Roberto Bongiorni, Il Sole 24 Ore 13/8/2016, 13 agosto 2016
IL CIELO SCURO E LA MORTE DI ALEPPO
Ad Aleppo il cielo non è quasi mai azzurro. Una coltre di fumo si intromette tra gli abitanti e il sole, ricoprendo di un’atmosfera plumbea quella che era la prima città della Siria, il suo polo economico. Sono i copertoni dati alla fiamme, quasi dappertutto, per confondere i cecchini e i caccia del regime che dal cielo bombardano gli “obiettivi mirati”.
Ma quella coltre che fa sembrare il sole così distante s sporco è anche il prodotto della polvere che si solleva incessantemente dai detriti degli edifici ridotti in macerie.
Provata da quattro anni di guerra, Aleppo rischia di subire il colpo di grazia. La popolazione rimasta in città è allo stremo; senz’acqua, senza elettricità, il sistema fognario al collasso e le cliniche decimate. Il cibo è sempre più difficile da trovare, e sempre più costoso. Lo stesso vale per i farmaci, quando si trovano .
Allarmata per quella che potrebbe trasformarsi nella peggiore catastrofe umanitaria della crisi siriana, l’Onu ha diramato mercoledì un appello. Chiedendo un cessate il fuoco totale – ipotesi improbabile – o un tregua di 48 ore ogni settimana per consentire il passaggio degli aiuti umanitari e ripristinare le condutture. L’appello pare essere stato accolto solo in parte, ed in modo inadeguato.
Ma cosa sta accadendo ad Aleppo? Una guerra senza esclusione di colpi si trascina da quattro anni . Era il luglio del 2012, quando i ribelli sbaragliarono le forze del regime, conquistando più della metà della città. L’esercito siriano reagì con una controffensiva durissima. La città si spaccò. I fronti erano fluidi, ma la battaglia continuava a partorire distruzione.
Quando avemmo l’occasione di trascorrere sei giorni nei quartieri controllati dai ribelli, durante una delle fasi più violente, la città si presentava con un aspetto surreale. Già a Tarek al-Bab, la roccaforte dei ribelli, uno dei quartieri orientali, molti edifici erano sventrati. Agli occhi le abitazioni si mostravano nude, senza un parete.
Gli alloggi più cari erano quelli ai piani bassi. Se un missile dovesse colpire qualche edificio si avrebbe qualche possibilità di sopravvivenza. Molte finestre erano coperte da cartoni, affinché non fossero un invito ai cecchini, una delle minacce peggiori. Sparavano contro i civili alla prima occasione. Per disorientare i killer invisibili, nelle strade più esposte i ribelli avevano appeso ai lati dei grandi teli. E si camminava così, in questa città distrutta, avvolti in una luce azzurra e verde mescolata al fumo dei bombardamenti che scandivano le ore della giornata.
Altri quartieri come Bustan al-Bashar, di fronte a quello curdo di Sheik Massoud, erano popolati soprattutto da miliziani. A Saif al-Dawl si combatte una battaglia durissima. Oggi come allora. Eppure alcuni abitanti nascosti nelle loro case sventrate hanno deciso di restare.
In una città in guerra si vedono molte cose. Ma alcune immagini non si cancelleranno mai dalla memoria. Come il corpo di giovani studenti di veterinaria, o perfino insegnanti elementari, che si dedicava ad estrarre le schegge e suturare le ferite meno gravi. E gli adolescenti incaricati di lavare le lettighe cosparse di sangue con delle pompe da giardino, per poi rimetterle al loro posto in attesa di altri da soccorrere. Nei momenti più intensi i feriti minori venivano operati sul marciapiede: accanto ai cadaveri dei combattenti o dei civili ricoperti da un lenzuolo in attesa di essere trasportati verso l’obitorio.
In questa clinica dove ogni giorno morivano almeno 20 persone, ma che riusciva a salvarne 60, il dott. Usman al-Aji Usman lavorava 22 ore al giorno. Una settimana dopo la clinica fu colpita. Era ormai l’ottavo tentativo. Quella volta andò a buon segno. Oggi è come allora. Anzi peggio. Perché gli ospedali continuano ad essere bombardati. In luglio l’Organizzazione mondiale della sanità ha calcolato almeno 10 attacchi contro cliniche. Nella parte orientale della città, quella controllata dai ribelli e dove i civili vivono nelle condizioni più critiche, 8 ospedali su 10, e 13 cliniche di urgenza su 28 non sono più in funzione. Mancano perfino le bare per sepellire i nostri morti, ha raccontato al New York Times Osama Abo el Ezz uno dei pochi chirurghi di una città dove vivono ancora 300mila bambini e non esiste nemmeno più una clinica pediatrica. La distruzione dell’ospedale al-Quds, in maggio, indignò il mondo. In questo ospedale che curava 2mila pazienti ogni giorno morirono sotto le macerie anche diversi medici, tra cui Mohammed Ahmad e Muhammad Qassim Mo’az. Nelle ultime settimane la situazione è precipitata. La morsa dell’Assedio sta strozzando la città.
Fino a inizio anno la situazione sembrava incancrenita. Poi è arrivata la svolta. In favore del presidente siriano Bashar al-Assad. In settembre la Russia decide di intervenire nella guerra civile. Ufficialmente per condurre la guerra contro l’Isis. Ma basta poco per comprendere il vero obiettivo del Cremlino; impedire la caduta del regime, suo unico alleato in Medio Oriente. Ecco perché con tale frequenza, i caccia russi colpiscono ribelli che sono perfino nemici dell’Isis. Ecco perché, sganciano potenti bombe su Aleppo e dintorni. Perché chi vincerà ad Aleppo metterà una serie ipoteca sulle sorti di un conflitto che ha già provocato 270mila vittime. Assistite dai raid russi, il 17 di luglio le forze del regime hanno preso il controllo della strada del castello, unica via di rifornimento dei ribelli e collegamento con la regione di Idlib. L’assedio è completo. Nel fine settimana i ribelli hanno sferrato una controffensiva, a colpi di kamikaze. L’autoproclamatosi “Esercito della conquista” ha rotto l’assedio creando un corridoio nel distretto di Ramusa. La loro spina dorsale è composta dai jihadisti di Jabath al-Nusra, di ideologia qaedista. E questa la dice lunga su chi comanda ad Aleppo. Damasco ha reagito con durissimi bombardamenti.
La battaglia si preannuncia lunga. Nessuno vuole perdere Aleppo.