notte”, che si perdevano “nel sovrannaturale buio di case con acqua fredda librati su tetti di città contemplando jazz”. Erano gli anni Cinquanta, Ginsberg “urlava” il suo amore per Neal Cassidy, un altro grande protagonista della Beat Generation, e tra cultura ebraica, flussi di coscienza, ritmi bebop e buddismo zen, inventava un nuovo modo di guardare il mondo, un piccolo grande rifugio per non farsi inghiottire dal capitalismo americano. Oggi, di quelle urla liberatorie, non è rimasto granché. Ginsberg è diventato uno status symbol, come dire “guardate un po’ qui cosa leggo, quanto mi mancano quei tempi che non ho mai vissuto”, ed è finito in qualche immagine profilo o di copertina su Facebook, o su Instagram accompagnato da hashtag come #urlo #margherita #beatgeneration, e qualcuno è anche convinto che lui abbia la faccia di James Franco.
E gli hipster, che prima erano gli esistenzialisti americani, oggi non sono più una nicchia, emarginati da una società che non li vuole, non li ascolta, non li capisce. Sono diventati mainstream, e sono così facili da incontrare per strada, e soprattutto da definire, che è bastato un libretto di poco più di cento pagine, scritto da Jeremy Cassar e illustrato da Carla McRae, How to spot a hipster (Smith Street Books, pp. 111, £ 9.99), per raccontare ed esaurire tutte le loro abitudini, i loro vizi, le loro idiosincrasie.
Le case di quelli che nel mondo di fuori sembreranno degli hipster sono come dei camerini, pieni di luci e di specchi, da quelli tradizionali a quelli che si creano toccando la fotocamera dell’iPhone. La moda hipster è unisex, quindi può capitare che nell’armadio e nei cassetti di uomini e donne ci siano gli stessi vestiti, le stesse scarpe, gli stessi cappelli, gli stessi occhiali, le stesse shopper. Bisogna indossare dei jeans skinny, strettissimi, che ricalcano la forma delle gambe e che spesso fanno sembrare gli hipster più magri e più altri, e non è importante che poi si cammini male e che “alle future generazioni circolerà poco il sangue”.
Gli occhiali possono avere le lenti tonde, alla John Lennon, oppure la forma dei Ray-ban wayfarer, meglio se con la montatura in legno. “Quattrocchi”, d’ora in poi, non sarà più un’offesa, “ma un complimento”, due piccole finestre da cui osservare il mondo e dietro cui nascondere la propria identità. Una borsa a tracolla, di pelle, o uno zaino della Herschel, devono sempre contenere un Macbook, con la scrivania affollata di file word pieni di appunti e di racconti mancati, una Moleskine, che ha il potere di trasformare uno qualunque in un grande scrittore alla Hemingway, e un paio di cuffie grandi, magari quelle costosissime brevettate da Dr. Dre, anche se non è importante sapere chi sia questo Dr. Dre.
Le donne nascondono la fronte sotto una frangetta, come Zooey Deschanel, e gli uomini si rifugiano nei barber-shop per curare le loro barbe folte, “scolpite e simmetriche”, in un look che va da John Legend a Garibaldi. Quando escono di casa, che è un po’ come se entrassero in scena, gli hipster si ritrovano nei caffè, nelle gallerie di artisti sconosciuti con buffet gratis, nei festival di musica, negli spazi di co-working (dove “ci si occupa dei contenuti”), nei locali dove ci sono le jam-session o gli open-mic di “gruppi che imitano Johnny Cash”, nei bar che cambiano con l’arrivo della notte, quando si presenta un dj munito di macbook pronto a far ascoltare la sua playlist di Spotify.
“Tu fumavi ed ostentavi una malinconia, che male s’intonava coi tuoi leggins fluorescenti”, cantano I Cani in Hipsteria. Tutto quello che fanno è indie, tutto quello di cui parlano è “letteralmente” indie, dai cibi bio, che sono quelli che in foto vengono meglio, specie se affiancati a un romanzo di Kerouac o a un vinile dei Fleetwood Mac, ai film di Truffaut, Fellini, Gondry, Lynch e Wes Anderson, così simmetrici, con quei colori forti, un po’ vintage, come in uno dei filtri di Instragram, con quei personaggi strambi, insicuri, goffi, ma in fondo teneri e buoni, proprio come gli hipster.
Giorgio Biferali, il Fatto Quotidiano 14/8/2016