VARIE 11/8/2016, 11 agosto 2016
APPUNTI PER GAZZETTA - NOI, LA LIBIA E IL TERRORISMO
REPUBBLICA.IT
ROMA - Il consiglio dei ministri ha nominato l’ambasciatore italiano in Libia. È Giuseppe Perrone, che aprirà ufficialmente l’ambasciata a Tripoli. È, questa, fanno sapere fonti di Palazzo Chigi, la risposta ’politica’ del Governo alla richiesta di ’aiuto umanitario’ che il premier libico al Sarraj ha rivolto all’Italia. L’Esecutivo ha risposto con la nomina di Perrone, dando così il senso della strategia italiana in Libia in questo momento in cui al Sarraj, sostenuto dall’Onu, non ha ancora avuto il voto del parlamento di Tobruk. Sostituisce l’ambasciatore-inviato speciale in Libia Giorgio Starace che andrà a Tokio.
La notizia arriva mentre si conferma la presenza di alcune decine di uomini delle forze speciali italiane in Libia, con compiti di addestramento per l’esercito libico fedele al governo Serraj. La missione, pubblicata da Repubblica, era stata annunciata dal governo al Copasir la settimana scorsa. Nel documento, anticipato da Huffington Post, vengono illustrate le regole d’ingaggio dei corpi speciali, che svolgono operazioni autorizzate dalla normativa approvata lo scorso novembre dal Parlamento, che consente al presidene del Consiglio di autorizzare missioni all’estero di militari dei nostri corpi d’elite sotto la catena di comando dei servizi segreti.
L’Italia dunque non è in guerra, ma sono in corso operazioni autorizzate dal governo che riguardano non solo l’addestramento delle forze libiche nello sminamento (le mine hanno mietuto già decine di vittime tra i soldati dell’esercito regolare), ma anche un addestramento difensivo rispetto alle operazioni militari in cui le forze fedeli a Serraj sono coinvolte, in primo luogo nella zona di Sirte. Oltre alle forze speciali americane, britanniche e francesi, dunque, sul campo ci sono anche quelle italiane.
In mattinata fonti di governo avevano spiegato che, attualmente, la presenza italiana è stata solo richiesta dal premier Serraj e che l’esecutivo "sta valutando" se inviare forze con ruoli di addestramento. La linea ufficiale del governo dunque è ribadire come finora l’Italia abbia inviato solo "aiuti umanitari" e "soccorsi sanitari", accogliendo alcuni soldati libici feriti nell’ospedale miliotare del Celio a Roma. "Per qualsiasi nuova iniziativa, il governo coinvolgerà il Parlamento", spiegano fonti governative. Ma l’azione dei corpi speciali, fuori dalla catena di comando della coalizione internazionale, secondo le nuove norme approvate a fine 2015 può essere autorizzata direttamente dal governo.
M5s: "Governo ha nascosto la verità". La reazione del Movimento 5 stelle è affidata ai parlamentari delle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato: "Oggi gli italiani scoprono che il proprio Paese è militarmente impegnato in Libia con forze speciali impiegate per lo sminamento e addestramento delle forze filo governative libiche. È gravissimo che lo apprendano dalla stampa e non dal governo, che sino ad oggi ha nascosto la verità al Parlamento e al Paese senza mai degnarsi di metterci la faccia e dire le cose come stavano". I 5 Stelle contestano il riferimento all’articolo 7bis inserito nel decreto missioni "per permettere l’uso di militari su un
fronte di guerra senza l’autorizzazione del Parlamento" perché, dicono, "quell’articolo parla chiaramente dell’invio di uomini a supporto di operazioni di intelligence, che niente hanno a che vedere con quello che le nostre forze speciali stanno facendo in Libia".
REPUBBLICA.IT
Come responsabile del Comando operativo interforze, Marco Bertolini è stato fino a poche settimane fa il comandante di tutte le operazioni delle Forze Armate.
