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 2016  agosto 10 Mercoledì calendario

CAIRO RACCONTA CAIRO


Capitolo I – Febbraio 1996
Arriva Rambo

Nel 1996 pochi, fuori dall’ambiente, conoscevano un signore di nome Urbano e di cognome Cairo, uscito da Mondadori Pubblicità e ora presidente e amministratore delegato di Cairo Pubblicità spa, 200 milioni di capitale versato, controllata al 90% dalla Cairo Partecipazione e al 10% dalla Prs di Alfredo Bernardini de Pace. La Rcs Editori – un’azienda che fin da allora si intreccerà con gli interessi e le mire di Cairo – gli aveva affidato i settimanali Oggi, DonnaOggi (il femminile che si sarebbe chiamato Io Donna: ndr), Tv Sette, che l’anno prima avevano un fatturato globale di 54 miliardi. Lo incontriamo a via Tucidide 56, Torre 3, Milano, seicento metri quadrati vuoti (opzione per altri due piani), nemmeno una scrivania, nemmeno una sedia ancora. Lui sta seduto su uno scatolone pieno di qualcosa, con in mano un Black & Decker e ai piedi una grande targa con sopra scritto Cairo Pubblicità, metà in nero, metà in rosso (...).
Quando si è diffusa la notizia che Cairo aveva come primo cliente la Rcs Editori, i manager di prima fila della pubblicità, del marketing e della direzione editoriale dei grandi gruppi sono rimasti secchi. E subito le telefonate hanno messo in evidenza come l’operazione Cairo venga giudicata in modo opposto da professionisti del settore di consolidata esperienza: c’è chi considera l’operazione di Calabi come un’operazione geniale; c’è chi la considera poco meno che un suicidio.
Gli argomenti a favore dell’una e dell’altra tesi sono questi.
Tesi a favore – Cairo è un mastino. Forse il più duro e aggressivo di tutto il mondo della raccolta pubblicitaria. Ora che è uscito dalla Mondadori Pubblicità è un mastino potenziato che ha una gran voglia di rivincita su Tatò (che gli ha contestato i numeri del suo successo alla Mondadori), su Marcello Dell’Utri di Publitalia (che ha sempre tentato di mettergli la museruola e dargli polpette avvelenate), e anche una inticchia di rancore contro Fedele Confalonieri e Silvio Berlusconi che non l’hanno difeso e sostenuto come a lui sembrava giusto. Conta su questo stato d’animo Calabi per avere un ‘Rambo’ dedicato a sole tre testate che, pungolato dalla necessità di fatturato e della lira e scatenato dall’ambizione, macinerà miliardi come non si può certo pretendere da Flavio Biondi, responsabile della pubblicità della Rcs Editori, che di testate da curare ne ha una ventina (...).
La Rcs ritiene perfettamente compatibile con la concessionaria di casa l’annessione della forza vendita della Cairo Pubblicità per un budget che rappresenta soltanto l’8-9% del mercato pubblicitario del gruppo. E respinge l’osservazione che le tre testate cedute alla Cairo siano strategiche: Oggi, affermano i suoi manager, è molto fermo e va molto sollecitato; Tv Sette non è strategico; e per DonnaOggi (o come si chiamerà: forse Donna Vera) niente di meglio di un professionista, come Cairo, che ha venduto Donna Moderna per cinque anni.
Tesi contraria – In un mercato dei femminili che vale all’incirca 380-400 miliardi, la partenza del femminile del Corriere – che scatenerà la concorrenza in quel settore – chiede 80-100 miliardi in più (40 in più per il Corriere, 40 in più per Repubblica). L’arma fondamentale per la Rcs sarebbe stato poter giocare tutto il proprio portafoglio clienti femminili contro il diretto concorrente Manzoni (la concessionaria di Repubblica), che non ha femminili, contro la Rusconi e soprattutto contro la Mondadori, il leader di mercato con Grazia e Donna Moderna, cui la Rizzoli avrebbe potuto contrapporre Amica e Anna (che insieme valgono Grazia) e il nuovo femminile del Corriere che certamente supererà la diffusione di Donna Moderna (...).
E Cairo ce la farà? Anche qui due tesi contrapposte: chi dice che per il mondo dell’utenza Cairo è una novità che vale la pena di prendere comunque in considerazione al di là dei rapporti esistenti quando lui era alla Mondadori (non si sa mai: in fondo ha sempre uno zampino alla Rcs Editori e nel Corriere della Sera); e che in questo primo anno la sua motivazione a vendere e a chiudere contratti sarà nettamente superiore a quella di qualsiasi altro venditore su piazza (si gioca la sua vita professionale).

Capitolo II – Febbraio 1999
Un nome, un’ambizione

Cairo, ormai noto come il mastino della raccolta pubblicitaria, acquista il 100% della Giorgio Mondadori, ci racconta chi è, come è arrivato dove è arrivato e soprattutto dove vuole andare.

