Adalberto Scemma, Guerin Sportivo 9/2016, 10 agosto 2016
PROVACI ANCORA SERSE– Subito una concessione all’ironia. Serse Cosmi ha cultura e sense of humour a sufficienza per accettare una riflessione semiseria sull’immagine di sé che viene rilanciata dai media
PROVACI ANCORA SERSE– Subito una concessione all’ironia. Serse Cosmi ha cultura e sense of humour a sufficienza per accettare una riflessione semiseria sull’immagine di sé che viene rilanciata dai media. Di suo ci ha messo un volto scultoreo da lottatore turco, un naso tenacemente appiattito a consolidargli la fisionomia, la voce in cartavetro, la postura raccolta di un cagnaccio pronto all’agguato. Crozza ne ha ritagliato un personaggio da fumetto (memorabile il Cosmi con una tibia in bocca che urla “Liveraaniiiiiiiii!!”) chiamando a supporto Cesare Lombroso e i suoi studi sulla fisiognomica. Ma lo avrebbe mai fatto, viene da chiedersi, se Cosmi avesse avuto il volto da sagrista di Guidolin o quello da bancario di Gasperini? Risposta pleonastica. Così come è scontata, perché in punta di condivisibile realismo, la reazione di un Cosmi prevedibilmente piccato. «Quando le mie squadre vincevano – osserva – era merito della mia grinta, quando perdevano era colpa delle mie incazzature. Mai che i risultati fossero il frutto delle mie scelte tattiche. Ho cercato di venirne fuori, quel cliché mi ha dato inizialmente fastidio ma poi mi sono rassegnato. La gente è ormai condizionata dall’aspetto mediatico». Facciamo un passo indietro, pensiamo al Cosmi uomo di spettacolo: la voce prestata a Don Hall, il personaggio dei fumetti, il ruolo di un detenuto ne “Il maestro di lingue”, il duetto con Crozza. Rifarebbe proprio tutto? «Alcune cose sì, altre no. Sono stato usato, magari anche sfruttato. Può darsi che io abbia sbagliato il modo di comunicare, ma di certo si è cercato di fare emergere il personaggio a scapito dell’allenatore. Forse mi sono gestito male e ho finito per inflazionarmi, lo dico in maniera disincantata. Finché non è arrivata la grande stagione del Trapani, per fortuna, a proporre del sottoscritto un’immagine meno stereotipata». Stagione irripetibile, verrebbe da pensare. Ogni traguardo, però, può diventare un punto di partenza. In che modo? «Evitando di farsi prendere dal panico. Mi rivolgo all’ambiente, prima ancora che ai giocatori. Il Trapani ha fatto qualcosa di unico, la paura di non ripetersi può agire da freno. È chiaro che sarà molto difficile, a tutto c’è un limite, ma il concetto vale per l’aspetto numerico, non per il modo in cui si interpreta il calcio. La qualità non è misurabile, quindi mi piace pensare che non abbia limiti». Il Trapani ha vissuto un finale di campionato da record. Quando si è accorto che stava cambiando marcia? «Ci sono state a gennaio due-tre situazioni che mi hanno fatto riflettere. Mi è venuto in mente il mio Genoa, quello che nel girone di ritorno aveva messo insieme 46 punti, un bottino ineguagliabile. Ma il Trapani è arrivato a un passo: 44 punti nelle ultime 20 partite! Il segnale? Il pareggio con il Cagliari, un 2-2 rocambolesco, gol di Joao Pedro a tempo scaduto. La rabbia ma anche la consapevolezza che nelle giornate amare c’è spazio per considerazioni positive. Da quel momento la stagione del Trapani è svoltata». In ogni impresa c’è sempre una componente di concretezza ma anche una di magia. Nel caso del Trapani? «La concretezza è venuta dal blocco-squadra, da un Rizzato che a 35 anni non ha saltato una partita. Anche la magia, però, è venuta dal collettivo, come un filo elettrico che ha toccato un po’ tutti. Se devo fare un nome spendo quello di Petkovic, non tanto perché ha stravolto coi i suoi gol certi risultati, quanto perché ha cambiato il modo di giocare di tutta la squadra. Era difficile farlo, a gennaio. Lui c’è riuscito facendo cambiare ritmo a giocatori che stavano giocando bene, certo, ma non al livello, straordinario, che si è visto poi». Petkovic è genio e sregolatezza. Che cosa gli toglierebbe e che cosa gli regalerebbe per rimetterlo