Generale, allora l’Italia avrà compiti di addestramento delle truppe libiche?
"Per ovvie ragioni posso solo parlarne in termini generali. L’Italia con il tempo si è ricavata questo ruolo, perché l’addestramento è un’attività più digeribile per l’opinione pubblica. In Afghanistan si faceva il mentoring, molto più importante. E’ l’affiancamento delle unità per sostenerle nella pianificazione e condotta delle operazioni. Ma sulla Libia non posso aggiungere nulla".
La Storia insegna che gli istruttori spesso sono la prima tappa di un impegno più diretto. Che ne dice?
"Per l’immaginario collettivo addestramento vuol dire far fare "attenti" e "riposo", far sparare nei poligoni, ma il mentoring è molto più importante dal punto di vista tattico. Non so se si sia deciso di fare questo in Libia. Ma come attività ha una sua evoluzione: non si può "mentorizzare" un’unità e poi abbandonarla. Non necessariamente sarà attività sul campo, ma anche pianificazione. L’Afghanistan ce l’ha insegnato: bisogna andare con loro, vedere come si muovono, fornirgli le capacità che non hanno".
Allora è corretto o no dedurre che la decisione di schierare istruttori non significa per forza un prossimo invio di truppe di terra?
"No, non lo implica automaticamente. In Libia, è chiaro che l’addestramento è in funzione delle operazioni. L’addestramento è un’attività costante, che va fatto a prescindere dalle operazioni. Invece il mentoring va fatto sulla base dei programmi, si pianifica in vista di un’operazione precisa".
Ma la decisione di fare addestramento sarà sufficiente?
"L’impegno militare deve conseguire da una linea politica chiara. E in Libia ci sono crisi a diversi livelli, che si fronteggiano con mezzi diversi. Una strategia limitata al bombardamento di Sirte non sarebbe sufficiente. Ci sono difficoltà con Bengasi, con Haftar, ci sono problemi con Tobruk, che devono essere risolti dalla diplomazia. Poi c’è il flusso dei profughi in arrivo dal Ciad, dal Sudan, dal Niger. Come si può fermarlo? Certo non con i bombardamenti. Servono campi di accoglienza, operazioni di convincimento, servizi sanitari. Lo schieramento militare non basta".
Un maggiore impegno italiano sul terreno che cosa potrebbe prevedere?
"Nel caso di operazioni sul territorio libico, se ci fosse una richiesta del governo, dovrebbero intervenire unità di manovra, reggimenti di fanteria che controllino il territorio, forze speciali per interventi rapidi. L’Italia non se la può cavare con le Forze speciali. Avremmo bisogno anche di organizzare un sostegno militare a Organizzazioni non governative per
la gestione dei profughi. Servirebbe il controllo dello spazio aereo, sia come trasporto che come possibilità di intervento. Insomma, dovremmo trasformare la nostra vulnerabilità, cioè la vicinanza, in un punto di forza, con la possibilità di intervento immediato".
Renzi ai militari all’estero: ’’Difficoltà inedite, c’è bisogno di Italia’’
’’Grazie per la professionalità e per l’umanità del vostro straordinario impegno. Il mondo di oggi ha bisogno di voi, ha bisogno di noi, dell’Italia. Viva l’Italia, viva le forza armate". Lo ha scritto il premier Matteo Renzi in un messaggio ai militari italiani impegnati all’estero, al termine di una videoconferenza con i teatri operativi dal Comitato operativo interforze di Centocelle, a Roma. "Siamo davvero molto orgogliosi’’, ha detto il premier nel collegamento, ’’di chi come voi serve la patria in momenti di difficoltà, difficoltà inedite rispetto al passato ma non per questo meno pericolose"
VINCENZO NIGRO PER REP
SIRTE - Dalla nebbia del mattino, sulla strada che arriva da Misurata, emergono due fuoristrada fantasma color sabbia. "Ecco, sono gli inglesi che ritornano, loro non dormono a Sirte, la notte rientrano a Misurata e poi il giorno dopo si ripresentano qui al fronte", dice un autista libico. Eravamo in marcia verso Wadi Jaref, dove dicono fosse nato Gheddafi e dove ci sono ancora membri della sua tribù.