Nato a Milano il 21 maggio 1957, laureato alla Bocconi nel 1981, Urbano Cairo terminava in quell’anno il servizio militare quando, ad aprile, legge su Capital un’intervista a Berlusconi nel corso della quale l’uomo della Fininvest dice: “Se qualche giovane ha una buona idea, mi telefoni, e io gli risponderò”. E Cairo telefona. Incontra in via Rovani Marcello Dell’Utri, poi Silvio Berlusconi. A Berlusconi racconta le sue buone idee, figlie della clamorosa televisione che ha visto in Usa.
Ma quello che probabilmente convince prima Dell’Utri e poi Berlusconi è una fantastica ambizione che tracima dagli occhi neri di Cairo. Una fame di lavoro, di successo, di mondi da conquistare che in Fininvest è come la croce in chiesa. “D’accordo”, gli dice Berlusconi. “Se le va, può provare a fare il mio assistente”. “Certo”, replica Cairo: “Quando?”. “Domattina”.
E così cominciano tre anni a fianco di Berlusconi che Cairo si porterà nella carne professionale come il marchio a fuoco di mandria, per sempre. Impara come si vende, come si parla, come si contratta; assorbe modi di dire e di pensare, slogan e matrici aziendali, ritmo ed enfasi, verità e retorica. E soprattutto quel riflesso condizionato in Fininvest a schiacciare di colpo l’acceleratore, fino in fondo, di fronte alle difficoltà.
È una scuola irripetibile. Ma anche se il cucciolo qualche volta ringhia, è vissuto nella cuccia e nella bambagia e ha pranzato alla tavola dei grandi. Chissà se cammina da solo?
Avvinghiato a Berlusconi, protetto da Confalonieri, curato da Dell’Utri, il giovane laureato si sta però annoiando. Vuole che lo mettano alla prova. Vuole fare. E Marcello Dell’Utri lo prende con sé a Publitalia, concessionaria di pubblicità per le televisioni Fininvest.
Dell’Utri lo spinge e lui non si fa pregare: nell’85 è direttore di una divisione di pubblicità di Publitalia: quattro persone per un po’ di clienti che valgono 10 miliardi sul globale Publitalia che quell’anno vale 1.100 miliardi. Due anni dopo Dell’Utri gli lancia l’osso: direttore commerciale per l’Emilia e la Romagna, sede a Parma e a Bologna, dieci persone, 135 miliardi di fatturato (1.700 quelli di Publitalia). E Cairo azzanna l’osso e lo ingoia che a momenti si strozza: quando torna a Milano nell’88 l’area fattura 160 miliardi. A Milano l’aspetta la direzione commerciale, 300 miliardi di fatturato, 30 persone che diventeranno 50 nell’89 con 600 miliardi di fatturato e la direzione commerciale raddoppiata. Nell’ottobre del 1990 viene nominato vice direttore generale per la Lombardia con 70 persone e 1.030 miliardi di fatturato che nel 1991 diventano 1.200. Nel settembre del ’91 viene nominato amministratore delegato della Mondadori Pubblicità, 130 persone, fatturato di 390 miliardi.
Cairo è arrivato alla prima delle sue stazioni importanti (...). Ora ha acquistato al 100% la Editoriale Giorgio Mondadori, assistito da Interbanca.
Lei pensava di diventare editore?
«Non ci pensavo proprio».
Immagino che lei sappia che tra fare il pubblicitario e l’editore c’è la stessa differenza che c’è tra l’arredatore e l’architetto. L’arredatore si limita a curare l’abitabilità di case che ha costruito l’architetto.
«Me ne rendo conto. Ma fare l’editore non era nelle mie ambizioni. Che erano invece di costruire un gruppo di concessionarie multimediali: stampa, tivù, Internet, sponsorizzazioni, e raggiungere un certo fatturato».
Quanto?
«Un bel fatturato nel 2000».
Quanto? Spari, coraggio. L’ambizione non è mica una colpa. Qualcuno dice che lei vuole raggiungere un fatturato di mille miliardi nel 2000-2001.
«Dalla sua faccia vedo che lo ritiene impossibile».
Con lei non si sa mai. Quando ha aperto la Cairo Pubblicità nel febbraio del 1996 fatturava zero. Ora, con la Giorgio Mondadori, è arrivato a 250 miliardi.
«Febbraio ’96... Bestiale! Ero solo, con il mio telefonino e con un trapano Black & Decker per fare qualche buco nelle pareti e appendere, ad esempio, il quadro con sottovetro la pagina che avevo pubblicato sul Corriere: “È nata la Cairo Pubblicità. Cerco 100 persone...”».
Andiamo veloci: dopo la costituzione della Cairo Pubblicità e il contratto con la Rcs Editori, lei fonda Cairo Due per Video Airport, acquista Tele+ Pubblicità con tutti gli annessi (Tele+ bianco, Tele+ grigio, +Calcio, +Formula 1). Poi ancora Cairo Radio, Doublé Click, eccetera. Oggi è arrivato con questo gruppo a fatturare 190 miliardi. Sviluppando ancora, incrementando, potenziando questo mazzo di società, a quanto pensa di arrivare come fatturato da qui al 2000-2001 ?
«Mah, realisticamente vicino ai 500 miliardi, soprattutto per lo sviluppo della concessionaria Tele+».
Le mancano 500 miliardi per arrivare al traguardo dei mille miliardi. Cosa le manca?
«Una televisione».
Cioè Telemontecarlo.
«Perché dice Telemontecarlo?».
Perché so che Telemontecarlo le sta qui, in gola. E perché so che lei qualche discorso l’ha fatto con Cecchi Gori.
«A maggio del ’96 ho incontrato due volte Cecchi Gori, gli ho spiegato quali erano le mie idee su Telemontecarlo: prima di tutto che i 120 miliardi di pubblicità fatturati allora potevano essere portati in un solo anno a 200. Avendo così risorse per investire in programmi e illuminazione sul territorio, aumentando l’ascolto che, a sua volta, avrebbe consentito di vendere la pubblicità a prezzi più alti raggiungendo in un altro anno i 300 miliardi. Che, a loro volta, avrebbero consentito ancora investimenti in programmi e illuminazione. Un’evoluzione con gradini di fatturato a scala a chiocciola, in cima alla quale c’era un fatturato imponente».
E Cecchi Gori?
«A lui la mia idea è piaciuta moltissimo, e ha affidato al suo amministratore delegato, Francesco Nespega, la delega per andare avanti nell’esame di questa operazione. Ma tutto s’è fermato (...)».
Telemontecarlo è ancora oggi per lei una buona occasione?
«È ancora un’occasione straordinaria. Lei pensi: c’è una domanda di televisione che è elevatissima, un affollamento pesante sulle principali reti, costi contatto continuamente crescenti, una certa insoddisfazione degli utenti perché hanno pochi spazi, il gradimento della gente sui programmi oggi buono, ma certamente non ai massimi livelli... Ecco, io penso che in questo momento c’è spazio per una televisione che faccia il 3-5% di ascolto (...). Il 19 dicembre esco di casa e vado al Sant’Ambroeus con i giornali che ho appena comprato. E mi metto a leggerli, in attesa dell’ora giusta per partire per Padova dove avevo un appuntamento di lavoro nel pomeriggio. Mi cade l’occhio su quello che scriveva Italia Oggi: la Giorgio Mondadori è in vendita, è alla stretta finale. L’articolo diceva anche che c’era una cordata guidata dall’amministratore delegato Leovino per rilevarla, le cifre di cui si parla sono queste e queste... la cosa è in dirittura d’arrivo. Il giornale diceva che per rilevare il gruppo ci volevano 10 miliardi più i 15 di debito. Be’, mi dico, è una cosa abbordabile. Ma era una riflessione freddina. Salgo in macchina per Padova e all’improvviso la pancia mi si scalda, va a fuoco e vengo preso da un’eccitazione pazzesca. Faccio il viaggio avanti e indietro da Padova come drogato: guidavo con una mano e mi segnavo su quei bigliettini bianchi, che mi porto sempre dietro, tutte le idee societarie, di gestione, di pubblicità, di promozione, di marketing per la Giorgio Mondadori che mi schizzavano frenetiche in testa. Ho riempito quattro foglietti fitti fitti. Quando arrivo a Milano mi calmo. Provo a chiamare il mio commercialista. Ma è domenica. La mattina dopo lo richiamo e gli dico: “Ti devo vedere perché mi è venuta in testa un’idea importante. Tu conosci sempre quella persona dentro la Giorgio Mondadori? Bene, allora, vieni, dai, che ti dico questa cosa”. Lui viene, gli spiego e lui mi dice che ne parla con quello della Mondadori. Ci lasciamo: “Vedi se è vero che vendono e a che prezzi”, gli dico. Quella persona stava partendo per le vacanze di Natale, ma dice: “La cosa mi interessa. Torno a Milano il 28, e ci vediamo”. Ci vediamo il 28, io gli chiedo com’è e come non è la storia. Lui mi spiega, mi dà un’idea dei valori – che erano un po’ più alti di quanto aveva scritto Italia Oggi».
Inutile chiederle chi è questa persona e i valori da lui indicati.
«Bravo. Dico a questa persona che la cosa mi interessa. Ci rivediamo dopo la Befana. Mi porta della documentazione che gli avevo richiesto. Ci rivediamo ancora con altra documentazione. Finché il 14 gennaio lo invito a comunicare alla Giorgio Mondadori un mio interesse. Se mi date qualche ulteriore dato sul bilancio ’98, dico, tra qualche giorno faccio l’offerta. Mi portano i dati di bilancio ’98, e il 19 di gennaio faccio un’offerta a fermo, validità sette giorni... è il 19, data fortunata, le dicevo prima: il 19 di maggio ho acquistato Tele+, il 19 di dicembre ho letto l’articolo, il 19 di gennaio ho fatto l’offerta».
Offerta a chi?
«A tutta la famiglia Mondadori: Giorgio, la moglie, i suoi tre figli, l’amministratore Leovino e l’avvocato di Giorgio, Contino, che hanno il 2% a testa. Offerta 100%. Poi ho fatto anche un’offerta a Ronny Bonelli, nel caso lui volesse vendere la sua quota di Airone, il 25%, e degli immobili, il 20%. Ho già una sua lettera in mano che dice che vuol vendere. Mi hanno dato una risposta immediatamente. Abbiamo preparato tutte le carte del contratto e delle girate e il 4 febbraio ci siamo trovati dall’avvocato Magnocavallo. E abbiamo concluso (...)».
Be’, però ce ne ha messo del tempo per decidersi, quasi dieci anni tra Berlusconi e la Mondadori. Molti tentano l’avventura subito, appena laureati.
«È vero. Ma il settore dove mi ero fatto le ossa, quello della raccolta pubblicitaria, quello della concessionaria di pubblicità, è un paesaggio costellato di castelli e di fortini che sorvegliano il mercato. Mercato difficile, pieno di concorrenti. Ma non voglio trovare scuse. La verità è che per lungo tempo non sono stato convinto di avere quella forza, quella sicurezza, quella determinazione, diciamo fede incrollabile nelle mie capacità – per fare un po’ di retorica – che sono fondamentali per diventare un imprenditore di successo. E paradossalmente questa soggezione psicologica a fare l’imprenditore si è consolidata stando vicino a Berlusconi. Bellissima esperienza, certo, nel vedere Berlusconi operare. Ma le cose che faceva erano così straordinarie ed eccezionali che mi sembravano inarrivabili e il suo esempio finiva per deprimere, invece che rafforzare la mia spinta all’autonomia di impresa. Le operazioni che lui tentava mi apparivano in partenza così disperate, che quando riuscivano mi toglievano fiducia in me stesso. I successi del modello erano, insomma, avvilenti. Quando mai riuscirò a fare cose simili, mi dicevo. Così mi sono sottratto dalla sua ombra – ero suo assistente personale – e mi sono messo a vendere per Publitalia. Cercavo sul campo una verifica delle mie possibilità. E così ho poi lasciato Publitalia per la Mondadori affrontando la vendita della carta stampata, che per me era un’attività del tutto nuova. Gestivo 300 persone che non avevano nessuna simpatia per l’uomo che veniva da Publitalia, per un manager voluto dal ‘padrone’. Sì, ho imparato molto a Publitalia e alla Mondadori, ma nessuno mi poteva dare la conferma che sarei stato in grado di fare da solo. C’era un solo test valido: fare quello che volevo fare. Poi, un giorno, mi sono stancato di tutti questi miei intorcinamenti psicologici e ho lasciato la Mondadori. È stato come per un uccellino che ancora non sa volare. Sono salito sul davanzale della mia vita professionale e ho guardato giù. Ho chiuso gli occhi pensando: o mi sfracello o volo, e mi sono buttato. E le ali hanno retto. Almeno per ora».

