Luigi Spinola, Pagina99 12/8/2016, 12 agosto 2016
L’ULTIMO PROCESSO A UN CRIMINALE NAZISTA
Potrebbe essere l’ultimo processo a un ufficiale nazista coinvolto nella Shoah, quello che lo scorso 17 giugno ha portato alla condanna in primo grado per concorso nello sterminio di 170 mila ebrei di Reinhold Hanning, guardia SS ad Auschwitz dal 1942 al 1944. E forse per l’ultima volta, davanti al tribunale di Detmold, in Renania, si sono trovati l’uno di fronte all’altro vittima e carnefice del genocidio. Ma profondamente mutati da quando, nel 1963, si svolsero a Francoforte i primi processi tedeschi per i crimini commessi nel lager.
Nell’aula di tribunale si ritrovarono allora ventidue imputati e 210 sopravvissuti. Le testimonianze delle vittime hanno un impatto forte in una Germania per la quale Auschwitz è ancora un misconosciuto paesino della Slesia. E sono voci rare da sentire anche altrove: solo due anni prima, al processo Eichmann a Gerusalemme, per la prima volta sono saliti sulla scena come testimoni di ciò che è stato le vittime, fino ad allora avvolte nel silenzio, se non nascoste per la vergogna.
Il processo tedesco però deforma l’identikit del carnefice, come denuncia il pubblico ministero Fritz Bauer. Dei crimini commessi in esecuzione di un ordine sono considerati pienamente responsabili solo i pianificatori. Gli imputati rispondono di omicidio se hanno commesso crimini di loro iniziativa. Vengono quindi condannati singoli mostri, dai quali la maggioranza dei tedeschi può ritrarsi con orrore, senza correre il rischio di riconoscersi. Interpretazione opposta a quella di Hannah Arendt, che a Gerusalemme lesse nel sommo burocrate dello sterminio la banalità del male, non la disumana, rassicurante eccezionalità del mostro. Il processo de facto assolve la nazione tedesca, identificando come responsabili, oltre a singoli sadici, un ristretto gruppo di criminali che ha preso in ostaggio la Germania, senza progenitori e senza eredi. Dal punto di vista giudiziario pesa la decisione di non contemplare il reato di genocidio, ma di considerare ogni morto come vittima di un omicidio comune, andando così in cerca di responsabilità personali che la natura del sistema concentrazionario rende difficile trovare.
Ci vorranno cinquant’anni prima che venga accolta in tribunale la diversa concezione della responsabilità proposta a suo tempo da Bauer: chiunque presta servizio nella fabbrica del genocidio è per questo motivo complice del genocidio. La svolta si compie nel 2011, con la condanna per concorso in omicidio di John Demjanjuk, guardia ucraina nel campo di Sobibor. Colpevole nel 2015 anche il contabile di Auschwitz Oskar Groening. E colpevole è Reinhold Hanning.
Contro di lui testimoniano una dozzina di sopravvissuti. Irene Weiss, che aveva 13 anni quando entrò nel lager è arrivata dagli Stati Uniti, William Glied dal Canada. Nessuno di loro ricorda Reinhold Hanning, il 94enne imputato in sedia a rotelle. Ma raccontano la loro storia e dalla testimonianza di ciò che era Auschwitz discende la responsabilità di Hanning, già combattente nelle Waffen SS, che vi prestò servizio dal 1942 dopo essere stato ferito sul fronte ucraino e ancora ricorda, con vergogna, «l’odore dei corpi bruciati». La condanna è a cinque anni di prigione, ma non vi passerà neanche un giorno, vista l’età e le condizioni di salute.
Di casi simili nel 2016 ne dovevano arrivare tre in tribunale, ma uno degli imputati nel frattempo è morto, e il processo all’ex infermiere Hubert Zafke è stato sospeso perché l’imputato 95enne è ormai incapace di intendere e di volere. Altre indagini sono state aperte da Jens Rommel, a capo dell’autorità incaricata di perseguire i criminali di guerra nazisti. Dice di avere al massimo dieci anni per far parlare le vittime, far sedere sui banchi degli imputati i carnefici, registrare la storia, conservarne la memoria. Ma è una corsa contro il tempo.