Incrociamo le auto due volte, mentre si spostano verso una operation room. Sono le famose "truppe speciali", un aiuto forte, importante, per i soldati del governo di Tripoli. Anche se è chiaro che proprio qui a Sirte, nella città che fu la culla e poi la tomba di Muhammar Gheddafi, il governo Serraj non si gioca soltanto l’eventuale vittoria sull’Is ma costruisce con le armi il futuro della propria legittimità. Conquista con i soldati il diritto di governare a Tripoli: devono essere i suoi soldati, non truppe straniere a combattere, morire e vincere.
Nel caos, nel fumo nero di questa terza guerra di Libia, nessuno è in grado di confermare in carta bollata notizie come quelle sulla presenza di truppe speciali americane, inglesi o italiane. Gli americani ci sono di sicuro, lo suggerisce un ragionamento semplice: gli Stati Uniti hanno necessariamente bisogno di gente a terra che sappia dove e come guidare gli attacchi aerei, per non rischiare di colpire i soldati di Tripoli e Misurata. Gli inglesi invece hanno un ruolo davvero molto più pesante, decisivo. Di fatto guidano la guerra insieme ai comandanti libici. E qui, oltre al ragionamento e all’incontro casuale, abbiamo la nostra testimonianza diretta: l’altra notte, mentre ci preparavamo a dormire in un distributore di benzina trasformato in centro comando, all’improvviso i capi hanno iniziato a urlare ordini. "Il responsabile dell’intelligence inglese ci ha detto che lo Stato islamico sa che questo è un centro-comando, potrebbero provare a fare un assalto stanotte, dobbiamo spegnere tutto e prepararci all’assalto. Tu, giornalista italiano e il tuo accompagnatore andate via".
L’assalto nella notte poi non c’è stato, ma le operazioni continuano furiose anche oggi. E i libici dicono di seguire con grande scrupolo i suggerimenti delle forze speciali britanniche, che avrebbero un ruolo concreto nei combattimenti più delicati. Ma arriviamo agli italiani. Soldati delle truppe speciali italiane sono sicuramente a Tripoli e a Misurata, e sono passati anche da Sirte. "A voi italiani neppure abbiamo chiesto di combattere, tanto sapevamo che avreste impiegato settimane e mesi per non risponderci nulla", ci ha detto quasi sprezzante la settimana scorsa un politico libico di alto livello. Sono state chieste tre cose: schierare una nave ospedale, ma anche su questo l’Italia da due mesi non ha dato risposta. Schierare allora un ospedale da campo oppure traferire dei chirurghi in sicurezza all’ospedale di Misurata. E ancora niente. Oppure addestrare gli sminatori. La collaborazione sullo sminamento ci viene confermata in persona dal capo dell’unità di sminatori di Tripoli schierata a Sirte.
Lungo la grande strada che porta al fronte sono schierati i servizi logistici dell’offensiva. Le salmerie. Le ambulanze con gli infermieri a bordo, una cisterna che rifornisce di benzina le auto direttamente dal rimorchio. Un punto mobile di gommista, con generatore elettrico e compressore per riparare le ruote di "tecniche" e blindati.
E poi gli sminatori, di cui incontriamo il comandante. Chiedono di non essere fotografati e di non scrivere il nome, perché sanno che l’Is ha cellule dormienti pronte a colpire in ogni città della Libia. "Con bombe e mine qui a Sirte è stato un inferno: ecco perché abbiamo chiesto ai nostri capi l’aiuto degli italiani. Sappiamo che hanno portato del materiale, abbiamo bisogno di altro addestramento, e di farlo anche da voi".