Capitolo III – Novembre 1999
Il ragazzo pieno ai sogni

Urbano Cairo – azionista unico del gruppo Cairo e della Giorgio Mondadori Editore – ha allineato i risultati della sua attività alla convention di Montecarlo (la sua prima convention) dell’11 e 12 ottobre. Che sono questi: da zero a 280 miliardi di fatturato in quattro anni; tutti e quattro i bilanci in utile; obiettivo di fatturato per il 2000 sui 400 miliardi. Alla cena di gala dell’ultimo giorno aveva alla sua sinistra la madre e il padre e, a destra, Claudio Calabi, amministratore delegato della Rcs Editori che ha dato a Cairo la concessione in esclusiva per la raccolta pubblicitaria di quattro testate: Io Donna, Oggi, Visto, Novella 2000 (...).
Bel successo, eh?
«Non male».
Soddisfatto?
«Diceva Churchill: “Il successo non è mai definitivo”.
Churchill intendeva dire che il successo così com’è venuto se ne può anche andare?
«Sì, ma, secondo me, intendeva dire anche che dopo un successo ne deve venire un altro, e un altro ancora. Se vuoi stare tranquillo».
Lei quanti ne prevede?
«Verosimilmente quello del prossimo anno. Poi si vedrà».
È sempre deciso a raggiungere i mille miliardi di fatturato?
«Ma no, quelle sono cose che si dicono per stuzzicare l’attenzione del mercato».
Lei però ha detto in questi due giorni, non ricordo in quale occasione, che nell’attuale mondo degli affari se non fatturi almeno mille miliardi non sei nessuno.
«Già, è vero, l’ho detto».
Era una battuta?
«No, quella dei mille miliardi è vera».
Ma non fa per lei.
«Non mettiamo limiti alla provvidenza divina. Ma vede, lei mi tratta come se fossi... A proposito: vuole qualcosa da bere? Io prendo un caffè».
A quest’ora! Ma poi dorme?
«Benissimo. Dicevo: lei mi tratta come uno di quelli che raggiunti i cento miliardi si montano la testa. Io, invece, sono rimasto il ragazzo con il telefonino che, da solo, senza nemmeno una segretaria, riceveva al Sant’Ambroeus di Milano i candidati a entrare nella Cairo Pubblicità. Io sono un ragazzo pieno di sogni».
Come ha detto?
«Che sono un ragazzo pieno di sogni».
Oddio! Questa da lei non me l’aspettavo. Lei sarà anche pieno di sogni ma anche pieno di quattrini. Lei sogna i miliardi, ecco cosa sogna.
«Anche quelli che lavorano con me sono pieni di sogni».
Sì, siete una compagnia di sognatori. Lei sogna, i suoi collaboratori sognano. E, a forza di sognare, avete fatturato 280 miliardi, da zero, in soli quattro anni. Ma senta, Cairo: non vorrà mica scatenare l’ilarità con questa sua intervista... Ma certo, è così. Ma scusi, rifletta un momento. Quando Claudio Calabi la incontra, alla fine del 1996, lui era da poco tempo a capo della Rcs Editori che aveva più buchi che un gruviera. Aveva i capelli ritti in testa. Incontra lei che non aveva nemmeno un ufficio e che girava per Milano con un telefonino. Lei si era fatto le ossa a Publitalia e alla Mondadori, d’accordo. Ma se oggi è un uomo pieno di sogni, chissà cos’era quando ha stretto per la prima volta la mano a Calabi. E lui – che sguazzava in un lago rosso di bilanci – che fa: “Caspita”, dice, “ma questo è un sognatore!”. E le affida Oggi, Tv Sette e il nascente Io Donna che, se fosse andato male, faceva un altro buco di una cinquantina di miliardi. Due avventurosi, insomma, che si mettono insieme. Ma via! L’unica giustificazione possibile a quest’accordo è che Calabi deve aver visto la fame di successo che le usciva dagli occhi. Altro che sogni!
«Lei la racconta alla sua maniera, ma la verità è che da allora io non sono cambiato. Non faccio la vita da nababbo e non mi accendo il sigaro con i fogli da centomila».
Lo credo bene: non fa vita da nababbo perché lavora dalla mattina alla sera per fare fatturato. E poi lei non fuma.
«Aaah! Con lei non si può parlare. Voglio dire che il denaro corrompe».
Sì, corrompe chi non ce l’ha, come direbbe Andreotti. Ma lasciamo il ragazzo con il telefonino e i suoi sogni. Si metta il cappello da editore della Giorgio Mondadori. E mi dica come va (...).
Mi diceva, prima di iniziare questa intervista, che da aprile a settembre la sua gestione ha di fatto raggiunto il break even. Come c’è riuscito?
«Ho chiuso Uomini e storie, che perdeva 200 milioni al mese; ho ridotto a 27 i titoli dei libri che erano 60; ho ridotto a tre le monografie che nel ’98 erano 20 e che cannibalizzavano le testate; ho rinegoziato tutti i prezzi con i fornitori. Dopo questi tagli, ho introdotto gli allegati alle testate che hanno subito rilanciato la vendita (...)».
Per quello che ho visto io, lei è un signore di grande ambizione. Lei ha appena compiuto 42 anni. Con il carattere che si ritrova è appena all’inizio della sua carriera di imprenditore.
«Be’, un pezzo di strada l’ho fatto, no?».
Un pezzo, giusto per scaldarsi i muscoli.
«Ma non capisco ancora questa storia che ho comprato la Giorgio Mondadori per saggiare il mercato della grande editoria. Che cosa vuole dire?»
Mi segua: quali sono i grandi mercati della comunicazione che abbiamo davanti al naso?
«La pubblicità».
Vada avanti.
«La tivù digitale, le telecomunicazioni, i telefonini...».
E rispetto a questi grandi business cos’è l’editoria dei periodici? Roba minima, no?
«È sempre un buon business».
Ma lei si accontenta? Oppure vuole entrare nel grande gioco della comunicazione e per far questo deve per forza avere degli alleati, dei partner? Intanto perché i posti di prima fila sono già occupati, e poi perché per partecipare a questo gioco ci vogliono migliaia di miliardi. Non le voglio fare i conti in tasca, ma non credo che lei possa trovarli così facilmente come ha trovato quelli per comprare la Giorgio Mondadori.
«Vuole arrivare al punto?».
Ci arrivo: la Giorgio Mondadori potrebbe essere per lei un biglietto da visita indispensabile per entrare in contatto con qualche gruppo editoriale che sta pensando al grande mercato delle telecomunicazioni. Lasciamo perdere la Arnoldo Mondadori che, però, è collegata con Mediaset, che non è proprio da buttare. Ma citiamo la Rcs Editori che proprio in questi giorni ha stretto accordi con la Rai per fare canali tematici e altrettanto ha fatto con Tele+. Non lo considera come un possibile partner per entrare a braccetto nel mercato della grande comunicazione?
«Andare a braccetto con la Rcs Editori mi sembra un’immagine esagerata».
Diciamo meglio, allora. Sul fatto che lei sia un protagonista della raccolta pubblicitaria è indubitabile. E che la raccolta pubblicitaria sia un elemento sempre più determinante per qualsiasi business di comunicazione è ormai certo. Ma acquistando la Giorgio Mondadori, e rimettendola in piedi in pochissimo tempo, ha anche dimostrato che per lei l’editoria non è uno spaventapasseri. Ha arricchito, insomma, la sua immagine di imprenditore di comunicazione. Ecco perché dico che la Giorgio Mondadori può essere per lei un biglietto da visita. È d’accordo?
«Ragionamento convincente».
E poi c’è la Rcs Editori. Una vicinanza che è anche un’opportunità che uno come lei non dovrebbe farsi sfuggire. Tanto più che mi sembra di capire – da quello che ha detto qualche ora fa Claudio Calabi – che il contratto di concessione tra Cairo Pubblicità e Rcs Editori verrà rinnovato.
«Spero di sì. Ma l’ultima parola spetta a Calabi».
Che per rinnovare le chiederà qualche sacrificio sulle percentuali che lei oggi incassa.
«Ma, vede, nel rapporto con la Rcs Editori non è un problema di numeri. Né quelli del guadagno, né quelli del fatturato, né quelli delle percentuali sul fatturato. L’importante è avere una prospettiva di lavoro concorde, degli obiettivi comuni alla luce di quanto abbiamo fatto fino a oggi. Quando un editore capisce di che pasta sei fatto, ti pone dei progressivi gradini di fatturato da salire, anno per anno. E ti chiede: “Te la senti?”. E tu devi rispondere sì o no. Sai che se rispondi sì, devi mantenere gli impegni presi. E che se li mantieni, l’editore ti chiederà sempre di più. È una strada sempre in salita, che ti cava il fiato. Ma questo è il nostro lavoro, il mio lavoro».

