Daniele Scalise, Prima Comunicazione 8/2016, 10 agosto 2016
LE MOLTE VITE DI RICCARDO LUNA – A fine giugno Riccardo Luna sembrava destinato alla direzione dell’Unità, e soffrendo di un’attrazione fatale per il giornalismo era lì lì per accettare l’offerta dell’editore Pessina (ispirato nella scelta da Matteo Renzi), ma, dopo aver visto le carte e non aver ottenuto la totale autonomia e il potere decisionale richiesti, ha detto di no
LE MOLTE VITE DI RICCARDO LUNA – A fine giugno Riccardo Luna sembrava destinato alla direzione dell’Unità, e soffrendo di un’attrazione fatale per il giornalismo era lì lì per accettare l’offerta dell’editore Pessina (ispirato nella scelta da Matteo Renzi), ma, dopo aver visto le carte e non aver ottenuto la totale autonomia e il potere decisionale richiesti, ha detto di no. Di progetti per rilanciare e far sopravvivere il quotidiano Luna ne aveva già in testa, a partire naturalmente da cosa fare su Internet, ma il buon senso ha prevalso. Perché rinunciare alla prestigiosa collaborazione con Repubblica, di cui nella ultima edizione di ‘Repubblica delle Idee’ al Maxxi di Roma è stato una delle attrazioni? Perché lasciare incompiute le molteplici e redditizie attività di StartupItalia!, un ibrido di società di consulenza, comunicazione e lavori editoriali nel campo dell’innovazione, che si è inventato appena uscito dalla direzione di Wired, forte della popolarità che gode tra il popolo della Rete e delle conoscenze che si è conquistato costruendo il mensile della Condé Nast, inizio di un percorso che lo ha portato a stabilire un rapporto con il Cotec, la fondazione per l’innovazione del Quirinale, con cui il 20 settembre presenterà un rapporto sull’innovazione, e a diventare nel 2014 digital Champion per promuovere il digitale in Italia? Spigliato nel muoversi in molti e non banali ambienti politico istituzionali, dote che ha nel dna per eredità familiare, Luna possiede una biografia difficile da riassumere e che riflette della passione frenetica che ha segnato le scelte della sua vita: “Mi sono inventato le cose perché ero morto”, ti butta lì come se niente fosse. Poi attacca a raccontare: “Vengo da una famiglia di giornalisti. Mio nonno lavorava con Alcide De Gasperi, mio padre all’Agenzia Italia e un mio zio era anche lui nel campo. Quando andavo alle elementari mi portavano allo stadio e appena tornavo a casa mi mettevo a scrivere la cronaca della partita”. Un tipico caso, il suo, di quando casta e amore si incontrano. «Al liceo Giulio Cesare organizzai un giornalino che durò tre numeri. Avevo avuto l’idea di dare la pagella ai professori. Quello di italiano si meritò un quattro. Vendicativo, quando mi interrogò mi diede tre e allora capii che la faccenda si faceva complicata e che era meglio smettere. All’università mi inventai un giornale che si chiamava Campus che si appoggiava a un centro di servizi universitari che sbrigava le pratiche di iscrizione e amenità del genere. Loro si occupavano della pubblicità, io, insieme a un gruppo di studenti, del giornale. Facemmo un’inchiesta sui bagni della Sapienza. Titolo: ‘Sporchi, brutti e cattivi’. Eravamo andati a controllare i rotoli di carta igienica, le saponette, se erano sporchi e quanto erano sporchi. Ne venne fuori un tale casino che il consiglio di amministrazione si sentì in obbligo di promuovere una delibera per finanziare il rifacimento di tutti i servizi igienici. Da Repubblica venne a intervistarmi Roberto Fuccillo, fratello di Mino. Gli chiesi di darmi una mano al giornale e lui, a sua volta, mi chiese di aiutarlo per le pagine che Repubblica dedicava all’università». E così entrò nel giro del giornalismo. «Scrivevo dovunque trovassi uno spazio, dall’Agi a Conquiste del lavoro, il quotidiano della Cisl, dal Sabato di Comunione e liberazione al Messaggero». Intanto Campus era diventato un piccolo caso editoriale. «Mi dava gusto inventare un giornale e fare il direttore. Organizzai due altre redazioni, una a Tor Vergata e una alla Luiss». Continuando a bazzicare Repubblica. «A Repubblica ho fatto l’abusivo per cinque