in equilibrio? «Se tentassi di togliere a Petkovic la sregolatezza rischierei di togliergli tutto! Interverrei con mano molto leggera. Anche se non sta scritto da nessuna parte che chi ha talento debba essere necessariamente poco disciplinato. Sul talento, che è dote di natura, un allenatore non può incidere. Può incidere, invece, sul comportamento, responsabilizzando il giocatore, spiegandogli che cosa significa fare parte di un gruppo. Ma serve anche la collaborazione dei compagni». Chi, tra i compagni, ha compiuto il salto di qualità più evidente dal punto di vista tecnico? «Citro, naturalmente, ma anche Eramo, che ha fatto un girone di ritorno eccezionale. Poi Nizzetto o Scozzarella che già davano in partenza certe garanzie. Per non dire della difesa, il reparto più efficiente del campionato dal punto di vista realizzativo: 17 gol complessivi, una manna autentica». Prendiamo Citro, altro grande protagonista. Quanto ritiene di avere inciso sulla sua maturazione? «Ho contribuito a fare emergere quel talento che già possedeva. Lui ci ha messo del suo in termini di comportamento». Se pensiamo al talento, il rimpianto è tutto per Sodinha, non crede? «Nel suo caso la questione non è caratteriale ma fisica. Sodinha ha nel dna le stimmate del campione ma ha subito cinque-sei interventi al ginocchio, ecco il problema. Poi veniva preso in giro per il peso, che dipendeva però dalla sua complessione fisica. Detto questo, avrei giocato eternamente con un Sodinha sovrappeso!». Chi, tra i giocatori che ha allenato in passato ha qualche analogia con Sodinha? «Miccoli, forse, per il funambolismo, poi Di Natale. Sodinha, però, ha caratteristiche uniche. Se parliamo di classe pura, non ho mai allenato nessuno alla sua altezza. Se fosse stato fisicamente al cento per cento sarebbe emerso non soltanto in serie A ma anche in squadre di altissimo livello». Scendiamo di livello, torniamo alla serie B. Quest’anno non ci sarà più l’effetto sorpresa, il Trapani verrà visto dagli avversari con altri occhi. Un problema da risolvere o uno stimolo in più? «Ci guarderanno in maniera diversa ma alla fine saremo sempre considerati una squadra che dovrà lottare per salvarsi». Lei ha definito quello del Trapani un progetto sofisticato. In che senso? «Ormai nel calcio è sofisticato ciò che è semplice. Nel Trapani c’è il rispetto dei ruoli, senza intromissioni: grande presidente, allenatore esperto con uno staff adeguato. A completare il tutto c’era un ds lungimirante come Faggiano che ha fatto ora il salto di qualità passando al Palermo. Il suo sostituto, Pasquale Sensibile, ha però grande esperienza. Poi c’è la città, snella, lineare. Il giorno in cui il calcio mi dimostrerà di fare perno su valori come questi, valori veri, userò un altro termine». Crotone promosso, Trapani al terzo posto. Anche stavolta, dopo Carpi e Frosinone, la serie B ha privilegiato gli outsiders. Episodi occasionali o certi equilibri stanno cambiando? «La casualità conta fino a un certo punto. Quando si affronta la categoria rispettando sempre, come ha fatto il Crotone, una precisa filosofia, prima o poi l’annata giusta salta fuori. Altro discorso è quello delle squadre che scendono in B con il paracadute. Il Cagliari ha avuto vantaggi economici evidenti, gli stessi che avrà quest’anno il Verona». Anche gli Europei hanno esaltato gli outsider, non crede? «Scarse le indicazioni, data la brevità del torneo. Il Portogallo non ha rubato nulla ma non era la squadra più forte». Le difese hanno prevalso sugli attacchi. Si tornerà a una fase difensiva all’italiana? «Il calcio ha tre fasi: difensiva, offensiva e di transizione. Nessuna esclude l’altra. Il Barcellona ha Messi ma anche fior di difensori, Sacelli senza Baresi e soci non sarebbe andato da nessuna parte». Lei ha quasi sempre scelto la difesa a tre. Cambierà rotta? «All’inizio giocavamo a quattro, poi ci siamo accorti che c’erano giocatori che non avevano queste caratteristiche come Fazio, trasformato in esterno nella difesa a cinque. Non sono un