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 2016  agosto 12 Venerdì calendario

LE FRAGILITÀ DELLO STACANOVISTA


Wayne Edward Oates, psicologo ed educatore religioso americano vissuto il secolo scorso, si accorse del suo rapporto squilibrato con il lavoro quando chiese al figlio di prendere un appuntamento nel suo studio per trovare il tempo di parlargli. Nel libro autobiografico Confessions of a Workaholic coniò per la prima volta, nel 1971, il termine che oggi indica il bisogno incontrollabile di lavorare incessantemente. Considerata una vera e propria dipendenza, al pari dello shopping compulsivo o del gioco d’azzardo patologico, il workaholism, secondo l’analogia fonetica con alcoholism, rientra da allora nel campo d’interesse della psicologia e della psichiatria anche per le sue possibili relazioni con disturbi mentali di varia natura, che secondo una recente ricerca dell’università norvegese di Bergen sarebbero stringenti.
Grazie a un’indagine su più di 16 mila lavoratori, un gruppo di psicologi guidati dalla ricercatrice Cecilie Schou Andreassen, ha concluso che il 32,7% degli “ubriachi da lavoro” soddisfa i criteri per un disturbo da deficit di attenzione/iperattività e il 25,6% quelli di un disturbo ossessivo-compulsivo. Il 33,8% avrebbe poi più chance di andare incontro a disturbi d’ansia e l’8,9% di soffrire maggiormente di depressione rispetto a chi, invece, del lavoro non è affatto dipendente.
Pubblicato sulla rivista ad accesso aperto Plos One, lo studio si inserisce in un’ampia letteratura sul workaholism e si segnala come uno dei pochi lavori attualmente a disposizione esteso su un campione ampio di popolazione lavorativa e pertanto con un alto livello di significatività statistica.
La ricerca norvegese, come molte altre di questo tipo, soffre però di limiti metodologici ed epistemologici. Va ricordato prima di tutto che i dati raccolti sono il risultato di resoconti personali forniti dai soggetti a distanza di tempo, con limiti sia nell’accuratezza o completezza del richiamo alla memoria di esperienze o eventi passati, sia per le distorsioni introdotte dalla propensione a fornire risposte considerate socialmente più accettabili rispetto ad altre. Non bisogna poi pensare che tali lavori permettano di stabilire un nesso causale fra dipendenza del lavoro e l’insorgenza di disturbi mentali, di accertare se sia, in altre parole, il workaholism a causare difficoltà psichiche più o meno severe o se esso sia il riflesso di disordini preesistenti.
«Un problema di queste ricerche», dice a pagina99 Stefano Canali, filosofo delle neuroscienze alla Sissa (Scuola internazionale superiore di studi avanzati) di Trieste, «è legato alla cosiddetta comorbilità, vale a dire alla coesistenza di più patologie diverse nello stesso individuo. È noto da molto tempo, per esempio, che chi vive disturbi del controllo degli impulsi o è affetto da dipendenze, tra cui il workaholism, soffre di altri disturbi mentali. Tipicamente tali soggetti sono depressi o ansiosi. Qual è allora la vera natura della sindrome della dipendenza da lavoro? Questa condizione potrebbe semplicemente rappresentare il modo in cui certi sintomi depressivi o ansiosi si manifestano in talune persone e in certi ambienti di lavoro. Le problematiche legate al workaholism riflettono le note difficoltà di definizione delle malattie mentali: entità patologiche storicamente cangianti e che spesso appaiono nella psichiatria per poi sparire, come per esempio l’isteria. Tutto questo ci consiglia di guardare a questi studi con uno spirito critico».
Una cautela suggerita anche dalle rassegne più aggiornate sullo stato attuale delle ricerche sul tema, come quella curata dalla stessa Cecilie Schou Andreassen per il Journal of Behavioural Addictions nel 2014, in cui si concludeva che il workaholism, come costrutto, manca ancora «di chiarezza concettuale ed empirica».
Una delle definizioni di workaholism più accreditate attualmente è comunque descritta in un articolo pubblicato nel 2008 da Wilmar Schaufeli, professore di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni presso l’Università di Utrecht in Olanda, nel libro The Long Work Hours Culture. Insieme ad altri colleghi, Schaufeli definiva la dipendenza da lavoro come una combinazione di due dimensioni: lavorare eccessivamente e lavorare compulsivamente. Da una parte i workaholics dedicano una quantità di tempo all’attività professionale molto superiore alle necessità organizzative o economiche, dall’altra pensano sempre al lavoro, sono ossessionati da scadenze, appuntamenti, dal timore di essere licenziati, sono sempre connessi e trascurano relazioni affettive e familiari.
Schaufeli e colleghi concludevano che è un impulso interno a muovere gli stacanovisti del lavoro. Una spinta negativa che riguarderebbe 7-8 lavoratori su 100, secondo quanto lasciano pensare i dati disponibili fino a oggi. In più, il disturbo colpisce indipendentemente dal genere e dalla professione svolta ed è alimentato dalla diffusione delle tecnologie digitali e connettive.