anni finché mi sono rotto le scatole. Andai dal caporedattore della cronaca romana e gli dissi: “Se non mi assumete vado al Corriere della Sera”. Quello, gelido, mi rispose: “Buon viaggio”, e mi chiese di liberare la scrivania nel giro di cinque minuti. Rimasi fuori dalla porta per tre giorni scongiurandolo di riprendermi. Non ci fu verso. Poi un giorno mi imbattei in Eugenio Scalfari che era venuto a fare gli auguri di Natale alla redazione. Con lui c’era Giampaolo Pansa che doveva aver letto qualche mio pezzo e che disse a Scalfari: “Guarda che questo è un fuoriclasse. Fossi in te lo assumerei”. Dopo due mesi, nel marzo del ’91, avevo un contratto in tasca». Audace ma, se lo lasci dire, anche con un gran culo. A Repubblica se facevi uno sgarbo non te lo perdonavano a vita. «Avevo osato alzare la testa e questo era ritenuto insopportabile. In ogni caso a Repubblica ho fatto una carriera veloce. Il mio vero mentore è stato Mauro Piccoli che mi ha insegnato tutto: a resistere e a non farmi prendere dall’ira. Tutto ciò che serve nel nostro mestiere. Non la scrittura. Quella già l’avevo di mio. Ci siamo ritrovati anni dopo costruendo ‘La Repubblica delle Idee’». Quel che colpisce in lei è che non fa il finto modesto. Eravamo rimasti all’assunzione come cronista. «Quando arriva Ezio Mauro divento redattore capo e poi dalla cronaca di Roma passo alla nazionale». Veloce come un fulmine. «Con Mauro abbiamo avuto un rapporto professionale molto intenso. Per me ha inaugurato la carica di ‘capo delle iniziative speciali’: mi inventavo prodotti nuovi, cosa che mi piaceva da morire». Nel 2001 però ha mollato tutto. Cosa era successo? Aveva sbroccato? «Sì, sono proprio impazzito. Mi stavo sposando e volevo cambiare vita. Accettai di andare a fare il vice direttore del Corriere dello Sport-Stadio, che peraltro aveva la redazione nello stesso palazzo di Repubblica, a piazza Indipendenza». Come mai proprio in una testata sportiva? Non si occupava di politica? «Da anni conoscevo Italo Cucci, un mito del giornalismo sportivo, che un giorno in ascensore mi chiese se mi andava l’idea di fare il suo vice direttore al Corriere dello Sport dove stava tornando come direttore. La promessa era che dopo un anno avrei preso il suo posto». Cosa le piaceva del giornalismo sportivo? «Il suo linguaggio popolare. I giornali di oggi sono tutto fuorché popolari». E prese una bella grugnata. «Ero come un marziano atterrato sulla terra. All’inizio l’intesa con l’editore Roberto Amodei fu fenomenale. Eravamo nel 2001 e mi chiese di preparare un piano per mandare a casa una trentina di persone su 120. Studiai bene la situazione e andai da lui con un piano che non mandava a casa nessuno ma con un sito Internet fortissimo: saremmo stati il numero uno sul web». E Amodei? «Mi rispose senza entusiasmo, disse che non ero abbastanza innovativo. A quel punto mi trovai in un vicolo cieco. Facevo il vice direttore, ma era come se non esistessi. Il nuovo direttore Xavier Jacobelli, che si ricordava delle inchieste che avevo fatto a Repubblica su Tangentopoli, su Vittorio Sbardella e sul primo governo Berlusconi, me ne chiese una sui padroni del calcio. Vivendo là dentro era chiaro come funzionasse il ‘modello Moggi’ e così mi misi all’opera. La puntata fu su Franco Carraro. La seconda su Cesare Geronzi. L’annunciammo sul giornale ma non uscì mai». La ragione? «Mi chiamò l’editore e mi disse che non poteva pubblicarla per motivi superiori. Scoppiò un gran casino. Ne parlarono tutti, Il Giornale, Il Riformista... Dopo qualche mese, era l’ottobre 2003, ero fuori dal Corriere dello Sport». Un epilogo amaro, direi. «Altroché amaro. A Repubblica trovai le porte chiuse e così anche in altre testate. All’epoca Geronzi era piuttosto potente. Mi chiamò Alfio Marchini che mi consigliò di andare da Geronzi a chiedere scusa in ginocchio. Gli risposi: “Perché dovrei farlo?”