Capitolo IV – Dicembre 2003
Un quotidiano per spuntino

Dopo meno di un decennio da imprenditore della comunicazione, Urbano Cairo è ormai una ’celebrity’ e si sparge la notizia che stia progettando di fondare un giornale popolare. Con i soldi suoi (ha 200 miliardi nelle casse della società), senza soci, assistito nella sua corsa al break even dalla Cairo Pubblicità, che in un solo anno ha coperto i 66 milioni di euro del minimo garantito del 2003 per La7 di Marco Tronchetti Proverà (...).

Ho sentito dire che lei sta pensando a un quotidiano popolare, tipo il Sun.
«Il Sun vende 3,7 milioni di copie al giorno. Mi sembra un modello molto ambizioso».
Ma è vero o no che lei pensa a un quotidiano?
«Non faccia il furbo! Se c’è uno che sa come stanno esattamente le cose nel mio cervello, è lei. Cos’è, facciamo la sceneggiata per i lettori?».
Il fatto è che da tempo non so più che cosa c’è nel suo cervello. E allora: c’è o non c’è il quotidiano?
«Ci penso, certo».
In Italia quotidiani popolari non ce ne sono. Bisogna farli da zero: basta avere tanti soldi – e lei oltre ad averli può trovarli in banca – basta trovare un direttore...
«Sì, perché i direttori per un nuovo quotidiano popolare li trovi nascosti dietro ogni angolo. Ma cosa dice? Se lo faccia lei un quotidiano popolare, se le sembra così facile».
Quante copie dovrebbe vendere?
«Minimo 300mila copie».
Allora, vede che c’ha pensato?
«Ma certo che c’ho pensato. Ma perché, cosa ci sto a fare io in questo mercato dell’editoria? Mi gratto la pera mentre gli altri cercano di sfruttare tutte le opportunità che capitano sotto mano?».
Voglio capire se lei ha deciso di fare questo giornale popolare e se ci sta lavorando.
«A volte sì a volte no. Sa come dicono a Milano: conforme l’estro».
Sì o no?
«No (...)».
Ho letto che, oltre al suo quotidiano, sta pensando ad altre due ‘robe’.
«Stiamo pensando a un Settimanale familiare con Mauri e Biavardi. Lo stiamo mettendo a punto. Affideremo un numero zero a Giampaolo Fabris perché lo testi. Poi vedremo se è il caso di uscire».
Mi levi una curiosità: se dovesse fare mai questa pazzia del quotidiano, quale concessionaria andrebbe bene? Non mi dica la Cairo Pubblicità.
«E perché no? Non mi sembra che ci sia proprio alternativa. Le ricordo che la Cairo Pubblicità ha portato il nuovo Io Donna della Rcs Editori da zero fatturato pubblicitario a 107 miliardi in soli cinque anni; le ricordo Tele+, che ha triplicato il fatturato in quattro anni, il minimo garantito di La7 raggiunto già dal primo anno, che vuol dire avere quasi raddoppiato il suo fatturato... via, non mi faccia sbrodolare addosso (...)».
Mi sembra che lei tenga molto a La7. In fondo è una tivù da 2,2%. Niente in confronto al 25% di share di Rai1 e Canale 5.
«Sì, ma interessa molto ai clienti un target come quello di La7: è un target di gente che conta, che consuma, che spende. Dentro quel 2-3% di share c’è una grande concentrazione di opinione che pesa, di leadership sociale e politica: Ferrara, la Palombelli, Gad Lerner, Monti con ‘Sfera’, Biscardi».
Lei crede che La7 crescerà ancora?
«Credo proprio di sì. La gestione del palinsesto passata ora nelle mani di Campo Dall’Orto mi sembra una garanzia in questo senso».

