Giuliana De Vivo, Pagina99 12/8/2016, 12 agosto 2016
GLI ACROBATI DEL LAVORO CHE LASCIANO IL POSTO IN CERCA DI FELICIT
Nell’era del lavoro liquido i fortunati che ne hanno uno non sono contenti. Il paradosso emerge dall’indagine Future of Work condotta da PricewaterhouseCoopers in 24 Paesi: il 72% dei Millennials sente di essere sceso a compromessi, come un salario più basso e la lontananza dal luogo in cui vorrebbe vivere. E l’infelicità da lavoro non è generazionale: il Gallup Institute, che per il suo State of The Global Workplace ha intervistato 180 milioni di dipendenti di tutte le età, rivela che solo il 13% ama ciò che fa. Il 63% è scarsamente motivato e poco propenso a sforzarsi per raggiungere degli obiettivi. In Italia si sale al 67%. Ma c’è chi sceglie di uscire dalla statistica e cambiare vita.
Per mollare un impiego poco appagante e rivoluzionare tutto bisogna vincere la paura, un po’ come tuffarsi da un’altezza nuova: sta tutto nel primo slancio, dopo ti senti liberato, ripetono durante l’incontro di Escape the City. La filiale italiana di questo network internazionale nato a Londra sei anni fa si riunisce una volta al mese nel quartiere San Lorenzo a Roma. Escape Mondays, così chiamano gli appuntamenti. Scappare «dall’idea di timbrare il cartellino, che mi dava la nausea», dice Elena. Da un lavoro «molto ben pagato ma che mi faceva sentire stretta, soffocata in un cunicolo», ricorda Chiara. Elena Dal Forno e Chiara D’Acunto sono le speaker previste a questo giro. Nella sala più grande di Impact Hub, spazio di co-working e innovazione sociale, una cinquantina di aspiranti fuggiaschi si sistema su sedie dai colori fluo per ascoltare e trarre spunti da loro.
Italiani in fuga dal cartellino
Le due “fuggitive” siedono a turno su un trono di legno massiccio e iniziano a raccontare. Elena è stata giornalista a Treviso, cameriera a Londra, nel ’98 dipendente dell’allora Banca commerciale italiana, un contratto a tempo indeterminato che lascia per tornare a fare la giornalista per il portale Virgilio. «Ma nel 2001, con il crollo delle Torri gemelle, mandarono a casa una serie di persone, cominciando da chi non aveva figli e mutuo, come me. Molti colleghi se ne lagnavano, io pensai: “Che bello, mi danno sette mesi di stipendio, ho finalmente soldi e tempo per viaggiare”». Cuba, centro e sud America. Poi il rientro a Roma. Elena è giovane, ha accumulato esperienza, conosce diverse lingue. Trova presto altro. Ma il problema del cartellino da timbrare è sempre lì che incombe. La vera svolta – «illuminazione», precisa lei – arriva per caso, guardando il documentario antispecista Earthlings. «Sono diventata vegana dalla sera alla mattina. E poi crudista». Frequenta un corso per imparare a cucinare piatti gustosi senza usare forno né pentole, e quattro anni fa fonda Adorawble, azienda che vende cibo vegano preparato con tecniche come essiccazione e marinatura. «È il lavoro più stabile che io abbia mai avuto», riflette, «oggi vivo di questo e dei corsi che tengo, destinati a privati o a chi vuole aprire un ristorante vegano. Perché nel frattempo è scoppiata la moda».
Chiara D’Acunto invece si è laureata in Scienze politiche a Napoli (con tre master alla Luiss di Roma, al collegio d’Europa a Bruges e all’Università di Malta) ed è diventata dirigente pubblica a soli 31 anni. Rispetto a Elena non ha girato come una trottola prima, ma si muove parecchio per il suo lavoro attuale, quello di skipper per Velaviaconme, la sua società. Adesso porta gruppi di turisti in giro per il Mediterraneo sulla sua barca Ondine. Lo choc maggiore, osserva, non è stato quello economico – «non mi pesa aver lasciato un posto sicuro da 80 mila euro all’anno, probabilmente a me tutti quei soldi non servivano» – ma il cambiamento di ruolo «e quindi del modo in cui le persone si rapportano a te: quelle che mi giravano attorno erano abituate a vedermi in tailleur e adesso m’incontrano al porto, vestita sportiva mentre con la spugna in mano lavo la barca». Però della sua scelta è convinta: «Prima avevo un lauto stipendio, un bel fidanzato, una vita sociale molto attiva. Eppure me lo ricordo com’era: stavo sempre curva nelle spalle, come se avessi un peso invisibile da sostenere. Che mi schiacciava. La notte serravo la mascella, di giorno ero sempre accigliata. Si può avere una vita in apparenza fantastica e sentire dentro un senso di solitudine».
