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 2016  agosto 14 Domenica calendario

“CANZONI DELLA CUPA COME UN PROVERBIO CONTADINO: È UN ATTIMO E SEI A OMERO” – [Intervista a Vinicio Capossela] – L’auto era una Opel Ascona, il luogo da raggiungere per l’esibizione un piano bar con funzioni di teatro e cabaret chiamato Madonna Verona, gli anni di Vinicio Capossela, 30 in meno di oggi: “Alla fine della prima settimana la proprietaria mi si avvicinò

“CANZONI DELLA CUPA COME UN PROVERBIO CONTADINO: È UN ATTIMO E SEI A OMERO” – [Intervista a Vinicio Capossela] – L’auto era una Opel Ascona, il luogo da raggiungere per l’esibizione un piano bar con funzioni di teatro e cabaret chiamato Madonna Verona, gli anni di Vinicio Capossela, 30 in meno di oggi: “Alla fine della prima settimana la proprietaria mi si avvicinò. Fu gentile, ma diretta: ‘Può limitarsi a suonare senza cantare?’. Pensai che in fondo non aveva minacciato di pagarmi la metà di quanto pattuito né di cacciarmi. Voleva solo che non appoggiassi la bocca al microfono. Mi parve una richiesta ragionevole e la accontentai”. Il cappello a falde larghe, le prove, un concerto abruzzese, tappa intermedia del tour agostano, a un’ora e mezza dal via. Per mettere insieme suggestioni e rimandi di Canzoni della cupa, il suo decimo album in studio, Capossela ha impiegato più di un decennio. In due dischi ci sono le ascendenze irpine e le radici: “Quello che sono mi porto addosso” e 29 canzoni di mezzogiorno di fuoco, polvere e terra, ombra, campi di grano, paure ancestrali, simboli e femmine chine sul tabacco: “Un mondo e una cultura, quella contadina, con i quali in realtà non ho avuto un rapporto diretto, ma solo un’esperienza legata al racconto epico e mitico che durante l’infanzia, di quell’universo mi faceva mio padre. In un certo senso questo non è il mio disco, ma il suo”. Tedesco del ’65 presto emigrato da Hannover a Scandiano: “Sono apolide? Come diceva Tognazzi ‘abituato a viaggiare’”, Capossela ha una casa a Milano, tanti camerini simili a quello di Pescara: “Bello questo neon, no?” per cantare, scrivere, recitare e reinventare moderni baccanali. Il suo Sponz fest itinerante, dal 22 al 28 agosto in Campania, è alla quarta edizione: A volerla chiamare Vinicio fu proprio suo padre. Essendo il primogenito maschio, per una tradizione immutabile, mi sarei dovuto chiamare Vincenzo come mio nonno. Per mio padre Vito alterare il corso delle cose rappresentò un coraggioso atto di insubordinazione. Mio nonno non la prese bene: “Che cazzo di nome gli hai dato, non lo trovi neanche nel calendario di Cristo”. E Vinicio fu. Come il Console Marco Vinicio, il personaggio interpretato da Robert Taylor in Quo Vadis e come il fisarmonicista dei coloratissimi dischi della Durium che mio padre, operaio, comprava come unica evasione dalle strettissime economie familiari e come sola concessione – insieme alle Nazionali Esportazione – al fatuo, all’inutile e all’inessenziale. Sa qual è la cosa più bella? Qual è? Che Vinicio, il fisarmonicista, si chiamava in un altro modo. L’ho scoperto anni dopo, quando mi ha scritto il figlio: “Grazie per il pensiero, ma quello di papà era solo un nome d’arte”. Ci è rimasto male? Mi è venuto da ridere e ho pensato che non facesse poi una gran differenza. A casa, di questi 45 giri con Adamo e Celentano in copertina, eravamo pieni. Non erano canzoni colte, ma mio padre le citava con la serietà che si riserva ai classici. Erano pezzi che le piacevano? Molto. Erano un patrimonio di canzoni, le canzoni degli emigranti finiti a lavorare in Svizzera e in Germania, a cui ero e sono affezionato. D’estate, quando gli emigranti tornavano a casa, a Calitri, il paese di mio padre, pareva natale. Per lo stupore dei parenti si aprivano i bagagliai di queste automobili con le targhe straniere e sembravano pasticcerie. Chili di cioccolata, cioccolata per tutti. I figli degli emigranti avevano gomme delle biciclette indistruttibili. “Cavolo – mi dicevo – con queste posso andare ovunque”. Quelle della mia bici erano più o meno sempre bucate. E i padri? Ascoltavano Celentano, esattamente come il mio. Per lui andava matto. Se lo sognava persino. E i sogni ce li raccontava. Poi un giorno il suo idolo Celentano, mio padre lo incontrò davvero. Gli andò incontro con emozione e all’improvviso, disarmato, non seppe più cosa dirgli. Non appena la conversazione arrancò, al primo silenzio troppo lungo, gli chiese della famiglia e dei figli e lui rispose con una frase di circostanza, qualcosa come: “I figli sono tali solo fino a quando non crescono”. Seguì un altro lungo silenzio. Non ci furono più altre occasioni di scambio. In Full of life, uno dei suoi scrittori preferiti, John Fante, dice quasi la stessa cosa: “Figli… odiano il loro