. Per di più l’articolo non era nemmeno stato pubblicato. Chiusi la telefonata dicendogli che da quel momento il nostro rapporto finiva lì». E assaporò il sale della disoccupazione. «Rimasi disoccupato per mesi. Provai a fare tre giornali. Il primo avrebbe dovuto chiamarsi Il Fatto, di cui registrai la testata, suggestionato dal programma tivù che Enzo Biagi aveva appena finito. Gli telefonai: facciamo un giornale di carta, lei fa il direttore e io con una trentina di ragazzi la redazione. Biagi, a cui era appena morta la sorella, non era dell’umore. Mi venne allora in mente di fare un giornale con Beppe Grillo». Questa mi mancava. Antesignano del Movimento 5 Stelle? «Macché! Per L’Espresso avevo scritto un’inchiesta sul mondo dei consumatori, un mondo popolato da 14 sigle che prendevano bei soldi dal ministero ma non contavano un accidenti. Dissi a Grillo, che nei suoi spettacoli aveva messo sotto tiro le grandi aziende e le loro politiche commerciali e di comunicazione: facciamo un grande giornale dei consumatori che se ne freghi della pubblicità e faccia il culo alle aziende. Presto però mi resi conto che mettere d’accordo 14 sigle era un compito impossibile». E il terzo tentativo come andò? «Ero amico di Carlo Zampa che era la voce della Roma e mi venne in mente di fare un giornale per i romanisti. Il business aveva un potenziale fortissimo». Sta parlando con uno che non ha mai messo piede in uno stadio. Di che business parla?». «I romanisti sono tre milioni, due dei quali vivono all’interno del Grande Raccordo Anulare. Se fai un giornale che si chiama Juventino devi distribuirlo da Caltanissetta a Bolzano, ma se fai Il Romanista non ti servono 33mila edicole, te ne bastano tremila». Fare un giornale non è comunque roba semplice. «Infatti ebbi due idee: chiesi a Adriano De Concini, il primo direttore generale di Repubblica, se mi aiutava a capire come si faceva un giornale e, insieme a Emanuele Bevilacqua che faceva Internazionale, prepararono un business plan. Avrei potuto andare da un grande editore a vendere l’idea, ma pensai che se davvero volevo essere libero dovevo ricorrere alla formula dell’azionariato diffuso. Andai in giro per Roma chiedendo a una cinquantina di persone – da Giovanni Malagò ad Antonello Venditti a Maurizio Costanzo – 25mila euro a testa. Feci così una public company: cinquanta soci e un milione e mezzo di capitale. E Il Romanista debuttò il 10 settembre 2004». La partenza non fu proprio brillante. «In quel periodo la Roma pre Spalletti perdeva tutto. Un inferno. Quando il tifoso è deluso, arrabbiato, non legge, non vuole saperne di giornali. Quindi Il Romanista rimaneva invenduto nelle edicole. Nel giro di quattro mesi ci eravamo mangiati 700mila euro. Emanuele Bevilacqua, che era l’ad, si dimise. Poi il colpo di fortuna: la Roma vinse undici partite di fila. Mi inventai una maglietta con scritto sopra ‘Record’ e tutte le partite vinte. Ne vendetti 52mila a 10 euro l’una. Portai a casa 520mila euro e salvai il giornale». Finché esplose lo scandalo del calcio. «Un giorno venne da me un signore che immagino fosse dei servizi segreti o di qualche procura. Mi consegnò una chiavetta usb che conteneva tutte le indagini di Calciopoli, intercettazioni, audio, tutto. Passai tre giorni barricato nello sgabuzzino del Romanista a leggere il materiale. Roba da far paura. Mi resi conto che Il Romanista era troppo piccolo per una cosa così grande e allora chiamai un amico alla Stampa e gli proposi di uscire insieme. Lui ne parlò con Giulio Anselmi, che allora era il direttore, e così per un mese La Stampa e Il Romanista uscirono insieme con quella storia clamorosa». Come vi eravate divisi i compiti? «La Stampa scriveva un pezzo dove si diceva: “in base alle carte in possesso del Romanista, eccetera” e noi pubblicavamo le carte». Ricordo che in quel periodo viveva in tivù giorno e notte. «Ero molto aggressivo, chiedevo la retrocessione della Juve, la condanna di Moggi. Volevo un calcio migliore. Vendemmo un mare di copie». E così si creò un suo pubblico? «Facevo un giornale molto impegnato. Chiedevo ai tifosi di non menarsi, di non accoltellarsi. Mi misi contro la curva della Roma. Feci una copertina con Alberto Sordi e Totò abbracciati con su scritto ‘Forza Roma Napoli’ e una