Un mondo di insoddisfatti
Non esistono dati ufficiali su quante persone in Italia cambino lavoro per scelta, ma la sindrome di Elena e Chiara, come rivela il Gallup Institute, è condivisa da oltre sei lavoratori su dieci in 142 Paesi del mondo. «È gente che arriva in ufficio, fa il minimo indispensabile e incassa lo stipendio», ha detto Jim Harter, direttore delle ricerche dell’istituto americano alla giornalista e scrittrice Barbara Bradley Hagerty, che sull’Atlantic ha scritto ad aprile un articolo intitolato “Quit your Job” (“Lascia il tuo lavoro”), a proposito del licenziarsi dopo i 40 anni. Poi ci sono i lavoratori “attivamente disimpegnati”, cioè non solo improduttivi e infelici ma persino contagiosi nei confronti dei colleghi, verso i quali «tendono a trasmettere negatività», si legge nel report. In tutto sono il 24%, in Italia il 18%. Il vuoto di senso colpisce indifferentemente i baby boomer (nati tra il 1945 e il 1964), la generazione X (classe ’60-’80) e i millennial.
Ma questi ultimi sono anche più disposti dei loro genitori e nonni a cambiare. Secondo il sito di Escape the City, il 57% dei giovani professionisti programma di farlo nel giro di un anno. A differenza delle generazioni precedenti i nati dagli anni ’80 in poi non considerano le dimissioni uno stigma; anzi, «la realtà è che vogliono solo un lavoro per cui valga la pena, e continueranno a cercarlo finché non lo trovano», si legge in un’altra ricerca del Gallup, What Millennial Want from Work and Life, pubblicata nel marzo scorso. Negli Stati Uniti questi impiegati hit-and-run hanno finito per essere percepiti come un problema dagli uffici del personale, non a caso molte aziende stanno mettendo in campo strategie per fidelizzare i propri dipendenti, come fossero dei clienti.
Vista così è un po’ meno paradossale che, pur nell’era del precariato a vita per molti, chi ha scavallato il problema sopravvivenza a un certo punto rimetta tutto in discussione. Spinto da una domanda di fondo: sono felice? Ha senso, per me, quello che faccio? A porsela con coraggio – eccola, la parola chiave che ritorna spesso durante l’incontro – è una minoranza non irrilevante: gli aderenti a Escape the City sono più di 250 mila in 100 città. Gli iscritti ufficiali al gruppo romano sono 300, «ma i frequentatori informali molti di più», spiega Monica Lasaponara, anche lei escaper dopo 16 anni da capo del marketing in grosse aziende televisive. Che racconta: «Con mail e cellulari dovevamo essere raggiungibili a qualunque ora e in qualunque luogo. A me succedeva. Non mi piaceva più, e per compensare mi sfogavo su altro, tipo lo shopping compulsivo». Il cambiamento arriva con un trauma: «Mio cugino, al quale ero molto legata, mi è praticamente morto tra le braccia. Anche lui aveva dedicato tutta la sua vita al lavoro. È a quel punto che ho deciso: si pensa sempre che ci sia tempo, prima o poi, per fare quello che davvero si vuole. Ma questo tempo è ora, bisogna prenderselo».
La strada da seguire
Alla fine ruota tutto attorno a quello, alla felicità. Lo conferma l’ultimo Better Life Index rilasciato dall’Ocse a maggio, che vede in un lavoro soddisfacente, assieme alla salute, l’ingrediente principale per vivere bene. Dell’incidenza del fattore lavoro sulla felicità complessiva sono convinti anche ad Harvard: nel Center for Healthy and Happiness da poco inaugurato, medici e antropologi si propongono tra le altre cose di comprendere meglio il legame che la gratificazione dietro la scrivania dell’ufficio ha sul benessere psicofisico.
Digitando “cambio vita” su Google vengono fuori portali come mollotutto.com, cambiarevita.eu, smetteredilavorare.it, voglioviverecosi.com. Contengono qualche offerta di lavoro, testimonianze di chi si è trasferito all’estero, decaloghi, consigli su manuali da leggere. Tuffarsi nel cambiamento si può, ma non a occhi chiusi. Lo spiega ancora Monica, che oggi lavora dentro Escape the City, fa il coach per chi si trova sulla punta dello scoglio: «Si comincia con una sessione gratuita per inquadrare la situazione, vedere se ci sono mutuo da pagare, figli a carico, soldi da parte». I due incontri successivi (al costo di 50 euro ciascuno) servono a «scoprire l’idea, capire quali competenze e interessi possono diventare un lavoro che dia benessere in tutti i sensi». Ogni volta Monica dà dei compiti da portare a termine, «per vedere se la persona riesce, se va nella direzione giusta. Ci sono stati anche casi in cui ho detto: “No, non fa per te”».
Perché cambiare lavoro si può, anche con responsabilità e spese da fronteggiare, anche se si è investito molto in studi e gavetta per arrivare dove ci si trova. Purché ci siano pianificazione e impegno. Lo sottolinea anche la velista Chiara: «In qualunque attività ci sono doveri e costrizioni. Io oggi lavoro tanto, ma è un lavoro che mi assomiglia. È una libertà nel lavoro, non dal lavoro». Puoi andare anche in barca all’altro capo del mondo, ma non puoi scappare da te stesso.