padre… si vergognano della propria carne e del proprio sangue… ti seppelliscono. Ti dimenticano”. Bisogna sempre uccidere il padre e il padre, come racconta l’incipit dell’Edipo Re di Pasolini, è perfettamente consapevole del proprio destino. Si uccide il padre come si uccide la tradizione perché famiglia e piccola comunità sono contesti soffocanti e antropofagi. Anche se è crudele e doloroso, prima o poi bisogna affrancarsi e recidere il cordone. Accade a tutti e naturalmente è successo anche a me. Il parricidio esiste anche nel suo mestiere? Esiste, perché trovare una tua strada, anche se hai avuto la fortuna di incontrare maestri molto validi, è un’esigenza imprescindibile. A che scuola è cresciuto Vinicio Capossela? All’eccezionale scuola di Renzo Fantini. L’incarnazione stessa, se davvero esiste, dell’epica del mondo dello spettacolo. Renzo, storico produttore di Conte e di Guccini, era una persona straordinaria. E dico straordinaria, non solo perché si muoveva per il mondo senza nascondere il registratore di cassa sotto il cuore, ma perché aveva un suo modo, unico e fuori dall’ordinario, di guardare alle cose della vita. Anche sul lavoro. Aveva un suo sistema di riferimento e dove andassero gli altri, gli importava poco. Incontrarlo è stata una grande fortuna. Come arrivò a Fantini? Grazie a una musicassetta incisa al Piazza di Bellaria. Mi registrai da solo, con il rumore di fondo dell’aspirapolvere, all’una di notte o giù di lì, mentre i clienti aspettavano che le cameriere, le bellissime cameriere, finissero il turno per chiedere un numero di telefono, un appuntamento o solo la scusa per tornare il giorno dopo. “Che strana razza è poi il cliente/ c’è quello bello e intelligente/ c’è il casinaro e l’invadente…”. Il suo primo album, premiato al Tenco, si intitolava All’una e trentacinque circa. Non a caso. Nel primo disco c’erano – romanzati – i personaggi che avevo visto con i miei occhi. Quella cassetta di pessima qualità, quell’impresa disperata, arrivò attraverso qualche peripezia nelle mani di Guccini che la ascoltò e da gigante si chinò curioso sul nano: “Che hai da dire?”. Telefonò a Fantini e gli chiese di ascoltare il nastro, Renzo resistette, Francesco insistette e alla fine io e Fantini ci incontrammo. Mi concesse fiducia. Fu una specie di miracolo, una cosa rara, un evento che non si verifica tutti i giorni. Dopo i primi tre dischi, c’era indecisione sulle definizioni. Chi la vedeva come il Tom Waits italiano, chi come l’erede di Paolo Conte. Scriveva le canzoni che gli altri si aspettavano scrivesse per somigliare a qualcun altro? Non penso di averle scritte perché qualcuno si aspettava fossero in un certo modo, ma soltanto perché erano cose che avevo dentro. Storie biografiche con le quali avevo – credo – messo a dura prova il pubblico. Erano un minuscolo “sulla strada” di quel momento della mia vita ed erano forse brani in certi casi un po’ scolastici, per quanto la band che mi accompagnava fosse invece di altissima scuola. Erano gli stessi di Guccini e Conte. Bandini, Tavolazzi, Marangolo, Pitzianti, persone affettuose a cui sono ancora molto affezionato. Con il quarto disco, Il Ballo di San Vito, lo scarto stilistico e tematico è radicale. Un disco che come tutti quelli che ho scritto dopo è un lavoro molto diverso e lontano dai primi tre. Da lì in poi ho scelto di lavorare su opere corali, di definire un campo d’azione, di andarmi a occupare di un tema, di un mondo o di un immaginario sviluppando un racconto. All’epoca de Il ballo di San Vito volevo trovare una strada differente e scelsi di lavorare anche con alcuni nuovi musicisti inglesi tra cui Marc Ribot. Renzo conosceva il francese, ma non l’inglese e nonostante non capisse fino in fondo la situazione e forse si sentisse un po’ estromesso, mi disse: “Non li conosco, ma mi fido di te”. Fu molto importante, mi permise di non snaturarmi, mi assicurò autorevolezza nei confronti dei direttori artistici della casa discografica. Battiato voleva mandarli in pensione insieme agli addetti alla cultura. Ma Battiato cantava quella canzone in un’epoca in cui esistevano persone che non si fermavano alle vendite magari modeste di un esordio, ma su un cantante o su un cantautore curavano un progetto. Oggi? Oggi per le case discografiche vale un po’ quello che accade per i primi ministri: apparentemente hanno potere, ma in realtà ubbidiscono a qualcosa di estremamente più grande di loro. A un fatto culturale. Al valore apparentemente incontrovertibile del capitale. Una questione che va ben al di là di un pur illuminato direttore artistico e abbraccia problemi diversi: cosa passa per le radio? Chi lo decide? Cosa muove l’industria della musica, un’industria che come introiti non viene molto dopo quella delle armi, dei farmaci