Si avvicina uno sminatore, ci mostra sullo smartphone tutti i nuovi tipi di bombe-trappola che i terroristi hanno inventato. Proiettili di mortaio innescati con un detonatore che scatta tirando un filo di lenza: i soldati non lo vedono, inciampano e la bomba fa morti e amputati nel giro di 100 metri. Televisori-esplosivi, estintori-trappola, porte-bomba. Le apri e salti in aria. L’ordigno più pericoloso è una specie di cassetta di metallo piena di esplosivo, chiodi, frammenti di ferro, collegata a un detonatore con dei fili elettrici ma anche con una normale siringa medica, svuotata e riempita con liquido e una sfera di metallo. Non abbiamo capito come funziona, ma se si tagliano i fili la siringa si attiva comunque e la bomba esplode. I soldati o gli artificieri saltano per aria.
Adesso cosa deciderà di fare l’Italia con le sue truppe speciali in Libia ormai è quasi affare di politica domestica. E diventa sempre meno importante per i libici, visto che il Daesh nei fatti lo stanno sconfiggendo da soli, con la loro fanteria e l’appoggio degli americani dall’aria e degli inglesi nell’ intelligence . Chi ha aiutato, verrà aiutato, dicono in Libia e non solo.
Ieri per tutta la giornata gli assalti si sono ripetuti, le truppe vanno avanti casella dopo casella, come in un gigantesco domino mortale. La notte in cui ci hanno trasferito l’esercito ha preparato l’attacco all’università, che è stata ripulita ieri. Poi sono passati all’ospedale di Ibn Sina e al quartiere di Al Giza. Rimane il centro congressi Ouagadougou, per mesi il centro-comando dell’Is, il massiccio palazzone in calcestruzzo costruito da una ditta italiana per il congresso della Unità Africana che Gheddafi volle celebrare nel 1999, qui nella sua città natale. E ieri, prima di sera, è arrivato l’annuncio del comando militare di Misurata: "Abbiamo conquistato il quartier generale dell’Is a Sirte. La vittoria è vicina".
E potremmo esserci vicini. Ieri le tv libiche hanno rilanciato quella che sembra una ammissione di sconfitta dei jihadisti: un terrorista dice di parlare a nome del "Vilayat Tarabuls", la provincia di Tripoli, perché Sirte farebbe parte di questa provincia
del califfato, "Quello che è successo a Sirte è un arretramento, non una sconfitta: torneremo dopo che le forze del male in tutto il mondo si sono coalizzate per combatterci". Il Daesh a Sirte ancora non è stato ancora sconfitto, e già prepara vendetta.
REPUBBLICA.IT
ROMA - Innalzata l’allerta terrorismo nei porti italiani destinati al traffico crocieristico e passeggeri. E’ l’effetto della nota con la quale il comandante generale della Guardia costiera, ammiraglio Vincenzo Melone, ha trasmesso a tutte le Capitanerie di porto l’ordine di elevare a 2 (su una scala di 3) il "livello di security". La disposizione si traduce immediatamente in un’ulteriore intensificazione dei controlli che già oggi vengono effettuati su persone e veicoli in fase di imbarco, secondo modalità che saranno definite in base ai piani di sicurezza già previsti nelle diverse realtà portuali. Le nuove disposizioni prevedono maggiori controlli ai varchi portuali, una percentuale più alta di veicoli e passeggeri controllati, un monitoraggio più accurato di tutte le aree degli scali. Ogni porto dovrà ora adeguare i propri piani di sicurezza, già adottati da tempo e diversi per ogni scalo, alle nuove disposizioni.
Ancona usa una app per avvisare i passeggeri. Tra i primi a rispondere all’aumento di allerta, il porto di Ancora. Oltre al raddoppio delle guardie ai varchi di accesso all’imbarco per il controllo dei passeggeri e dei mezzi in partenza, lìAutorità portuale utilizzerà la app Welcome to Ancona come canale di informazione ai passeggeri con messaggistica dedicata per avvisare dell’aumentato livello di controllo.
