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 2016  agosto 12 Venerdì calendario

VIAGGIO NEL CUORE DI GOOGLE


MOUNTAIN VIEW (SANTA CLARA). Il simbolo dell’azienda perfetta è un garage. Lo chiamano così, Google Garage, forse in onore di chi ha creato multinazionali miliardarie partendo da uno scantinato. Oggi questo laboratorio con tavoli lunghi pieni di schermi, una fila di stampanti 3D, grosse lavagne, cavi che pendono dal soffitto per collegare trapani e fresatrici è vuoto. O meglio, c’è solo Phong Tony Le, 30 anni, che sta mettendo a punto un prototipo di mano artificiale per bambini disabili. «Ho lavorato come assistente sociale per la polizia di San Francisco per un paio di anni» racconta «ma l’impossibilità di riuscire a fare qualcosa di importante per gli altri nell’amministrazione pubblica mi aveva portato alla depressione». Oggi invece Tony Le sorride. È uno dei 20 mila impiegati del campus di Mountain View in piena Silicon Valley, sui 64 mila totali di Google. Si occupa di accessibilità, fa in modo che la tecnologia sia alla portata di tutti, anche di chi è disabile. E nel tempo libero, dice, viene nel laboratorio, uno dei cinque del campus, dove sviluppa le sue idee. È fra i primi che incontriamo nel quartier generale del colosso nato nel 1996. Chissà se è nel garage solo per caso o se ci stava aspettando.
Fra giardini e cortili, mense che servono cibi di ogni tipo di livello discreto, sale ricreative in cui si può bere un espresso, palestre e biciclette colorate a disposizione di tutti, il Googleplex conta 35 edifici per 200 mila metri quadrati. Vi regna uno strano silenzio, anche negli open space, in contrasto con i tanti richiami al gioco nei quali di continuo si inciampa. Persone di tutte le etnie, l’età media è di 29 anni, vanno e vengono dai vari palazzi con l’immancabile badge attaccato al collo. Il senso di appartenenza, l’essere un googler, si può quasi toccare. Come quell’ossimoro che è filosofia esistenziale oltre che aziendale: avere la stazza di una multinazionale con un giro di affari da 75 miliardi di dollari l’anno, ma voler conservare a tutti i costi l’agilità di una startup. Dimostrare agli investitori di macinare utili a ogni trimestre ed essere pronti a sperimentare, quindi anche a fallire, cercando sempre nuove strade. «per non perdere l’appuntamento con il futuro» per citare le parole di Larry Page, cofondatore con Sergey Brin. È il sogno dell’azienda perfetta.
«Le “risorse umane” le chiamiamo people operations. Persone, non risorse» esordisce Nancy Lee nella grande sala riunioni occupata da costruzioni giocattolo che qualcuno ha appena usato. Siamo a qualche chilometro dal Googleplex, in un palazzo di vetro che affaccia sul grande nulla di quel sobborgo infinito che si stende lungo la costa a sud di San Francisco. Prezzo al metro quadro fra i più alti al mondo, concentrazione di multinazionali hi-tech che non ha eguali, pochi luoghi di svago. Lee è vicepresidente e da dieci anni si occupa del personale. «Veniamo in questa sala per rilassarci» spiega sorridendo. «Quando lavoravo negli studi legali c’erano gerarchie precise e avevo due assistenti. Qui non ne ho. Ognuno è autosufficiente. Intendiamoci: non porto via la spazzatura a fine giornata, ma la struttura tradizionale semplicemente non esiste. All’inizio mi sembrava un posto in preda al caos. Poi ho iniziato a capire la logica».
Il compito di Lee è proprio la cura della cultura aziendale iniziando dalla gestione del conflitto fra micro gruppi e macro organizzazione. Certo, aiutano i due milioni e mezzo di curricula che arrivano ogni anno (settemila assunzioni nel corso del 2015). «In genere le aziende devono fare i conti con un 20 per cento di talenti e un 80 per cento di persone che per motivi vari non esprimono il massimo e sono semplici ingranaggi» spiega Mariano Corso, ordinario al Politecnico di Milano, dove insegna Organizzazione e risorse umane. «Google non ha questo problema. Sceglie in partenza il meglio del 20 per cento. Usando la propria identità per attirare i talenti». Poi, per trattenerli, ingloba il mondo dentro il campus fra concerti e attività collaterali.