e dell’alimentare? Io questa massa informe di cose e non solo di canzoni che arriva dalla radio commerciale non sempre riesco a distinguerla. Cosa sia esattamente non lo so. I cantautori del suo immaginario? Ero anagraficamente contemporaneo a una fase storica ricchissima per i cantautori, ma l’ho saltata. Li ascoltavo poco. Li associavo alla pesantezza. Li ho scoperti dopo. E non parlo solo di Tenco o De André, ma anche dei cantautori erroneamente considerati minori come Ivan Graziani, Finardi, Fortis o Alan Sorrenti. Che cose straordinarie che faceva, Alan Sorrenti. Prova spesso nostalgia? Quasi mai dei miei 18 o dei miei 25 anni, ma forte, profonda e tenace invece per tutto quello che non ho vissuto materialmente. Scrivendo Canzoni a manovella e oggi Canzoni della cupa mi è successo di provare nostalgia. Una nostalgia indiretta di qualcosa che della tua vita non fa parte, ma al tempo stesso ti riguarda direttamente. Il suo Sponz fest in Irpinia è un manifesto nostalgico? Non è un operazione di memoria né di nostalgia. È un dono per tutti, una festa del presente. A Canzoni della Cupa pensa dal 2003. Occuparsi di una materia che ha a che fare tanto con l’inconscio personale quanto con la storia mitica e reale di un territorio è un esercizio faticoso. È un sacrificio. Sacrifichi i ricordi di un periodo della tua vita, il forziere che ti è stato donato in forma di racconto orale per rielaborarlo e restituirlo sotto forma di una canzone. Nel farlo è quasi come se quei ricordi non ti riguardassero più. Li perdi. Per questo ci ho messo tanto tempo. Mi è costato, anche sentimentalmente. Proprio come il libro, il Paese dei Coppoloni, un’altra immersione che ha richiesto anni. Come mai? Forse dipende dalla prospettiva. Sono storie raccontate dal mio punto di vista, quello dei coppoloni, la gente che si doveva togliere il cappello di fronte ai signori. La carne da macello pronta a emigrare per sopravvivere. Quella dominata e cantata dal più grande cantore della miseria oggettiva e della fame, Matteo Salvatore. Le sue non sono enfatiche canzoni di protesta, ma canzoni di rassegnazione perché la gente di cui si occupa non conosce la parola ribellione e tutt’al più può cantare in falsetto nei campi, a bassa voce, di nascosto, perché non sembri che ci si possa divertire. E questo in Irpinia come in Louisiana, per questo certe storie, le storie della terra, si somigliano tutte e sono quasi identiche anche certe radici musicali e certi proverbi. Nei proverbi vedi le incrostazioni millenarie, le sedimentazioni, le storie di una comunità. Basta un attimo e sei già a Omero. Gli anni della scuola? Ho scelto chimica alle superiori e poi ho fatto un po’ Economia all’Università di Parma. Tutte materie che ancora non so perché ho studiato. La mia intera esperienza scolastica è un’esperienza da sonnambulo. Non ero totalmente consapevole di quel che accadeva quando ero in aula e ancora non so come ho fatto a superare certi esami. Ho sempre pensato a qualcos’altro. L’insegnamento principale della scuola è stato questo: pensare a qualcos’altro. Legge poco? Leggo in maniera drammaticamente disordinata e vedo molti film. Il primo con Manfredi e con Sofia Loren che si spogliava senza lasciarci vedere nulla lo osservai in piazza da bambino e non me lo sono più dimenticato. Se togliamo dal piatto queste due grandi invenzioni dell’umanità, letteratura e cinema, cosa rimane? Ripensa mai agli esordi difficili? Al Vienna di Modena un punk uscì dalla sala sputando per terra e gridandoci “voi siete la morte”, ma come diceva quel saggio: le début c’est le début. All’inizio vale tutto, ma proprio tutto. E non te la puoi prendere, né offenderti. Devi andare avanti, proprio come insegna Amarcord. Quando vecchio e giovane si ritrovano a far mattoni, il ragazzo si lamenta e l’altro lo zittisce: “Ma te stai buono e lavora perché lavorando, si lavora”. Per me è così, vado avanti lavorando. E se tornassero i tempi del Vienna? Bisogna essere disposti ad accettare l’idea. Sapere che possiamo ammalarci, perdere tutto quel che abbiamo o morire significa essere uomini. Per tutta l’intervista lei ha guardato un punto indefinito. È timidezza? Fantini diceva una cosa giusta: “In ogni posto in cui si fa spettacolo c’è un cartello con scritto ‘vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori’. Intendeva dire che ci sono dimensioni che non vanno confuse, confini da non superare e porte che non vanno varcate. Lo sguardo per me è quella porta, allora se parlo di spettacolo, preferisco non guardare negli occhi l’interlocutore. Tanto poi l’intervista è sempre una modulazione in maniera impersonale, di cose personalissime. E le dispiace? Per niente. C’è di molto peggio. di Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 14/8/2016