lettera aperta di Luciano Spalletti che diceva che non si può andare allo stadio armati di coltelli. Una parte della curva della Roma ‘questa roba’ non me la perdonò dicendo che erano cazzi loro. Noi facemmo lo stesso un sacco di cose belle, comprammo un’autoambulanza mettendo all’asta le magliette di Totti e la regalammo alla città di Roma. Il problema era però che quando la Roma non giocava noi dovevamo pur vendere. Allora pensammo di allegare il film ’La vita è bella’ di Roberto Benigni perché allo stadio s’erano sentiti dei cori antisemiti. Tutto si reggeva sulla prospettiva che dopo i tre anni fatidici avremmo preso i contributi per l’editoria. La nostra richiesta venne approvata all’unanimità. Un giorno però mi chiamò Mauro Masi, allora capo del dipartimento per l’Informazione e l’editoria, e mi disse che voleva chiedere un parere al Consiglio di Stato. Nonostante tutto fosse in regola, il Consiglio di Stato diede parere contrario e io mi ritrovai con 1,8 milioni di euro in meno. Soldi con cui dovevo pagare tipografia, banche, eccetera». Come mai tanto accanimento contro di voi? «La verità è che facevamo un giornale poco amato dalla presidenza della Roma, Rossella Sensi, da Berlusconi, da Galliani». Non le sembra che la ricostruzione sia un po’ macchinosa, se non paranoica? «Niente affatto. In quel periodo la società della Roma era debole e io proponevo un modello Barcelona con un azionariato popolare. Insomma, mi ero messo contro l’intero mondo del calcio e capii che non ce l’avrei mai fatta. Decisi allora di fare due cose: avrei salvato il giornale e mi sarei fatto da parte. Organizzai una ristrutturazione del debito con banche, stampatore, giornalisti attraverso la quale riuscii a recuperare un milione e mezzo di euro, quelli che avremmo dovuto avere di diritto dallo Stato. Presi degli impegni facendomi scontare buona parte del debito che avevamo accumulato. E così fu». Nel frattempo Giampaolo Grandi di Condé Nast Italia le fece la proposta di andare a fare il direttore del nuovo progetto di Wired Italia. Prima volevo sistemare la storia con Il Romanista, poi decisi di accettare e nel febbraio 2008 andai a New York per il mio primo giorno di lavoro a Wired Italia». Prima di parlare della sua esperienza a Wired, mi dica come nasce il suo interesse per la Rete. «Nel 2000, dopo dieci anni di lavoro a Repubblica, mi ero preso, come ogni giornalista di quella testata, il mio sabbatico e dissi a Ezio Mauro che volevo capire che cosa fosse Internet. Partii per Boston e poi passai un paio di settimane nella Silicon Valley. Da lì in Nuova Zelanda, in Australia, a Tokyo per finire alla Nokia di Helsinki. Rimasi folgorato». Così, otto anni dopo ha tutte le carte in regola per aprire l’edizione italiana di Wired. Quando si dice il destino. «Alla Condé Nast mi avevano messo nelle migliori condizioni dandomi un anno di tempo per studiare il progetto e costruirmi una squadra tutta mia. Roba che nessun editore fa mai». Sulla copertina mise Rita Levi Montalcini alle soglie dei cent’anni. «Scelta che fu molto criticata in Condé Nast. Grazie al cielo il primo numero fece l00mila copie di venduto e, se già di uscire in edicola gli abbonati erano 30mila, quando me ne andai avevano raggiunto quota 73mila. È stata una esperienza pazzesca di cui sarò sempre grato a Condé Nast». Grandi e la sua squadra sanno fare il mestiere di editori. Ricordo che nella gerenza c’era scritto: “Marchette zero”. «Per due anni e mezzo ho fatto quello che volevo. Ho promosso una campagna per candidare Internet al Nobel per la pace e la Bbc disse che solo un attivista cinese, Liu Xiaobo, contendeva a Internet il premio dell’Accademia svedese». Chi vinse il Nobel? «Vinse l’attivista cinese, che peraltro sta ancora in carcere. E sa qual è stata l’ultima cosa che ha scritto Liu Xiaobo e che è giunta fino a noi? Ha scritto che “Internet è un dono di Dio”. Il fatto che il premio sia stato riconosciuto a uno che aveva scritto una cosa del genere è stata la vittoria più bella. Comunque Wired Italia assunse un ruolo di rilevanza politica. Alla Biennale