Emanuela Audisio, la Repubblica 11/8/2016, 11 agosto 2016
ADDIO AL SOLDATO DEL NUOTO
Non è più il soldato Phelps in missione per conto del nuoto. Ma un faraone dello sport: 21 ori olimpici (per ora). Non è più il ragazzino brufoloso che nel 2000 a Sydney a 15 anni arrivò quinto, ma un papà che corre a baciare il figlio Boomer, tre mesi, assonnato. Non è più il campione introverso, segnato dall’abbandono del padre Fred (con cui non parlava più), ma un uomo di 31 anni che ora mostra i suoi sentimenti. Fragilità, debolezza, vergogna: le ha provate tutte. Ha ammesso che non ce la faceva, si è fatto curare, è andato in rehab. Si è disintossicato dalla gloria. Ora piange, ride, scherza: dopo i 200 farfalla riconquistati (a Londra non ci era riuscito) fa segno ai suoi avversari di venire a prenderlo. Dai, sfidatemi, sono qui. Avevano quattro anni, quando lui già beveva cloro. E 70 minuti dopo, alla fine della staffetta 4x200 stile, lui ultimo frazionista, in un gara che gli Usa hanno perso solo tre volte negli ultimi 16 anni, che ti fa lo squalo di Baltimora? Si tira fuori dall’acqua, si mette a sedere sul blocco della partenza e sta lì quasi ad annaspare, cerca fiato per i suoi polmoni. Stremato. Dai, vieni via, gli dicono i compagni. Un re non mostra mai affanno per la sua corona e per l’ultimo impero conquistato. Ma lui si passa l’indice sotto la gola, come a dire: sono morto, non ce la faccio, lasciatemi qui, che devo riprendermi. Già alla partenza aveva detto ai suoi: ragazzi, portatemi in vantaggio, che io penso al resto, e il giovane Haas, 19 anni, aveva obbedito, nuotando veloce. La tv inquadra Phelps, lui resta seduto, fa segno che il corpo gli fa male tutto. «Io lascio tutto quello che ho in gara, spero di riprendermi, ho bisogno di riposo». Si vede che il cupping, quella specie di succhiotti in serie che ha sulla schiena e sulle spalle, tecnica per migliorare la circolazione del sangue e usata anche dai giocatori di basket, non fa miracoli. Ma vuoi mandare la Croce Rossa al nuotatore che nella storia olimpica è stato più in acqua di tutti? Ad uno che nei 200 farfalla ha migliorato otto volte il primato mondiale? Gli avversari che se stanno andando però sono tutti un po’ straniti. Se non se ne va Phelps, nemmeno loro. Allora davanti a questo Cristo che in cinque olimpiadi ha consumato con successo il suo calvario capita una scena strana: la processione. Sì, si mettono in fila: giapponesi, sempre molto timidi, inglesi e australiani. Come se andassero a cercare la benedizione del patriarca. Si inchinano, danno la mano, gli fanno coraggio. Come se fosse l’addio ad un imperatore che ha cambiato una civiltà e che ora emigrerà per fare altro. Masato Sakai, con l’aiuto dell’interprete, gli farfuglia: «Avevo 5 anni quando ti ho visto vincere». Ognuno gli confessa qualcosa, lo tocca, si presenta. Lui resta seduto, riceve come in ufficio, e ricambia le pacche. Non è mai stato così commosso Phelps, così terribilmente vicino alla sincerità. Come se solo ora l’avventura attraversata sciogliesse il suo permafrost e si sbrinasse. E se l’uomo è ciò che mangia lui era questo a colazione: tre panini con uova strapazzate, formaggio, insalata, pomodori, cipolle fritte e maionese, una frittata di cinque uova, una ciotola di semolino, tre tortine al cioccolato, tre fette di pane tostato e due tazze di caffè. Tralasciamo pranzo e cena (con otto fette di pizza dopo mezzo chilo di pasta al pomodoro). Ma non mangia più così, ha ridotto calorie e consumi. E la sua resurrezione non è più in una corsia, ma nell’aver trovato un posto nel mondo che a volte è più ostico del podio. Diceva: «Mangiare, dormire, nuotare, è tutto quello che so fare». Ora è capace di spiegarsi meglio. «A Sydney volevo esserci, ad Atene volevo vincere, a Pechino fare quello che nessuno aveva mai fatto, a Londra entrare nella storia, a Rio fare in modo che il mio paese e la mia famiglia fossero fieri di me». Missione riuscita.