Capitolo V – Settembre 2005
Cairo va nel pallone

L’editore di DiPiù acquista il Torino Calcio ed è subito un bagno di successo e di folla, con Berlusconi che si congratula (...).
Qualcuno tra gli addetti ai lavori capisce che Cairo non punta più a un’audience raffinata e di prestigio, ma al popolo dei tifosi, quelli che comprano 50mila biglietti e che sono la sostanza, la ciccia del lettore del giornale popolare.
Ora quella audience l’ha stanata e non la mollerà più: inseguendola con il quotidiano e con la squadra di calcio. E quando Silvio Berlusconi che conosce bene Cairo commenta l’acquisto del Torino con un convinto: “Cairo è bravissimo”, qualche editore dice: “Se Cairo fa il femminile e il quotidiano sono cazzi amari per tutti”.

Capitolo VI – Giugno 2011
Alla conquista di La7
Insaziabile. A dir poco. Nelle sue mire ora c’è una tivù un po’ sfigata che non riesce a tenere fuori la testa dal pelo dell’acqua. È La7 (...).

Quando ha iniziato a occuparsi di La7?
«Il nostro rapporto con La7 ha una data precisa: il 9 novembre 2002. Fu in quel giorno che firmammo un contratto triennale rinnovabile a patto di totalizzare 228 milioni di fatturato nei primi tre anni».
Immagino che ci siate riusciti.
«Non solo raggiungemmo l’obiettivo, ma lo superammo e il contratto fu esteso automaticamente».
Poi, nel maggio 2008, è arrivato Stella che ha messo a ferro e fuoco la rete e tutti i suoi interlocutori.
«Cominciammo a negoziare con lui a settembre di quell’anno e alla fine rinnovammo il contratto. Lo scenario economico generale era catastrofico grazie, tra l’altro, al fallimento della Lehman Brothers e al crollo delle banche. Quell’anno fu angosciante pure per noi: con La7 chiudemmo a 113 milioni di euro, in calo sui 121 milioni del 2007, e le previsioni per il 2009 erano nere».
Quali erano le richieste di Stella per continuare il matrimonio con la Cairo Pubblicità?
«Mi disse che erano contenti di noi: nel 2002 avevamo preso La7 con un fatturato a 36 milioni e un ascolto del 2%. Quattro anni dopo lo share era arrivato al 3% ma il fatturato era più che triplicato. Disse molto chiaramente che avevano bisogno di fare fatturato: “A fronte di un 3% mi devi garantire, a prescindere dall’andamento del mercato, almeno 120 milioni lordi all’anno per i primi tre anni”. Ebbi un giramento di testa, ma grazie al cielo ero seduto. Stella aggiunse che avrei ottenuto un rinnovo automatico per altri tre anni se avessi raggiunto un certo fatturato incrementale nel primo triennio. E ribadì secco: “Adesso però voglio 120 milioni”».
Sembra una partita di poker.
«Il rischio che ci assumemmo fu infatti molto alto. Ma credo che ne valesse la pena».
E poi vi siete presi anche La7d, La7.it, La7.tv.
«Nel 2008, a novembre, abbiamo fatto un contratto rinnovabile automaticamente per altri tre anni al raggiungimento di risultati prestabiliti. Nel 2010 abbiamo inserito La7d, di cui siamo molto contenti. La rete tutta femminile è in crescita di ascolti con uno share dello 0,25%. E anche i canali Internet».
Finché a luglio 2010 non arriva Enrico Mentana e a settembre il Tg La7 parte a tutto gas.
«Mentana ha dato un impulso fenomenale, ma sono andati bene anche gli altri programmi come ‘Otto e mezzo’, ‘L’infedele’, ‘Le invasioni barbariche’, ‘Exit’. A quel punto Stella mi dice: “Visto che abbiamo superato il 3% di audience mi aspetto che anche i tuoi obiettivi siano più ambiziosi”. Così abbiamo rinegoziato il contratto e il 16 dicembre dello scorso anno abbiamo firmato un addendum che stabilisce una stretta relazione tra gli share raggiunti e il fatturato pubblicitario (...)».
Che previsioni fate per il 2011?
«Siamo certi di poter realizzare gli obiettivi che abbiamo. Con La7 siamo già riusciti a trasformare le percentuali di crescita degli ascolti in aumento del fatturato pubblicitario. Anzi, le dirò di più: andremo oltre, perché, secondo i risultati dei primi cinque mesi, siamo sopra del 31% rispetto allo stesso periodo del 2010. Stiamo insomma facendo un pochino meglio della crescita dell’audience che, passando dal 2,8% al 3,5%, sale sì, ma del 25%.
È fuor di dubbio che si è creato un mood favorevole per La7.
«La7 è una televisione di moda, piace molto a tutti, e in particolare agli opinion leader e a quanti decidono i budget pubblicitari».
L’effetto Mentana è sicuramente interessante.
«Interessante? Be’, molto di più. Pensi che da quando lo dirige e conduce, il tg è passato dal 2,7% a picchi che hanno toccato il 13,82%. Ma anche ‘Otto e mezzo’ è decollato e ha raggiunto punte di oltre il 10%, così come ‘L’infedele’. E ‘Omnibus’ la mattina supera il 5%».
Per non dire che tutti i giornali parlano di La7 come se fosse una nuova Lourdes della libertà d’informazione.
«Quando vendi la pubblicità di una rete commerciale sicuramente gli ascolti e i target sono molto importanti. Oggi, però, La7 ha qualche cosa di più. Ha ciò che negli Usa chiamano ‘momentum’. È la rete sulla bocca di tutti, che ha fatto un grande balzo negli ascolti e di cui tutti i giornali parlano. E questo per noi è un bell’aiuto (...)».
Quali progetti ha per il prossimo futuro?
«Di sicuro periodici per completare il nostro portafoglio testate. Perché non un quotidiano generalista? È un mio vecchio sogno. E tanto altro. Meglio, però, non dire nulla: prima fare, poi parlare».