di Venezia ci chiesero di preparare una installazione sul futuro e per i 150 anni dell’Unità d’Italia ci fu chiesto di organizzare una mostra che si chiamava ‘Stazione Futuro’ presso le Officine Grandi Riparazioni di Torino in cui raccontavamo come sarebbe stata l’Italia nel 2020. Grandi però non era d’accordo perché voleva che mi concentrassi solo su Wired. Quando il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano inaugurò la mostra, mi arrivò una lettera di Grandi in cui mi si diceva che ci saremmo separati». Ossia il benservito. «Assolutamente legittimo da parte di un editore. Rimane il fatto che è stata una esperienza strepitosa. Se avessi potuto scegliere sarei rimasto a Wired tutta la vita». Cosa successe dopo? «Mi chiamò Ezio Mauro chiedendomi di tornare a scrivere per loro e mi chiese anche di aiutarlo a immaginare un festival di Repubblica. E così con Mauro Piccoli abbiamo studiato il format della ‘Repubblica delle Idee’. Ricordo che quando partì la edizione a Bologna, era giugno 2012, la gente si aggrappava ai cancelli per sentire Zygmunt Bauman. L’evento finale a piazza Maggiore fu una grande emozione. Dovetti salire sul palco, che per me è una roba difficile perché sono timido». Lei timido? «È così. Sono timido. Ho fatto tredici edizioni di ‘Repubblica delle Idee’ e diciannove edizioni di ‘Next’, che è il mio spettacolo dell’innovazione dentro ‘Repubblica delle Idee’, dove porto in scena gli italiani che stanno cambiando l’Italia, gli innovatori radicali». Dover lasciare Wired Italia è stato un po’ un lutto, ma poi è resuscitato. «Mi sono impegnato su tre filoni: il primo, quello della scrittura sul giornale e ‘Repubblica delle Idee’. Il secondo, con la mia società che si chiama StartUpItalia! srl». Come mai ha sentito l’esigenza di aprire una società? A che le serve? «CheBanca! mi aveva chiesto un progetto per raccontarsi in Rete. Io proposi un blog dove ogni giorno una sola persona avrebbe scritto un solo pezzo che parlasse di innovazione. E così è nato CheFuturo! che per due anni è stato considerato il miglior sito di innovazione italiana». Non mi dica che tutta ’sta roba la fa solo soletto... «Lavorano con me tre persone uscite da Condé Nast: David Casalini, Luca Librenti e Marco Pratellesi. Dopo un anno di CheFuturo! abbiamo fatto partire StartUpItalia!, e oggi siamo il primo sito europeo che si occupa di startup». Quanto fatturate? «Un milione e trecentomila euro nel primo semestre 2016. Chiuderemo l’anno a 1,5 o 1,6». Qual è il vostro modello di business? «Noi non vendiamo né pagine né impression. Noi vendiamo community». Si spieghi meglio. «Vuoi una community di coloro che fanno startup sui soldi? Si chiama Smart Money e la paga CheBanca! Vuoi una community di chi si occupa di tecnologie innovative? Ecco Next Step pagata da Ford. La galassia StartUpItalia! genera anche eventi. Quest’anno con Intesa Sanpaolo stiamo finendo un giro di tutte le filiali nelle quali incontriamo le startup del territorio che si raccontano. E con Edison abbiamo organizzato il Festival dell’Innovazione». E il terzo filone su cui si impegna? «La Camera di commercio di Roma mi aveva chiesto di lavorare sull’innovazione a Roma e ho organizzato il primo evento sui venti anni del web. Da tre anni organizziamo la più grande Maker Faire europea a Roma. L’anno scorso abbiamo avuto l00mila paganti che hanno parlato di maker, stampanti 3D, economia digitale. Tutto questo con un format puntato sulle famiglie: tu vieni e nel frattempo i tuoi figli fanno laboratori per costruire robot, eccetera». Lei, che non se ne lascia scappare nemmeno una, ha creato una fondazione anche con Carlo De Benedetti. «Con De Benedetti abbiamo creato Make in Italy che racconta il nuovo made in Italy, i maker dei nostri giorni. Tra le altre cose abbiamo fatto una mostra in Expo, poi una a New York e ora Londra e in Svizzera sui cinquantanni di innovazione nel nostro Paese. Poi è partita una parte non profit che mi ha fatto incontrare Matteo Renzi». Qui la aspettavo. Al suo rapporto con Renzi. «Quando sono uscito da Wired ho creato