Francesco Daveri, lavoce.info 5/8/2016, 5 agosto 2016
QUESTO BAIL-IN NON S’HA DA FARE
Non ho una proposta risolutiva ai problemi delle banche italiane. Ma faccio un riassunto di mezza estate dei problemi aperti e dei vincoli alla loro soluzione.
Le puntate precedenti
Con la pubblicazione degli stress test sui valori di borsa delle banche italiane è arrivato il diluvio. Su Mps, su Unicredit (alle prese con necessità di ricapitalizzazione ancora da precisare) ma anche su Intesa San Paolo che dagli stress test è uscita bene. La tempesta non è solo italiana: Commerzbank e Deutsche Bank hanno perso più o meno quanto le banche italiane. Ma tutti guardano agli istituti italiani.
Cosa ha fatto il governo negli ultimi mesi? Sullo sfondo della riforma delle grandi e piccole banche popolari e di altri mutamenti legislativi in corso d’anno, ha scelto un approccio caso per caso. Ha evitato il fallimento delle quattro piccole banche del centro Italia coinvolgendo i creditori subordinati. Ha promosso la creazione del fondo Atlante per garantire la ricapitalizzazione di Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Ha assistito alla presentazione del piano presentato da Mps che porterà alla cessione di 27 miliardi di crediti deteriorati al fondo Atlante e alla ricapitalizzazione della banca per 5 miliardi di euro. Tutte soluzioni definite “di mercato”. Atlante è stato costituito con il contributo del resto del sistema bancario italiano e l’aumento di capitale di Mps sarà curato da alcuni big player del sistema bancario globale. Il ministro Padoan ha ricordato alla Camera che il sistema bancario italiano non è in crisi sistemica e non è fonte di vulnerabilità per gli altri sistemi bancari. Il premier si è vantato che per Mps non pagano i cittadini.
In parallelo, gli indici di fiducia – ulteriormente minati in giugno dall’esito del referendum britannico sulla Brexit – sono in calo già dal mese di gennaio.
Ricapitalizzare con soldi pubblici e bail-in costa
L’approccio caso per caso va bene se i problemi sono isolati. Ma di fronte a una sequenza di casi isolati ci si chiede se sia necessario fare di più. Un’opzione discussa tra Roma e Bruxelles riguarda la possibilità e la modalità dell’utilizzo di risorse pubbliche per ricapitalizzare le banche. Una banca che riceve capitale pubblico ammette che con le sue forze non ce la fa. Ma da inizio 2016 l’uso di fondi pubblici per ricapitalizzare è consentito solo dopo aver condiviso parte delle perdite (almeno l’8 per cento del passivo totale) con azionisti e obbligazionisti. Alla regola sono previste eccezioni. Si può fare una “ricapitalizzazione precauzionale” a patto di coinvolgere azionisti e creditori subordinati (dunque lasciando fuori depositanti e obbligazioni privilegiate). Sempre un bail-in, ma più ristretto. Oppure si può invocare un caso anche più particolare laddove il bail-in ristretto metta a rischio la stabilità finanziaria o produca “effetti sproporzionati”.
Le parole rassicuranti del premier e del ministro Padoan indicano che nessuna di queste condizioni si applica al sistema bancario italiano. Per ora niente bail-out, niente bail-in e dunque niente eccezioni. Il sistema bancario italiano è sano, le oscillazioni di mercato sono un temporale estivo e il governo italiano non accampa scuse per non applicare una legislazione europea appena entrata in vigore. Meglio così. Durante la crisi 2008-13, i bail-out costarono 400 miliardi. Ma anche l’eventuale bail-in non sarebbe una passeggiata. In situazioni di dissesto bancario, il bail-in è stato applicato estesamente. In un recente caso europeo (Novo Banco, la good bank del Banco de Espirito Santo, Portogallo) l’applicazione del bail-in a un sottoinsieme dei creditori privilegiati ha concorso alla massiccia fuga di capitali americani dall’Europa di gennaio 2016. E il caso spagnolo, suggerito come possibile template per l’Italia, avvenne con ritardi e con un’iniezione tutt’altro che marginale di fondi pubblici.
Padoan alla Camera ha anche parlato di “cattiva gestione di alcune banche” e di “condotta illecita di alcuni manager”. Con qualche ragione. Soprattutto in Italia infatti le banche hanno venduto il proprio debito e le loro azioni a piccoli risparmiatori sotto gli occhi di Consob e Banca d’Italia. A metà 2015, complice anche la discesa dei tassi di interesse che ne ha ridotto i costi di emissione, 187 miliardi di euro di obbligazioni (il 28 per cento delle obbligazioni bancarie totali) erano nei portafogli delle famiglie. Per la Spagna del 2011 (poco prima del salvataggio con bail-in e fondi Ue) il dato era solo del 4 per cento del totale. Per la Germania, il dato 2015 è di 86 miliardi, metà di quello italiano. Alcuni risparmiatori avranno consapevolmente beneficiato di queste collocazioni ma accertare chi siano i truffati sarebbe oggetto di costose controversie legali. Mettendo insieme questi numeri con il rallentamento della ripresa economica e con la persistente situazione di incertezza sul vero stato patrimoniale di molte Bcc, si può intravedere la base per una futura richiesta di non applicazione del bail-in all’Italia, forse per non generare “effetti sproporzionati” nel sistema bancario italiano e in quello europeo. Con l’obiettivo di ricostituire la fiducia che serve a famiglie e imprese per crescere.