Capitolo VII – Marzo 2013
Su La7 Cairo si gioca il futuro

Partito quasi svogliato, ha messo il turbo quando ha capito che Telecom Italia era disponibile a cedergli l’azienda televisiva con la dote. Ha due anni di tempo per rimetterla in sesto. Poi si vedrà. Al momento sembra un grande amore (...).
La storia inizia a giugno-luglio dello scorso anno, quando Telecom comunica l’intenzione di mettere in vendita Telecom Italia Media, la società che concentra le attività televisive del gruppo, cioè le reti televisive La7, La7d, il 51% di Mtv e Telecom Italia Broadcaster. Come concessionario di pubblicità di La7 lei poteva essere considerato un possibile acquirente?
«Ero sicuramente interessato a conoscere i termini della partita per capire di che cosa si stesse parlando. Mi viene dunque inviato il teaser con qualche dato molto di sintesi relativo alla società in vendita Telecom Italia Media. Tra la fine di agosto e i primi di settembre ci siamo scambiati l’accordo di riservatezza, il no disclosure agreement, l’impegno a non rivelare alcun fatto che fosse stato conosciuto grazie all’accesso a dati riservati e sensibili. Il 24 settembre ci è stato consegnato il memorandum con tutte le informazioni dettagliate».
E dopo aver visto questo memorandum?
«C’era da fare un’offerta non vincolante entro il 15 di ottobre, al fine di poter accedere alla data room ed entrare quindi nel dettaglio dei contratti. A metà ottobre abbiamo fatto una prima offerta non vincolante, siamo entrati nella data room e abbiamo potuto fare le nostre due diligence molto dettagliate con i nostri legali dello studio Bonelli Erede Pappalardo e gli advisor di Lazard e Deloitte, che ci hanno seguito in tutta la vicenda. A novembre c’è stata la presentazione da parte dei principali manager di Telecom Italia Media, e mano a mano che procedevamo nelle due diligence vedevamo una crescente determinazione da parte di Telecom a concludere la vendita. Era evidente che ci credevano perché ritenevano che fosse una scelta da compiere per focalizzare energie e risorse del gruppo Telecom in attività più core business, più strategiche (...)».
Quand’è che vi siete resi conto che potevate arrivare alla stretta?
«I nostri interlocutori erano i manager di Telecom Italia Media, i loro avvocati, Mediobanca e Citigroup, gli advisor di Telecom, e il dottor Peluso con il suo team. Ma le decisioni sulla vendita sarebbero state prese dal consiglio di amministrazione di Telecom, presieduto da Franco Bernabè».
Dove i consiglieri erano divisi sulle scelte da fare, e il partito a favore del Fondo Clessidra vedeva schierati personaggi di peso. Quindi dovevate muovervi con circospezione.
«Con buonsenso, direi. Pensando all’interesse di tutti (...)».
Alla fine però il 18 febbraio il Cda di Telecom decide di approvare la trattativa in esclusiva con voi. Si sentiva già La7 in tasca?
«Quello era solo l’inizio. Con gli avvocati e gli advisor ci siamo messi subito a lavorare per la stesura degli accordi contrattuali. Giorno e notte a mettere a punto le carte».
È quello che racconta anche l’avvocato Carta Mantiglia, chiamato al lavoro più volte la notte per perfezionare i documenti da presentare a Telecom.
«Sono stati giorni in cui nella sala 11 dello studio Erede non si perdeva un attimo di tempo. Ormai alla reception mi riconoscevano. Ero di casa. Siamo entrati in partita alla grande mercoledì 20. Avevo un impegno familiare per cena, ma alle 23 sono ritornato allo studio Erede e sono stato lì fino alle 2 del mattino. Il giorno dopo abbiamo iniziato a lavorare in Telecom ai contratti per tutta la giornata e poi ancora da Erede, dove magicamente alle 22 sono comparse delle pizze che abbiamo divorato. Poi venerdì ancora dalle 6 di pomeriggio fino alle 5 del mattino; il sabato pomeriggio dalle 17 alle 22; e la domenica fino alle 9 di sera. Ho dovuto anche rinunciare alla partita del Toro a Cagliari che ho visto a pezzi sull’iPad, e che abbiamo pure perso all’ultimo secondo per 4 a 3, per cui poi ero un po’ giù di tono. Lunedì 25 tutto il giorno allo studio Erede, poi a cena fuori e di nuovo da Erede fino a mezzanotte...»
Ma anche un pezzo da novanta come l’avvocato Erede passava giorni e notti a studiare il dossier di La7?
«Nei momenti strategici l’avvocato Erede era presente. Chi ci ha seguito passo passo insieme agli avvocati Veneziano e Giovannardi è stato l’avvocato Carta Mantiglia, persona molto competente. Con me c’era sempre Marco Pompignoli, nostro cfo e consigliere di amministrazione della Cairo Communication, che è stato straordinario e instancabile. E hanno dedicato tempo ed energie Uberto Fornara, ad della Cairo Communication, e Giuseppe Ferrauto, direttore generale della Cairo Editore (...)».
E il giorno dopo, lunedì 4 marzo, c’è finalmente il consiglio di Telecom Italia Media...
«Alle 11. E alle 13,30 mi chiama Peluso e mi dice che hanno deliberato la vendita di La7 srl alla Cairo Communication. Era il giorno del compleanno di Giuseppe, il mio terzo figlio, e alla sera abbiamo festeggiato in famiglia».
L’atto formale della firma del contratto è però avvenuto il 6 marzo.
«La sigla del contratto c’è stata alle 13,35 del 6 marzo. Per Telecom Italia Media ha firmato il presidente Severino Salvemini. A quel punto abbiamo fatto l’annuncio congiunto. Eravamo tutti da Erede: gli advisor, gli avvocati, e tutti i manager nostri e di Telecom che hanno collaborato all’accordo. Ferrauto, maniaco della fotografia, ha immortalato i momenti clou».
Sono dunque passati poco più di dieci anni da quando nel novembre 2002 lei ha firmato il primo contratto per la concessione pubblicitaria di La7 e adesso ne è diventato anche l’editore. Un bel salto.