L’allarme dei servizi. L’intelligence nelle settimane scorse aveva avvisato che in agosto sarebbe aumentato il rischio di attentati in Italia. E puntuale è scattato, ai primi del mese, il piano Sicurezza del Viminale che già dai tempi di Charlie Hebdo aveva elevato l’emergenza al secondo livello, quello immediatamente precedente un attacco in corso. I punti principali disposti dal ministero dell’Interno - annunciati alcuni giorni fa da Repubblica - prevedevano il rafforzamento delle misure di controllo sui traghetti, nei porti e nelle aree degli aeroporti, affollatissime in agosto di turisti di tutto il mondo. Dando seguito a queste indicazioni del "piano" del ministero dell’Interno, la Guardia Costiera ha deciso di alzare il livello di security.
L’aumento del rischio. In molti sostengono che la possibilità che il nostro Paese sia preso di mira dall’Is potrebbe crescere ora come possibile ritorsione alla decisione del Governo di mettere a disposizione le basi militari italiane agli americani impegnati nei raid aerei anti Daesh in Libia, nella provincia di Sirte. E all’invio annunciato nei giorni scorsi al Copasir di una cinquantina di militari delle forze speciali dell’esercito (ingaggiati con le regole degli 007), e degli addestratori allo sminamento richiesti dal premier al Sarraj.
I soft target. A preoccupare i servizi segreti non sono tanto i cosidetti “obiettivi sensibili” già noti, ma quelli che vengono chiamati soft target. E d’altronde risulta impossibile presidiare tutti gli eventi culturali, i punti di ritrovo, le chiese, le sinagoghe, porti e aeroporti periferici. Impossibile impedire, osservano ancora gli 007, l’effetto emulazione da parte di persone fragili di mente suggestionate dalle notizie degli attentati jihadisti rilanciate in modo martellante sui media e attraverso i social network.
La sicurezza aeroportuale. Negli aeroporti sono state potenziate le difese tecnologiche, con l’installazione di telecamere agli infrarossi per proteggere le recinzioni. E il potenziamento del sistema di videsorveglianza: a Fiumicino sono in funzione 2.100 telecamere, a Malpensa 2.400. È stato potenziato
l’utilizzo dei varchi automatici ( e-gates), degli speciali microscopi per individuare passaporti falsi. Le unità di pronto intervento antiterrorismo aeroportuali, infine, hanno ricevuto in dotazione nuovi armamenti come la Ump Heckler Koch, una pistola mitragliatrice universale.
CORRIERE.IT
Venerdì scorso il governo ha trasmesso una nota di poche righe al Copasir, il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. Per la prima volta da quando è autorizzata a farlo, ovvero da febbraio scorso, la Presidenza del Consiglio ha messo nero su bianco la presenza, più volte ufficiosamente trapelata negli ultimi mesi, di piccoli nuclei di reparti militari speciali su territorio libico. Si tratterebbe del primo dispiegamento di soldati italiani rispetto al contingente di 600-900 unità previsto dal piano messo a punto dal nostro governo e anticipato dal Corriere lo scorso aprile.
Missioni dirette dai Servizi
Secondo un decreto del presidente del Consiglio approvato a febbraio, e secretato, il governo può inviare corpi speciali all’estero, con le garanzie funzionali della nostra intelligence, secondo la linea di comando dei servizi, a supporto degli stessi, e dunque con la completa regia di Palazzo Chigi. Questo per ragioni di sicurezza nazionale.
In questo caso i militari non dipendono dalla Difesa né dalla coalizione internazionale che sostiene il governo libico, ma rispondono direttamente alla catena di comando degli 007 e godono, per tutta la durata dell’operazione, delle stesse garanzie.
La nota
Secondo la legge il governo stesso è obbligato a comunicare al Copasir alcuni dettagli di queste missioni «entro 30 giorni» dalla conclusione delle operazioni.