Perdita di controllo e presenza di craving (il desiderio irresistibile di assumere una sostanza), unite al fatto che il comportamento dipendente interferisce con la vita privata, sono tratti che rendono poi molto simile il workaholism ad altre forme di dipendenza. Allo stesso tempo essa si differenzia da altri disturbi dello stesso tipo perché non si riferisce all’uso di sostanze o agenti esterni socialmente stigmatizzati.
Lavorare tanto, lavorare sempre è viceversa spesso considerato un comportamento virtuoso. Nel 2013, il Financial Times promosse a pieni voti l’opera del maestro ristrutturatore Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat-Chrysler, riportando dei pareri nei suoi confronti che lo definivano, senza alcuna accezione negativa, come un «workaholic».
Il clima benevolo nei confronti della dipendenza da lavoro non favorisce un possibile intervento terapeutico, perché se da una parte il workaholism rappresenterebbe un tentativo di fuga da responsabilità, relazioni ed emozioni negative, dall’altra molti dipendenti dal lavoro si percepiscono semplicemente come grandi appassionati del proprio mestiere e non bisognosi di aiuto.
Le difficoltà di un adeguato riconoscimento sociale e sanitario nei confronti del workaholism sono ampiamente diffuse a livello internazionale. Tra le eccezioni c’è il Giappone, uno dei pochi paesi al mondo in cui è stato introdotto il concetto di karoshi, vale a dire morte per eccesso di lavoro, che fa coppia con karojisatsu, termine che indica il suicidio per il troppo lavoro. Già a partire dal 1987 il ministero della Salute giapponese produce periodicamente statistiche su decessi improvvisi di lavoratori con una media di 65 o più ore a settimana di lavoro per oltre quattro settimane consecutive (senza giorni di riposo) o una media di 60 ore settimanali per più di 8 settimane consecutive. In Giappone attualmente i casi accertati di karoshi sono circa 9.000, con un aumento costante a partire dagli anni ’90. Più recentemente la nozione e la raccolta di dati sul karoshi sono state esportate a nazioni in forte espansione economica come Cina, Corea e Taiwan. Si tratta di andamenti che rispecchiano l’affermazione di società sempre più prestazionali, con implicazioni profonde, a quanto pare, anche sul rapporto tra stili di vita e meccanismi cerebrali.
«La crescente diffusione del rapporto problematico col lavoro», continua Canali, autore di saggi sul rapporto tra evoluzionismo, funzioni del cervello e dipendenze, «rappresenta un esempio eloquente di come la cultura modelli il comportamento degli individui e quindi il loro cervello anche in senso patologico. Il cervello è un organo altamente plastico e si modifica strutturalmente per abituarsi e fare in modo sempre più efficiente e sempre meno consapevole quello che facciamo più spesso. Determinati ruoli professionali, come quelli dei manager, dei liberi professionisti, dei piccoli imprenditori ed artigiani e certe pressioni sociali ed economiche stanno progressivamente elevando il tempo dedicato al lavoro di molti individui. Per effetto della capacità del cervello di adattarsi alle richieste ambientali e comportamentali, queste persone possono abituarsi a questi livelli di lavoro gradualmente e inconsapevolmente, incorporando nel cervello come automatismi gesti, ritmi, modalità di relazione sino a farli diventare un modo di essere, un’abitudine complessa che in realtà è un legame di dipendenza».
La centralità del contesto ambientale e culturale conferma che, come per altre dipendenze, il workaholism ha un’origine multifattoriale, da individuare nella combinazione di storie familiari, specificità dei luoghi di lavoro, tratti personali. Il giornale online State of Mind, progetto editoriale di Studi Cognitivi Srl, ha prodotto di recente una rassegna delle ricerche più accreditate sulla genesi “complessa” del workaholism.
Tra gli altri, un lavoro pubblicato nel 2014 sull’International Journal of Stress Management e realizzato con il contributo di ricercatrici di psicologia del lavoro dell’Università di Bologna, ha trovato riscontri empirici dell’impatto di un contesto lavorativo “esigente”, o ritenuto tale, e la possibilità di sviluppare il workaholism in dipendenti con specifiche caratteristiche individuali, quali per esempio l’elevata motivazione al successo, al perfezionismo, alla coscienziosità. Come spiega a pagina99 Greta Mazzetti, prima autrice della ricerca, «l’overwork climate, vale a dire la percezione di un ambiente lavorativo che richiede un investimento di tempo ed energie superiore a ciò che è ufficialmente stabilito formalmente e che al contempo non garantisce riconoscimenti extra per questo sforzo straordinario, può nei soggetti con caratteristiche di personalità predisponenti favorire la comparsa di condotte workaholic. I nostri risultati sono significativi se si vogliono progettare luoghi di lavoro meno conformi a fungere da fattore di innesco della dipendenza».