Capitolo VIII – Marzo 2014
Questa è la mia 7

È passato poco più di un anno da quel fatidico mercoledì 6 marzo 2013, giorno in cui Urbano Cairo (...) ha autografato il contratto di acquisto di La7 che Telecom Italia Media aveva messo in vendita nell’estate dell’anno prima. L’intesa prevedeva il riconoscimento da parte della Cairo Communication di un corrispettivo di un milione di euro a Telecom Italia Media, che prima del trasferimento della società si impegnava però a ricapitalizzare La7 srl (“per un importo tale per cui la società avrà una posizione finanziaria netta positiva non inferiore a 88 milioni di euro”, recitava un comunicato. Ricapitalizzazione che avrebbe contribuito a raggiungere il livello di patrimonio netto concordato tra le due parti, e cioè 138 milioni di euro). Gli accordi prevedevano anche la sottoscrizione di un contratto di fornitura di capacità trasmissiva di durata pluriennale tra La7 srl e Telecom Italia Media Broadcasting srl e l’impegno di Cairo Communication di non cedere la partecipazione per almeno 24 mesi. Quel che si dice un bel colpo. Accolto con stupore, spocchia e non pochi sospetti da buona parte del mondo mediatico e politico italiano (...).
“Ho firmato l’acquisto il 6 marzo e la girata delle azioni da parte di Telecom Italia Media è avvenuta il 30 aprile dopo le autorizzazioni previste dalle normative. Il 1° maggio siamo diventati azionisti a tutti gli effetti di La7”, rammenta Cairo a cui è spuntato di nuovo il sorriso.
Cinquantacinque giorni senza poter mettere piede in azienda e cominciare la grande ramazzata. Per non parlare del rischio che Telecom facesse marcia indietro sull’accordo. Posso solo immaginare lo stress.
«Il rischio che Telecom facesse marcia indietro non l’ho mai preso in considerazione, conoscendo la società e le persone di Telecom Italia Media, con cui avevamo fatto addirittura un accordo che prevedeva che nella fase di interregno sarei stato interpellato per ogni operazione superiore a una certa cifra. Però è vero che puoi considerare un’azienda davvero tua solo quando avviene la girata delle azioni (...)».
La verità vera è che sono arrivato a Roma solo il 9 maggio perché ero stato bloccato prima da un’influenza di stagione e poi da una serie di impegni improrogabili. La prima tappa è stato il mio ufficio nella sede di via della Pineta Sacchetti e poi insieme all’amministratore delegato Marco Ghigliani sono andato in via Novaro, dove c’è la produzione. Ho fatto un veloce giro degli studi e degli uffici per salutare e stringere le mani a tutti. Da lì sono passato alla direzione di rete, in via Angelo Emo. Mentre aspettavo Paolo Ruffini mi sono accorto che nel salottino c’era solo uno dei nostri giornali, ragion per cui ho chiamato i miei a Milano e ho chiesto di mandare d’ora in avanti un paio di copie dei nostri periodici in ogni sede di La7. Dopo una riunione con Ruffini e Gianluca Foschi, il capo del palinsesto, ho deciso di completare il tour per i saluti di rito. Dal quarto piano scendo al terzo, saluto tutti, ma quando arrivo al secondo scopro che è vuoto. E vuoti sono anche il primo e il pianterreno. Il che voleva dire che su 3mila metri quadrati di sede, 1.800 prendevano polvere. A quel punto ho richiamato la segretaria a Milano e le ho detto di non mandare più i giornali in via Emo perché presto ce ne saremmo andati da quel posto.
Quanto tempo c’è voluto per il trasloco?
«A metà giugno erano tutti nella sede di Pineta Sacchetti dove si erano liberati alcuni spazi, visto che una parte del personale era rimasto in organico a Telecom Italia Media. Tra l’altro stare tutti insieme è più funzionale».
Qual è ora l’organico di La7?
«Quando sono arrivato c’erano 415 dipendenti di cui un centinaio di giornalisti. E il numero è rimasto più o meno lo stesso».
I giornalisti sono un esercito...
«Diciamo un numero importante. Dobbiamo utilizzarli al meglio sia per un tema di economicità gestionale sia per dare a ciascuno più opportunità di esprimere le proprie capacità. Ovviamente è indispensabile la voglia di rimettersi in gioco facendo cose nuove e diverse (...).
Nel 2012 La7 srl aveva perso 97 milioni di euro. Una cifra che, se non poteva permettersela Telecom, figurarsi se potevo farlo io! Per contenere le perdite, le leve su cui agire sono due: sviluppare i ricavi – e il quadro generale non era dei più favorevoli in un momento di grave crisi economica e della raccolta pubblicitaria – e contenere i costi. Abbiamo dovuto agire velocemente sui costi senza abbassare la qualità dei programmi e degli ascolti. Su questo fronte credo che abbiamo fatto bene, tanto che nel 2013 abbiamo avuto nel giorno un incremento degli ascolti dell’11% (+42% dalle 9 alle 12) e del 22% nel prime time. Il 2013 è stato l’anno che ha portato i migliori risultati di sempre, con il 4,36% di share nel totale giornata di La7 e La7d insieme e il 5,42% in prime time (...).
Qual è il costo del lavoro a La7?
«Intorno ai 37 milioni di euro, il che corrisponde grosso modo al 30% del fatturato. Quasi doppio rispetto al 17% di Mediaset. L’altra voce importante è rappresentata dal costo per la banda di trasmissione, i mux (il dispositivo che permette di condividere la capacità disponibile di un unico mezzo trasmissivo fra più canali trasmissivi: ndr), negoziato con Telecom Italia Media l’anno scorso».
Ci faccia capire, su cosa ha agito finora per risparmiare?
«C’erano tre grandi aggregati su cui lavorare. Solo i costi generali pesavano per circa 25 milioni, che abbiamo velocemente abbassato di 11 milioni. E sono convinto che si possa fare ancora di più».
Quando parla di costi generali a che cosa si riferisce?
«Agli affitti, tanto per farle un esempio. E poi ai famosi 500mila euro di taxi, ai viaggi, ai costi di reception, all’Ict, ai costi legali e ai compensi del Cda (al momento uguali a zero). Nel novembre 2012 la voce ‘viaggi’ segnava una spesa di 130mila euro che quest’anno è scesa a 30mila. Noti bene che non stiamo viaggiando di meno, ma semmai di più perché realizziamo trasmissioni a Milano, come ‘La gabbia’ e, fino a fine febbraio, ‘Linea gialla’, che prima non c’erano. Però abbiamo cominciato tutti, io compreso, a viaggiare in treno, e quando prendiamo l’aereo programmiamo il viaggio e chiudiamo il biglietto senza lasciarlo aperto fino all’ultimo momento, evitando così che le tariffe schizzino verso l’alto. Se uno deve andare a Milano o a Roma sa quali sono gli impegni e i tempi e può ragionevolmente organizzarsi. Stiamo parlando di economie normali che non mi pare richiedano lacrime e sangue. Le faccio un altro esempio: nella sede milanese di via Magolfa un servizio recapitava ogni mattina i giornali sulla scrivania dei giornalisti al costo di 4mila euro all’anno. Ho detto: va bene, i giornali sono disposto a pagarli, ma che almeno ognuno se li vada a comprare in edicola».
Le voci importanti di costo riguardano le produzioni e l’acquisto di diritti all’estero. A sentire le geremiadi dei produttori lei non ha guardato in faccia a nessuno.
«Per film e telefilm si spendevano 27 milioni l’anno, cifra troppo alta per una televisione come La7 che produce internamente il 75% dei programmi, visto che dalla mattina presto alle 14,30 – da ‘Omnibus’ al ‘Tg La7 Cronache’ – sono tutte nostre produzioni. Poi si attacca con un palinsesto pomeridiano fatto di telefilm e film fino alle 20, quando si riprende con le produzioni originali. Dovendo riempire il 25% del palinsesto, e per di più non nei momenti apicali, spendere 27 milioni l’anno in diritti mi sembrava decisamente eccessivo».
Di quanto avete tagliato?
«Ora spenderemo un terzo. Alla scadenza dei diritti abbiamo comprato un po’ meno e a prezzi più bassi. Del resto, con la crisi il mercato si è raffreddato molto e noi spendiamo attorno ai 10 milioni senza che la rete ne soffra. I film e telefilm rendono molto meno in termini di ascolto delle nostre produzioni e paradossalmente le pellicole classiche fruttano di più di quelle nuove. Proprio di recente abbiamo trasmesso un film molto bello, ‘Social Network’, che ci era costato molto ma che ha avuto un ascolto sul 3% come i vecchi telefilm di ‘Maigret’ il sabato sera (una celebre produzione francese interpretata da Bruno Cremer degli anni Novanta: ndr)».
Per non dire che non ha fatto sconti alle società di produzione, da Magnolia a Endemol, su cui si dice sia intervenuto con la scure.
«Immagini cruente a parte, la verità è che sul fronte delle produzioni avevamo i costi maggiori. Abbiamo mantenuto quanto era per noi importante: ‘Piazza pulita’ realizzato da Magnolia, ’Le invasioni barbariche’ che coproduciamo con Endemol, ’Servizio pubblico’, autoprodotto da Santoro, Crozza realizzato da Itv Movie di Beppe Caschetto, mentre ‘Linea gialla’ era realizzato da FremantleMedia. I programmi di Mentana, Gruber, Paragone, Panella, Merlino e ‘Omnibus’ sono fatti direttamente (...)».
Allora è proprio vero quello che dicono, che cioè sia lei a decidere tutto quello che va in onda su La7.
«Ma no. Il nostro è un ottimo lavoro di squadra. Alla fine le decisioni sono il risultato del lavoro preparatorio. Però è vero che sono un editore che ama seguire quello che succede nelle case editrici passo passo e ho un rapporto stretto e diretto con i direttori».
È vero che lei vuole vistare tutte le copertine dei suoi giornali prima che vadano in stampa?
«Sicuramente mi piace vedere le copertine prima che vadano in stampa. Mi arrivano sull’iPhone ed è un attimo dare un’occhiata.