A questo proposito la nota inviata viene definita «ambigua» da alcuni dei membri del Copasir, non chiarirebbe se i nostri reparti speciali abbiano concluso o meno un’operazione, né da quanto tempo si trovino in Libia.
La nota, anticipata ieri dall’Huffington post, sottolinea un dettaglio: le nostre forze speciali (si tratterebbe di alcune decine di militari) svolgono o hanno svolto azioni di carattere logistico, di addestramento, di supporto delle operazioni di nostri alleati o delle milizie anti-Isis. Insomma si specificherebbe il carattere no-combat della presenza. Che potrebbe anche andare indietro nel tempo di alcuni mesi.
Le richieste di Tripoli
Il governo libico ha chiesto nelle ultime ore al nostro governo l’allestimento di un ospedale militare a ridosso di Sirte. Lo Stato maggiore della nostra Difesa ci sta già lavorando, nel breve periodo i primi moduli della struttura dovrebbero essere pronti ad operare. In questo momento forniamo all’esercito libico materiale di protezione, come giubbotti anti-proiettili e visori notturni, grandi quantità di kit medici di emergenza, mentre è ancora in fase di discussione un’operazione di ampio respiro di addestramento delle forze libiche: il modello sarebbe quello iracheno, potrebbe riguardare anche la Guardia presidenziale di Tripoli e la polizia locale, i primi addestratori verrebbero formati in Italia.
Polemiche
Ieri i Cinque Stelle hanno duramente criticato il governo. «Oggi gli italiani scoprono che il proprio Paese è militarmente impegnato in Libia con forze speciali. È gravissimo». Di segno opposto il pensiero dell’ex presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini: «I libici combattono il Daesh anche in nome e per conto nostro. Bisogna evitare polemiche inutili».
LORENZO CREMONESI
Finisce il tempo di utilizzare i condizionali. Da ieri pomeriggio è chiaramente cominciata la battaglia finale per Sirte. Per la principale roccaforte libica di Isis inizia il conto alla rovescia verso la disfatta militare. Il collasso del Califfato nelle ex province di Muammar Gheddafi appare imminente. Le milizie di Misurata e Tripoli sono scattate all’attacco sin dall’altra sera grazie alla crescente copertura aerea americana. Dai due o tre scarni raid quotidiani dei primi di agosto si è passati alla ventina delle ultime ore. «Siamo riusciti a liberare Ouagadougou, abbiamo preso l’ospedale Ibn Sina, il palazzo della Compagnia Indiana e la zona universitaria. L’offensiva continua. Ma le perdite sono tante. Almeno una ventina di morti e oltre 30 feriti in una sola giornata», ci hanno detto ieri sera per telefono i comandanti della «Mujahed», una delle milizie più importanti di Misurata.
Dopo i raid Usa
Per capire la rilevanza della notizia occorre sottolineare cosa rappresenti Ouagadougou. Si tratta di una serie di giganteschi palazzoni posti nelle periferie meridionali della città. Gheddafi li aveva voluti negli anni Novanta a simbolo del suo rapporto privilegiato con i Paesi africani. Le sue truppe lo avevano utilizzato come base militare contro le formazioni ribelli durante le ultime battaglie nell’ottobre del 2011. Qui si era arroccato Isis sin dalla presa di Sirte oltre un anno fa. Nei suoi sotterranei si trovano depositi di cibo e munizioni, i suoi muri spesso di cemento armato rappresentano ottime difese contro le bombe. «Preso Ouagadougou, presa Sirte», dichiaravano in giugno i responsabili dell’assedio dopo aver sconfitto Isis nel deserto verso Misurata. Non a caso le formazioni delle milizie migliori si erano posizionate tutto attorno, tenendolo di mira con le loro mitragliatrici pesanti piazzate sui pick up. Tre giorni fa eravamo con loro sulle prime linee, a circa 1.000 metri dai muri bianchi del compound. «Ci vorrà tempo. Isis ha minato tutto attorno. I sui cecchini ci prendono di mira da posizioni super-protette», spiegavano. Tuttavia i raid Usa hanno rovesciato la situazione. Le bombe intelligenti hanno fatto saltare i campi minati, sconvolto i nidi dei cecchini, distrutto gli ultimi tank, i mortai, reso difficilissimo ai jihadisti il movimento lungo i sette chilometri di trincee e bunker ancora nelle loro mani, dalla zona costiera ai campi verso il deserto.
