Francesco Manacorda, la Repubblica 13/8/2016, 13 agosto 2016
LE RIFORME CHE MANCANO
Non lasciamoci ingannare dal Pil che resta fermo nel secondo trimestre dell’anno. L’orologio dell’economia continua a girare. Il problema, però, è che le sue lancette corrono all’indietro e vanno più veloci del ticchettare stanco della politica. Il governo ha di fatto messo il prossimo referendum costituzionale al centro delle sue preoccupazioni.
Contribuisce così a trasformarlo nel test decisivo per certificare il proprio stato di salute; forse addirittura l’esistenza in vita. Ma farebbe bene a distogliere lo sguardo per un attimo dalle polemiche sul voto per rivolgerlo a un panorama italiano che minaccia la desertificazione industriale e una caduta permanente dei consumi. Il rischio per Matteo Renzi non è tanto e solo quello di una possibile sconfitta al referendum di novembre. Incombe invece per lui il pericolo che lo stallo dell’economia — la ripresa non c’è e i numeri dicono chiaro che non ci sarà certo quest’anno — spinga le imprese fuori dall’Italia e allontani sempre più i cittadini dalla sua azione, facendogli perdere quel consenso di cui il governo (specie un governo che non è uscito dalle urne) ha un bisogno essenziale.
È innegabile che il quadro esterno non ci aiuti, come ha ricordato ieri anche il ministro dell’Economia. Ma dei tre fattori che Padoan ha citato come elementi frenanti per la nostra congiuntura — crisi migratorie, minaccia terrorismo e Brexit — solo il primo rischia di avere effetti più rilevanti sull’Italia che sul resto dell’Europa, fuori e dentro dall’euro. Del resto, nello stesso trimestre in cui la nostra economia è rimasta al palo quella tedesca — esposta agli stessi fattori — è salita, anche se solo dello 0,4%, mentre il Pil dell’area euro ha guadagnato uno 0,3%.
L’Italia mostra i suoi problemi anche se si guardano i dieci trimestri da inizio 2014 — quando si insediò per l’appunto il governo Renzi — ad oggi. È vero che in questo periodo l’evoluzione della nostra economia si è rovesciata di segno (da negativo a positivo). Ma come illustrava ieri il sito lavoce. info, fatto 100 il dato del Pil di quel primo quadrimestre 2014, oggi l’Italia è a quota 101,1, mentre l’intera Eurozona segna 103,3. In poco più di due anni abbiamo dunque perso oltre due punti nel confronto con la media europea.
Che l’Italia abbia bisogno di andare avanti su riforme di base che consentano a chi fa impresa di muoversi in un contesto meno ostile e con più certezze è una verità troppo logora per ripeterla ancora una volta. Così come i capitoli di quella grande riforma che sarebbe necessaria — il primo riguarda i tempi della giustizia e la certezza del diritto — sono già di fatto tutti scritti. Cosa va fatto si sa. Non resterebbe che farlo, traducendo chilometri di studi e mesi di convegni in azione governativa.
Il problema è che proprio la ricerca di consenso in vista del referendum rischia di fermare Renzi sulla strada delle riforme, che non sempre sono popolari e quasi mai sono indolori. Come leggere altrimenti la decisione del governo di non risolvere in modo definito e globale la questione bancaria — una questione fondamentale per l’Italia — e di affidarsi invece a una soluzione “di mercato” per il Monte dei Paschi di Siena? Sulla carta l’iniziativa è lodevolissima, ma nella realtà somiglia molto alla ricerca di una scappatoia dal percorso obbligato europeo che avrebbe penalizzato quegli azionisti e obbligazionisti che nei prossimi mesi si trasformeranno in votanti. E come leggere il risultato a metà delle riforme della pubblica amministrazione? Sulle partecipate pubbliche, più che un colpo di scure, si rischia una sforbiciata; la dirigenza pubblica resiste — con argomenti anche legittimi — a un’azione che in teoria dovrebbe inserire elementi di efficienza necessari per il settore pubblico. La spinta riformatrice appare indebolita, mentre la chiave della propaganda è la più adatta per interpretare l’ennesimo annuncio del presidente del Consiglio; questa volta sui 500 milioni che andranno ai poveri se dovesse vincere il Sì al referendum.
Le riforme si rarefanno e anche la politica monetaria iperaccomodante della Bce non sortisce più effetti sull’economia. Il governo si prepara così ovviamente a chiedere maggiore flessibilità di bilancio a Bruxelles in modo da poter aumentare la spesa pubblica. È una scelta più che legittima per provare a far ripartire la congiuntura; lo sarà meno se servirà solo a distribuire — o a promettere di distribuire — risorse a pioggia. Il consenso è il carburante indispensabile per qualsiasi azione politica, ma la politica ha il dovere di usare quel carburante per andare in una direzione precisa. Preferibilmente la direzione che era stata promessa dalle tante slide che adesso sembrano essere finite nella polvere di qualche cassetto.