Capitolo IX – Marzo 2015
Il metodo Cairo

Urbano Cairo è tra i pochi editori che possono vantarsi di fare utili e di reggere bene in edicola. Senza trascurare i conti di La7, riportati in attivo.
E al secondo giro di boa come editore televisivo incassa la soddisfazione di vedere il suo Floris battere ‘Ballarò’. Qual è il segreto? Poche e semplici regole che segue con convinzione (...).
Leggendo il vostro bilancio ho registrato due o tre cose che mi hanno colpito. Ad esempio, non perdete niente in edicola.
«In edicola abbiamo ricavi per 73,5 milioni di euro, nel 2008 erano 70,5 e nel frattempo il mercato è sceso del 41%. E questo perché investiamo in tutti i settori di attività di un editore di periodici. Abbiamo tenuto i prezzi a un livello competitivo mantenendo un euro come prezzo di copertina. Vede, rompere l’euro è faccenda psicologicamente delicata per i lettori, non basta più una moneta, ma ce ne vogliono due. Oltre a un’attenta politica di mantenimento dei prezzi investiamo nelle tirature delle nostre testate per fare in modo che i lettori le trovino dappertutto».
Con che effetto sulle rese?
«Tendenzialmente, per i nostri settimanali abbiamo l00mila copie di resa a numero, mentre la concorrenza rimane a livelli decisamente più bassi: 50-60mila. Mi sono fatto due conti e ho calcolato che se ci adeguassimo arriveremmo a risparmiare 700-800mila euro a testata ottenendo di conseguenza margini molto più alti. Considerando tutti i settimanali, risparmieremmo attorno ai tre milioni e mezzo.
Perché non lo fate?
«Perché teniamo molto, moltissimo a non perdere opportunità di vendita e mantenere una presenza capillare sui territori. Se riduci la tiratura, se distribuisci meno copie alle 30mila edicole sparse per tutta la penisola, è inevitabile che le vendite soffrano».
Investite molto anche in comunicazione.
«Questo è poco ma sicuro. Investiamo su La7, su Mediaset, sulla Rai: più o meno un terzo, un terzo e un terzo. Tra pubblicità e locandinaggio sono oltre quattro milioni l’anno. Se facessimo come gli altri investiremmo la metà. E invece no».
Pure sulla foliazione non badate a spese.
«Credo di poter dire che siamo l’unico editore che mantiene le foliazioni sempre a un livello importante: quella redazionale non scende mai sotto le 105 e le 110 pagine, a cui si aggiungono le 40-60 pagine di pubblicità. Gliela faccio breve: se stessi lì a fare una politica concentrata sul risparmio riuscirei ad avere margini maggiori di cinque, sei milioni l’anno. Pur avendo molta attenzione ai costi non voglio togliere ossigeno alle testate. Noi continuiamo a investire perché convinti di raccogliere buoni frutti e i risultati si vedono negli oltre 100 milioni di fatturato annui che facciamo. Tanto per darle un ordine di misura, le ricordo che Mondadori ne fattura 297. I confronti saranno pure poco eleganti, ma sono pur sempre indicativi. Quando iniziammo, nel 1999, noi fatturavamo 50 miliardi e Mondadori 1.500 miliardi. In proporzione eravamo uno a trenta. Oggi siamo uno a tre. Come editoria noi vantiamo una marginalità positiva di quasi 14 milioni e loro di 3 milioni».
Perché avete scelto di rinunciare ai gadget?
«Perché ci teniamo a mantenere la qualità, la forza e la vivacità delle testate. Le operazioni di gadget o di altri tipi di allegati non fanno altro che peggiorare la percezione del giornale con il rischio che il lettore decida di comperare una testata perché è attratto dall’allegato e non dal contenuto. Invece ho il desiderio che il lettore compri il mio giornale perché gli piace e non per quello che ci trova cellophanato. Evitiamo anche di fare abbinamenti tra testate che rischiano di deprezzare il prodotto dando l’idea che viene regalato (...)».
Il principio di custodire e difendere la qualità di un prodotto viene applicato anche a La7.
«È vero, abbiamo dovuto tagliare i costi, soprattutto gli sprechi e le inefficienze, ma abbiamo mantenuto tutti i conduttori e i giornalisti più prestigiosi, Enrico Mentana, Lilli Gruber, Santoro, Formigli, oltre al formidabile Maurizio Crozza. E non voglio dimenticare le instancabili e bravissime Tiziana Panella e Myrta Merlino. E ne abbiamo ingaggiati di nuovi come Giovanni Floris (...)».
Il fatto che il costo contatto in Italia sia così modesto sta avendo effetti negativi anche sulla pubblicità su Internet, campo peraltro dove lei non ha mai voluto mettere piede.
«Distinguiamo l’attività della carta stampata da quella della tivù. Su La7 il digitale ci vede attivi e presenti e investiremo certamente di più (...)».
La7 si qualifica come una rete quasi interamente dedicata all’informazione. Ha in mente qualche cambiamento di rotta?
«In effetti stiamo pensando di innestare qualcosa di diverso da trasmissioni di sola informazione e di solo approfondimento che, peraltro, piacciono alla gente, e se ben curate mantengono un appeal notevole.
Pronti a varcare le colonne d’Ercole dell’intrattenimento?
«Con Gianluca Foschi, responsabile del palinsesto, e con Marco Ghigliani, il mio prezioso amministratore delegato, ci stiamo ragionando.
Immagino che si stiano cimentando con proposte anche le società di produzione che già lavorano con voi, come Magnolia, Endemol, e Itv Movie. Secondo la sua esperienza di editore televisivo conviene di più produrre in proprio o appaltare?
«Se una società di produzione esterna lavora per te avrà un suo utile e questo rende la trasmissione più costosa, ciò non toglie che in alcuni casi, considerato l’apporto creativo, organizzativo e logistico, i valori siano accettabili e la collaborazione funzioni. Ad esempio, abbiamo dato in appalto a Itv Movie ‘Crozza nel Paese delle meraviglie’ e ‘di Martedì’, e i risultati sono ottimi.
Socio di Itv Movie è il suo amico Beppe Caschetto che è l’agente di Crozza, Floris, Gruber. Marco Bassetti di Endemol rischia invece di perdere il contratto per ‘Le invasioni barbariche’, il talk show di Daria Bignardi, quest’anno non all’altezza delle aspettative e dei costi del programma.
«Nel mondo della televisione si chiacchiera molto. ‘Le invasioni barbariche’ chiuderà la stagione con una media al 3% in una serata, il mercoledì, dove c’è una grande competizione. Ha un target di ottima qualità che piace molto alle aziende. Con Daria Bignardi stiamo pensando a cosa fare per il futuro».
Lei è molto diplomatico. Vediamo se riesco a provocarla chiedendole se prevede altri tagli a La7?
«Quando sono arrivato la situazione era tragica. La7 perdeva 100 milioni l’anno, da dieci anni. Abbiamo subito provveduto al risanamento tagliando i costi ma senza toccare la qualità del prodotto. Ora proseguiamo con lo sviluppo (...)».
Del resto è arcinoto che stiamo vivendo un periodo durissimo. Lei è anche azionista di Rcs MediaGroup ed è stato tra l’altro il più esplicito a manifestare il proprio dissenso nei confronti dell’ad Pietro Scott Jovane e la propria contrarietà sull’ipotesi di vendita di Rcs Libri.
«Non conosco i numeri nel dettaglio ma solo quelli globali. Purtroppo vedo un’azienda che dal gennaio 2012 al settembre 2014 ha bruciato 288 milioni di cassa e dismesso per 400 milioni. Io continuo a pensare che vendere i gioielli di famiglia – come la sede e i libri – per coprire le perdite non sia una grande idea. Quel che è necessario è rendere l’azienda più efficiente. Il taglio dei costi è un’operazione sacrosanta perché gli sprechi vanno combattuti».
Mi pare chiaro, ma non è una novità, che non le piaccia la gestione di Pietro Scott Jovane.
«Intanto mi faccia dire che a livello personale ho simpatia per Jovane, i nostri figli vanno a scuola insieme, al Collegio San Carlo. Da azionista dico solo che un piano di risanamento non può durare più di tre anni».
Le piace l’operazione Gazzetta Tv?
«Anche se sono sempre pronto a cambiare idea, temo che in un panorama competitivo come quello dello sport in tivù, con investimenti miliardari in diritti e dirette molto costose, per Gazzetta Tv, pur essendo un brand molto forte e amato, non sarà facile aprirsi uno spazio».
So che non mi risponderà, ma non posso fare a meno di chiederglielo. Chi vorrebbe alla direzione del Corriere della Sera ?
«La mia idea è che si cambia il direttore di un giornale solo quando si ha la sicurezza di averne uno migliore e pronto per la sostituzione».