Guerriglia strada per strada
Difficile però dire con precisione quando Isis sarà definitivamente sconfitto. Quella per Sirte è una classica guerriglia urbana. Ci si batte strada per strada, casa per casa, addirittura stanza per stanza. Isis si ritira minando tutto attorno. Le forze assedianti dai primi di maggio hanno avuto già quasi 400 morti (compresi quelli delle ultime ore) e circa 2.100 feriti. Gli aiuti alleati sono importantissimi, ma ad avanzare fisicamente sul campo sono i libici. Le milizie di Misurata ci hanno mostrato il luogo ove sono situati gli uomini dell’intelligence americana e inglese incaricati di passare le informazioni fornite dai droni. «A combattere con le truppe di terra però siamo solo noi», ci dicono. Nessuno negli ultimi due mesi ha mai neppure accennato alla possibile presenza di truppe italiane nelle aree di combattimento in Libia. Secondo i servizi d’informazione libica inoltre «centinaia, se non migliaia, di jihadisti di Isis nelle ultime settimane hanno avuto modo di scappare verso il deserto». Ciò significa che a Sirte potrebbero rimanerne solo un numero limitato. Quanti? «Forse trecento e quattrocento», dicono a Tripoli. Il pericolo è che molti di loro siano fuggiti verso il Sudan, altri potrebbero essere alla macchia nel deserto di dune presso l’oasi di Sabha. È una battaglia dove non si fanno prigionieri. In genere gli assediati, quando presi in trappola, si fanno saltare in aria e uccidono i loro prigionieri. Anche le milizie in avanzata eliminano i nemici caduti nelle loro mani. Nel cuore della città resta inoltre ancora una piccola presenza di popolazione civile, valutata a circa 5.000 persone. Tra loro, moltissimi seguaci del vecchio regime.
LASTAMPA
Le forze libiche sostenute dagli Stati Uniti «hanno liberato il 70%» di Sirte dalle mani dell’Isis. La conferma arriva dal sindaco della città, Mokhtar Khalifa. Il primo cittadino sostiene che i quartieri meridionali e occidentali della città libica, considerata la roccaforte dell’Isis in Nord Africa, sono sotto il controllo dei combattenti fedeli al governo sostenuto dalle Nazioni Unite.
Istruttori e missioni d’intelligence, la prima guerra segreta di Renzi (Schianchi)
Bruciate bandiere nere Isis su palazzi Sirte
Una fonte locale riferisce al sito Alwasat che sono state «date alle fiamme» le bandiere nere dell’Isis issate sui palazzi e sulle scuole di Sirte conquistati nelle scorse ore dalle milizie libiche fedeli al governo Sarraj. La stessa fonte ha aggiunto che i vessilli del Califfato si trovavano sui «tetti dell’ospedale Ibn Sina e del centro Ouagadougou», quartier generale dell’Isis. «Al loro posto sono state issate le bandiere dell’indipendenza». È uno degli aspetti più simbolici della battaglia che è in corso nella città libica.
“Da maggio uccisi 360 miliziani a Sirte”
Dal lancio dell’operazione militare per la liberazione di Sirte le milizie di Al-Binyan Al-Marsous hanno «perso 360 combattenti», mentre i feriti sono migliaia. Tra ieri ed oggi hanno perso la vita negli scontri con l’Isis «17 miliziani», mentre i «feriti sono 82». A renderlo noto una fonte dell’ospedale di Misurata, dopo la morte oggi di un comandante della Brigata 154 di fanteria, che ieri era rimasto ferito.