I googler, ci dicono, tengono corsi per gli altri googler se sono esperti in qualcosa e, come è noto, possono spendere il 20 per cento del loro tempo in progetti alternativi. Gmail, il servizio gratuito di posta elettronica, è nato così. Lo ripetono di continuo a Mountain View. È uno dei sette «prodotti» che hanno più di un miliardo di utenti, assieme al motore di ricerca, il browser Chrome, il sistema operativo Android, le mappe, YouTube, e il negozio di app, musica e film Google Play.
«Teniamo alla felicità di chi lavora qui. Cerchiamo di permettere alle persone di crescere, evolvere, arricchirsi» dice Lee. Di sicuro è l’opposto di quello che accade nelle imprese tradizionali, dove a far carriera sono soprattutto coloro che si attengono con il massimo zelo, più o meno intelligente, al volere di capi e manager. Questo a Google non avviene. Semmai il sospetto potrebbe essere che il senso di appartenenza e l’assenza di confine tra lavoro e vita privata sfoci in un’esperienza totalizzante: quella descritta nel Cerchio di Dave Eggers (Mondadori) da cui è stato tratto un film con Tom Hanks e Emma Watson che uscirà entro fine anno.
Ma l’immagine data dal libro, dell’azienda hi-tech che tutto assorbe e tutto sa, di cui i googler restano «prigioneri», è estrema. In realtà è vero il contrario: la permanenza in Google, a fronte di uno stipendio medio che PayScale ha calcolato in circa 110 mila dollari all’anno, è fra uno e tre anni. E tante figure di primo piano, una lunga schiera di vicepresidenti, hanno scelto di andare altrove. Peggio di così, fra i cosiddetti over the top, fa solo Amazon, più volte accusata di applicare metodi draconiani con i suoi dipendenti. Così come pare avvenga alla Tesla di Elon Musk, che sorge poco distante dal Googleplex, non lontano da Apple e Facebook.
I commenti di alcuni ex googler sono duri: dicono che a Mountain View regna la disorganizzazione, i superiori sono mediocri e, se non si è nella giusta divisione, non si ha nessuna possibilità di carriera. Altri ex sono meno critici: la cultura da startup di Google li ha aiutati a creare la propria azienda. Tutti concordano nel dire che la giornata lavorativa è di circa otto ore e che ognuno può organizzare il proprio tempo in maniera flessibile. Anche se poi non vanno nel garage a sperimentare.
Ma al di là della permanenza, lunga o breve che sia, il tentativo di fondo di stabilire un rapporto con il dipendente basato sulla fiducia è reale: si è responsabili di quel che si fa, non si è bambini guardati a vista dal capo. Condizione base se si vuol creare un universo fatto di microimprenditori. Resta poi da capire se il fatto che questi microimprenditori abbandonino così spesso la casa madre sia fisiologico oppure riveli che l’universo Google è meno fantastico di come si presenta.
«In Italia abbiamo un problema diverso: lavoriamo contro noi stessi combattendo la burocrazia interna e le strutture aziendali inefficienti» sostiene Corso. «Il rapporto spaventoso fra numero di ore lavorate e prodotto interno lordo lo dimostra. Con tutte le difficoltà che Google può avere, trovo il suo modello molto più interessante. Parliamo però di una élite di lavoratori che il posto lo può perdere e trovare facilmente. Se si sposasse la filosofia di Google su larga scala, resterebbe la questione di cosa fare di tutti gli altri, il restante 80 per cento giudicato meno smart». Già. Ma niente paura: siamo distanti dallo schema delle mille startup di Google. Non coniamo alcun rischio.
Jaime D’Alessandro