integralista, all’interno di un sistema di gioco mi piace anche variare». Scelga tre giocatori della passata stagione: la sorpresa, la conferma e la delusione. «La sorpresa è Petkovic, ovvio. La conferma è venuta da Caprari. La delusione ? Direi Cocco, ma se chi gioca al suo posto si chiama Lapadula e fa una trentina di gol, la delusione è relativa». L’“effetto Cosmi“ ha funzionato a Trapani. In precedenza? «Dico Pontevecchio, la squadra del mio paese che ha sfiorato la C2. L’Arezzo, dove sono cresciuto e mi sono formato. Il Perugia in assoluto: vittoria nell’Intertoto, salvezze, valorizzazioni. Poi il Genoa, un periodo meraviglioso con un epilogo devastante. O il Lecce, per quella rincorsa straordinaria. Anche il Brescia, in gran parte». C’è spazio per qualche mea culpa? «Errore mio quello di essere cresciuto con un tipo di calcio pensando di poterlo proporre dovunque. Al Genoa avrei dovuto stare attento anche ad altre cose: fuori dal campo, dico, perché in campo quella squadra ha vinto alla grande con il record di gol nel dopoguerra». Dove, invece, non ha avuto una giusta gratificazione? «Andrebbe fatta una rivisitazione dei miei mesi a Udine. Squadra non brillantissima arrivata però alla semifinale di Coppa Italia, alla qualificazione di Champions e ai trentaduesimi di Coppa Uefa. Il mio errore? Non essermi adeguato all’ambiente in cui mi trovavo». Ranieri ha dimostrato che esistono ancora i sogni. È così? «Direi di sì, il calcio si realizza spesso attraverso cose semplici. Il guaio è che nel nostro mondo ci sono troppe persone totalmente prive di passione. C’è chi ci mette la faccia e c’è chi utilizza il calcio esclusivamente per un aspetto economico. Dopo tanti anni non è che posso sorprendermi più di tanto e dire “oddio dove mi trovo”. Prendo atto, semplicemente. Altro non posso fare». Tra la promozione con il Trapani e un megaingaggio in Cina che cosa sceglierebbe? «In passato ho rinunciato ad avventure esotiche. Dopo Perugia sarei potuto andare all’estero anche in società importanti ma ho sempre voluto essere protagonista nel mio Paese. Poi mi sono sentito escluso, emarginato, e allora avrei scelto anche altre soluzioni. Ma soltanto perché non allenavo in Italia». Lei ha lavorato con Gaucci, Preziosi, Zamparini, Corioni, Spinelli. Se le è andate proprio a cercare... «Qualcuno mi ha definito un sofisticato collezionista di presidenti. Dal mazzo però estraggo Gaucci, altra categoria, vent’anni avanti rispetto a tutti gli altri. Difficile farmi cambiare opinione». A proposito di opinionisti. Chi, a livello mediatico, lascia ancora il segno? «C’è una generazione povera di talenti tra i calciatori ma anche tra i giornalisti. Si è alzato il livello medio ma nessuno racconta più il calcio come Brera, Viola, Caminiti, facendolo vivere, regalando emozioni. Le nuove leve nascono in un contesto completamente diverso, sono impoverite dalla presenza televisiva e dallo spazio ridottissimo concesso alla scrittura. In tv viene detto molto ma rimane poco. Certi articoli, anche cattivi, incidevano molto di più». Se le dessero del visionario si offenderebbe o si sentirebbe gratificato? «In parte lo sono. Il fatto che alleni in questo calcio sperando che qualcosa possa ancora cambiare credo sia la dimostrazione di quanto io sia visionario. A volte basta un pianto e l’impatto può diventare persino più devastante di qualsiasi intervista. L’immagine mia e di Oddo abbracciati dopo l’ultima sfida dei playoff credo abbia rappresentato qualcosa di inedito e comunque, chissà, anche di educativo». C’è un maestro cui si è ispirato? «Non avendo giocato da professionista non ho avuto maestri. Quando ho cominciato ad allenare tutti guardavano a Sacchi, così come oggi molti si ispirano a Guardiola. I grandi, però, fanno cose irripetibili, copiarli non avrebbe senso. Zeman, Mazzone, Guidolin possono avermi fatto capire quali strumenti usare, ma se proprio devo cercarmi un modello io penso a Carlo Ancelotti. Lui ha qualità di carattere tecnico e di carattere umano in perfetto equilibrio».