un’associazione che si chiama Wikitalia, perché m’innamoro dell’idea che la Rete può servire a migliorare la qualità della politica. Non secondo il criterio della democrazia diretta sostenuta da Casaleggio e Grillo, ma attraverso la trasparenza, pubblicando tutte le spese, gli open data, i dati per fare applicazioni, strumenti con cui tutti i cittadini possono partecipare, e chiedo a un sindaco se ha voglia di partecipare a questo esperimento». E il sindaco è quello di Firenze, un tale Matteo Renzi. «Il 29 febbraio 2012 sono a Firenze a firmare un protocollo con Renzi, sindaco scalpitante, per far partire il primo open data in un Comune italiano. Lui mi chiede di far partire un sito che pubblica in tempo reale tutte le fatture del Comune di Firenze. Parte da lì il mio rapporto con lui». Che diventa intenso. Lei lo sostiene alle primarie per la segreteria del Pd. E diventa suo consigliere sull’Agenda digitale quando Renzi arriva a Palazzo Chigi. E nel settembre 2014 c’è la sua nomina a digital Champion, che poi è una sorta di ambasciatore dell’innovazione con il compito di aiutare i propri cittadini a entrare nel digitale. Come definirebbe il suo rapporto con Renzi? «Un rapporto franco. Se una cosa non mi piace non gliela mando a dire. E lui mi ha detto: “Sei uno dei pochi che è venuto qui senza mai chiedere niente”. Io credo che Matteo sia il più bravo presidente del Consiglio che abbiamo dai tempi di De Gasperi». Fossi in lei lascerei stare De Gasperi. Renzi sta perdendo popolarità e simpatie. «Gli ricordo spesso una frase di Che Guevara: dobbiamo essere duri senza perdere la tenerezza». Mi astengo dal dirle quel che penso della tenerezza del Che e dei suoi campi di concentramento cubani. Ma andiamo avanti. Lei ha anche un rapporto con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Di che si tratta? «Non direttamente. Per tre anni a Wired abbiamo firmato un rapporto con la fondazione del Quirinale, una fondazione per l’innovazione tecnologica, che si chiama Cotec. Quest’anno ho preparato un rapporto sull’innovazione in Italia che presenteremo il 20 settembre a Roma al Quirinale». Qual è il centro di questo rapporto? «Ciò che viene fuori è che la rivoluzione digitale che veniva considerata inevitabile solo da un’avanguardia del Paese, ora viene giudicata tale da tutti e positiva dalla maggioranza. L’Italia ha, diciamo, scavallato mentalmente: la rivoluzione digitale non è un fenomeno passeggero e con questa dobbiamo fare i conti tutti. Media compresi. Per alcuni i danni sono maggiori dei vantaggi, ma mentre era solo una nicchia che si confrontava su questi temi, ora tutti sanno che è un argomento ineludibile». Per un momento si era pensato che fosse lei il prossimo direttore dell’Unità. Poi è tutto saltato. «Intanto mi sento onorato di essere stato chiamato. È che L’Unità ha tre problemi: non ha un piano industriale, non ha un piano editoriale e non ha una linea politica definita. Avevo posto delle condizioni su queste tre cose ma non c’è stato modo di approfondire». Leggo da qualche parte che tornerà in televisione con un programma tutto suo. «Ha letto bene. Sto preparando un programma, ‘Stazione futuro’, per Rai5, in cui racconteremo come il digitale ha cambiato e continua a cambiare la vita di noi italiani». A parte il lavoro, cosa l’appassiona? «I miei due figli, una femmina di undici anni e un maschio di sei. Sono la mia vera passione infinita. Mia figlia vuole fare una startup con un device per bloccare la violenza contro le donne. Con un amico suo coetaneo che ne sa di elettronica hanno realizzato un oggetto, l’hanno portato a scuola e hanno messo su un banchetto con due torte per raccogliere fondi. Quel che mi dispiace per i nostri figli è che li facciamo vivere con la percezione che non hanno futuro, mentre dovremmo dire loro il contrario: potete fare tutto, ma dovete provarci». E il suo figlio maschio? «Da quando ho chiuso l’esperienza con Il Romanista non sono più entrato allo stadio. Ora mio figlio mi ha chiesto di tornarci con lui. Sa che le dico? Mi sa che ce lo porto». Daniele Scalise