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 2016  agosto 14 Domenica calendario

DONALD E I BIANCHI POVERI D’AMERICA

Sono i “John Doe” delle elezioni americane. Vittime anziché protagonisti della politica, senza nome, senza volto e spesso senza voto. In questo caso John Doe fa il camionista quando va bene, è bianco, sui 40 anni e si ferma a uno di quegli autogrill in versione statunitense dove puoi sempre riempire il serbatoio di benzina e lo stomaco di fast food. Non è troppo distante da dove si svolge, a fine luglio con gran fanfara, la Convention democratica che incorona Hillary Clinton per la Casa Bianca. Ma a lui appare molto lontana. Gli piace semmai Donald Trump, dice, semplicemente perché non sembra un politico.
No, il suo non è qualunquismo e neppure rabbia. È povertà. La povertà bianca e nascosta d’America alla quale i candidati faticano a rivolgersi. Quella realtà dove la questione razziale interseca uno dei più duraturi tabù dell’“eccezionalismo americano”, le classi. Dove i poveri non afroamericani o più di recente ispanici o asiatici - un esercito formato dal 42% di 47 milioni di persone, un sesto della popolazione - sono stati tradizionalmente identificati da collezioni di aggettivi denigratori, il più comune e evocativo dei quali e’ “white trash”, spazzatura bianca.
Il controverso avvento di Trump e del suo populismo tra i repubblicani ha fatto leva anche sul cosiddetto White Trash, su questa spina nel fianco dell’iconografia del Paese come terra di opportunità, della religione della mobilità sociale con un ceto medio che tutto ingloba. Segno che, con le crescenti sperequazioni economiche, lo sfilacciamento della middle class fa sentire a tanti, forse, il fiato sul collo della “spazzatura”. Le analisi delle regioni che gli hanno offerto sostegno - quello zoccolo duro del 30% che non evita disfatte elettorali a novembre ma resta ragguardevole - sono rivelatrici: una popolazione spesso non urbana, all’apparenza marginale o marginalizzata dalle trasformazioni dell’economia. Che di frequente non ha finito le scuole superiori, non ha lavoro né più lo cerca. E che, terza correlazione in assoluto, vive nel ghetto delle mobile homes, i quartieri di roulotte: simile “mobilità”, avvertono i sociologi, è una delle più brutali garanzie di continue spirali di miseria.
Questo non vuol dire che i poveri abbiano trovato voce. Trump vanta di rappresentare gli arrabbiati di ogni genere, ma lui stesso ha sempre negato con imbarazzo l’esistenza del “white trash”. Eppure il New York Times ha sottolineato come gli Stati Uniti abbiano il tasso di povertà (il 15%, salito di 2,3 punti in sette anni) più elevato di qualunque paese sviluppato ma mai come oggi assente come tema dalla campagna elettorale. Come 11 milioni di famiglie siano costrette a spendere oltre metà del reddito per un tetto. E come finora i candidati siano stati semmai più silenziosi che in passato sul dramma: le proposte di Trump, compreso crediti d’imposta per gli asili, aiutano anzitutto i redditi oltre i 75.000 dollari l’anno. E Clinton non ha trovato spazio nei 37 punti della sua piattaforma per un piano di case popolari,vera mancanza per i democratici. Entrambi, nel corteggiare i voti incerti, preferiscono parlare ai sempre meno numerosi operai specializzati, 64.000 nella siderurgia, che non ai sempre più numerosi, 820.000, malpagati assistenti a domicilio.
Ma i poveri e la povertà riemergono ugualmente con forza al centro delle preoccupazioni. Quallo del Times in questi giorni è stato il primo articolo dedicato al tema della pur ormai lunga stagione elettorale. Ed è fresco di stampa e fa parlare di sé un provocatorio volume dedicato proprio al White Trash della storica della Louisiana Nancy Isenberg. O meglio ai «400 anni di storia sepolta delle classi in America». Se forse non proprio sconosciuta, questa storia è certo facilmente negata e dimenticata. Dagli inizi coloniali, quando gran parte dei “pellegrini” non erano mossi verso il nuovo mondo da aspirazioni di libertà e democrazia quanto da debiti schiaccianti, contratti di servitù, commutazioni di condanne se non rastrellati da bambini in una Londra dickensiana e spediti oltreoceano. È qui - non solo negli illuminati padri fondatori peraltro sovente impegnati a ricreare una aristocrazia americana - che trova le sue origini il Paese. E che nasce il concetto della “gente spazzatura”: i piani coloniali britannici vedevano l’America come l’ultima spiaggia di reietti, gente inutile o dannosa che da allontanare dall’Inghilterra e trasformare in operose api (l’insetto preferito nell’era imperiale) o morire. I coloni riprodussero a loro modo quella rigida eredità classista per i secoli successivi.
La North Carolina ha l’onore di prima “colonia White Trash”. Ma non è isolata. Sotto la superficie della terra della felicità a portata di mano si agita lavoro brutale e pregiudizio, che vede i poveri bianchi razza a parte, solo un gradino sopra gli schiavi afroamericani. Alexander Hamilton, oggi osannato a Broadway, propagandava donne e bambini indesiderati quale manodopera ideale per le mansioni peggiori. I poveri sono bersaglio di vilipendio (degenerati, vagabondi, ottusi), di progetti “scientifici” di eliminazione (l’eugenetica sposata da Teddy Roosevelt ne propugnava la sterilizzazione), di manipolazione in funzione razzista, esclusi da un “ristretto” American Dream di integrazione. «I poveri sono sempre stati con noi, con nomi diversi», denuncia Isenberg. L’origine sociale rimane oggi più influente che in molte nazioni europee per determinare il futuro (le chance di diventare ricco sono il 10%). Assenti dalla mitologia ufficiale, questi americani non sono mai scomparsi: non nella “felice mediocrità” pronosticata da Benjamin Franklin né’ con il New Deal, non con la Guerra alla Povertà di Lyndon Johnson, con il proclama nixoniano ai russi di una “classless society”, con il liberismo reaganiano o sotto il primo presidente afroamericano. Tantomeno tra le righe dei discorsi di Clinton e di Trump.
Marco Valsania, Il Sole 24 Ore 14/8/2016